Storie interrotte del teatro italiano

Il manifesto di Primavera dei Teatri 2011

Non tira aria da festival quest’anno sull’Italia teatrale. Con tutte le “storie interrotte” che ci troviamo a conoscere in questi giorni, c’è da preoccuparsi un bel po’. Certo, c’è la solita (e legittima) storia dell’austerity e dei tagli alla cultura (e non solo), che ha spazzato via molte iniziative e, come vedremo a breve, ne sta mettendo a rischio altre, addirittura fra quelle più eccellenti. Ma, si trattasse “solo” di questo, andremo avanti come facciamo ogni giorno: a lamentare una ristrettezza che ogni anno riduce sempre più all’osso, quando non stermina, progetti e ambizioni, propositi e iniziative, e contemporaneamente a spaccarci la testa per trovare una via d’uscita, inventando soluzioni alternative e approssimandoci ad altre strade per la sopravvivenza lontanissime dall’italica consuetudine, fra crowdfunding (festival e compagnie ci stanno provando), ingarbugliatissimi bandi europei e interazioni con il sostegno privato, che comunque, non essendo presieduto da norme di defiscalizzazione come nel mondo anglosassone o in Sudamerica, fatica ad attechire e a svilupparsi.

Ma qui, come vedremo, quando si parla di cultura non si tratta solo di soldi, quanto piuttosto di un generale stato d’incuria ormai consolidato, come quello che ha portato al crollo delle domus di Pompei, tanto per citare un caso emblematico che ha ammutolito il mondo.
Non ci sarà a fine maggio il frequentatissimo festival Primavera dei Teatri, cui ogni anno, da Castrovillari, spettava l’apertura della stagione estiva: appunto, qui non si tratta (solo) di tagli e austerità, ma probabilmente di un blocco in parte involontario, dovuto agli inceppamenti della macchina burocratica che non ha ancora pubblicato il bando con cui Scena Verticale aveva potuto sostenere le passate edizioni (leggi l’articolo su Teatro e Critica). Renato Palazzi, da MyWord, lancia un appello all’Assessore alla Cultura della Regione Calabria e parte una raccolta di firme su Facebook e sui vari siti teatrali nella speranza di dare un segno condiviso che possa essere ascoltato anche fuori dai teatri. Sempre da Facebook un amico ci fa notare la penosa situazione del Teatro di Poggibonsi, questa sì legata ai tagli, che dovrà chiudere i battenti proprio a fine aprile, anche se un Comitato sta cercando di salvarlo (leggi l’articolo). Il panorama teatrale si preoccupa anche per il Kollatino Underground, riferimento capitolino per quanto riguarda la ricerca che, pur vedendo finanziate in parte le proprie attività dalla Città di Roma, ora si trova in “quarantena” proprio a seguito di un sopralluogo delle forze dell’ordine, che ne hanno sospeso l’attività pubblica (leggi l’articolo su Krapp’s Last Post). In questi giorni arriva la notizia che il celebre CRT di Milano, spazio di tutt’altro contesto e target, non potrà chiudere come previsto la propria stagione: saltano gli ultimi due spettacoli per «non aggravare una situazione economica già molto pesante, che avrebbe messo in seria difficoltà anche le compagnie ospiti» (l’articolo sempre su Klp). E a Bologna le cose non vanno meglio: venerdì 27 aprile Libero Fortebraccio Teatro di Roberto Latini ha indetto una conferenza stampa per la chiusura del Teatro San Martino. In 3 anni la compagnia ne aveva fatto un vivace punto d’incontro (l’unico in centro in quel periodo) per il nuovo teatro ma, dopo la non-stagione emblematica dello scorso anno, nel 2012 dichiara di rinunciare definitivamente alle proprie attività.

