Recensione a Alice nel paese delle meraviglie – Saggio sulla fine di una civiltà di Compagnia della Fortezza
Su tacchi altissimi da drag-queen, fra piume di struzzo, pizzi e accessori curatissimi, si presentano le figure che popolano Alice nel paese delle meraviglie. Fasciati in gonne con le balze, stretti in bustini e in frammenti di abiti barocchi, gli attori sembrano portare su di sé tutto quello che resta dell’estetica, dell’etica e della cultura occidentali, dopo che sono passate nella gigantesca macina della fine del capitalismo, della coscienza post-coloniale, delle rivendicazioni di genere, dell’autonomia dell’opera e del lettore.
Nel prologo, si coglie l’autore – che è tanti ma sempre riducibile a uno – nell’atto creativo che precede (e segue) l’opera: il cortile è occupato da un gruppo di figure che, poste con ordine su delle file di banchi di scuola evidentemente troppo grandi, scrivono su