Il Teatro San Martino di Bologna - fonte www.teatrosanmartino.it

A “sfogliare” gli articoli usciti in quest’ultima settimana sembra di scorrere un bollettino di guerra. Roberto Latini e il suo Fortebraccio Teatro si sono trasferiti a Bologna qualche anno fa. In questi giorni hanno voluto esprimere pubblicamente il disagio per una situazione di stallo difficile da superare, ennesima traccia dei centri cittadini che muoiono, lasciando sempre più spazio (quando va “bene”) al monopolio degli spritz e delle grandi catene d’abbigliamento. Qual è il punto? Quello che un tempo era riconosciuto “pubblico servizio”, ma che ormai, nei tempi recenti, può sembrare una sconsiderata utopia: veder garantito, per quel che si può, il sostegno da parte dell’amministrazione pubblica a un’esperienza culturale che si propone come realtà produttiva e allo stesso tempo promotrice di una programmazione annuale, fra incontri, laboratori e soprattutto tanti spettacoli. Questo era Libero Fortebraccio Teatro: una compagnia che dopo aver girato tanto (come del resto continua a fare con gran successo) aveva deciso di posarsi al centro di una città sfigurata rispetto ai luoghi comuni e ai ricordi dei suoi anni d’oro, quei mitici ’70 che ne hanno fatto una bandiera per l’arte, la cultura e non solo… Una compagnia in residenza, che però avvertiva la responsabilità del radicamento e aveva inteso di “ricambiare il favore” alla città con una programmazione destinata a scuotere gli animi e gli sguardi di un centro spesso decorativo e sonnacchioso. Non stiamo a dire di tutti i Ronconi, Corsetti, Stein che sono passati dal bel salone affrescato del San Martino, né di tutti i giovani artisti e spettatori che qui hanno potuto formarsi o di tutti quei gruppi che una data in Emilia non l’avrebbero mai avuta. Resta l’amaro in bocca, perché se quella di Fortebraccio è utopia, altrettanto straniante è il distacco da parte della pubblica amministrazione per questo lavoro e questi spazi, che contribuivano sostanzialmente a dare un senso a una città che si trascina a fatica, sugli allori ormai secchi dei suoi anni ruggenti, e  colloca in gran parte – con ottimi esiti, c’è da dirlo – lo spettacolo contemporaneo nelle proprie periferie. È vero, ci sono stati i duri quasi due anni di commissariamento, che hanno indubbiamente congelato, quando non addirittura distrutto, le realtà più fragili. Ma la disattenzione continua e se le esperienze più radicate e solide sopravvivono, quelle neonate come il San Martino devono andare avanti a programmare e produrre con 18mila euro l’anno, al limite anche reinvestendo i soldi destinati agli spettacoli nell’affitto di uno spazio che è di proprietà della Curia (che vedremo se prima o poi ci pagherà sopra l’Ici), insomma sugli aspetti gestionali del teatro, per tentare di tenerlo ancora aperto. «Il tempo dell’attesa» l’ha chiamato Roberto Latini in conferenza stampa: l’attesa non tanto o non solo dei fondi necessari per andare avanti, ma anche di un riconoscimento, di un segno, di un cenno qualsiasi. Ma il tempo dell’attesa è finito, e dal 1 maggio il Teatro San Martino è definitivamente chiuso (anche se gli allievi attori che qui si sono formati hanno programmato un evento per la prossima settimana).

Certo, c’è dell’altro, e non possiamo sempre stare qui a lamentare un’incuria e una disattenzione ormai irrisolvibili da parte della pubblica amministrazione che ormai è il legittimo leitmotiv delle nostre giornate: invece che puntare su un settore, quello culturale, che potrebbe rappresentare (e già rappresenta, quanto meno per chi lo vede da fuori dei nostri confini) una risorsa socio-economica di indubbio valore, si continua a investire irriducibilmente in ambiti (come quello industriale) ristretti e spesso insostenibili, che hanno sempre faticato a tenere a galla se stessi, figurarsi le comunità che vi si sono coagulate intorno. Ad ogni modo, da un capo all’altro della penisola, troviamo soluzioni alternative – basti pensare agli sforzi internazionali e trans-disciplinari che garantiscono non solo la sopravvivenza ma anche la vitalità di esperienze come Dro, Bassano e Terni – e iniziative che, sotto l’egida della “cultura bene comune” si sono impegnate in processi di riappropriazione di quegli spazi pubblici deputati al teatro ormai in disuso, dal più celebre Valle di Roma fino agli ultimi in ordine cronologico, l’ex Asilo Filangieri di Napoli e il Teatro Garibaldi di Palermo. Ma allo stesso tempo è impossibile tacere le leggerezze di una gestione culturale che continua a investire, seppur in maniera sensibilmente ridotta, milioni di euro su mega-eventi di dubbia sostenibilità e spesso di scarsa risonanza… E nel frattempo si ritrova incapace di valorizzare, quando non addirittura di riconoscere, prima di tutto lo spessore e il senso di esperienze che, ognuna a suo modo, non sono certo prime timide sperimentazioni ma (basta scorrere i casi citati in apertura) rappresentano le scelte di eccellenze artistiche ormai consolidate; ma poi si ritrova inoltre non in grado di mettere a fuoco le potenzialità che esse hanno innescato o possono provocare nei confronti del territorio in cui agiscono: lì un centro cittadino asfittico, altrove le tante periferie nazionali che si ritrovano protagoniste, proprio durante i festival, di condizioni di particolare vitalità.
Occorre certo trovare altre soluzioni e formule inedite, cercando sostegno e attenzione altrove. Lo stiamo già facendo. Ma quanto meno, rispettando i tempi e il giusto respiro che occorre nell’avviare processualità del genere, non ci venissero messi i bastoni fra le ruote.

Roberta Ferraresi

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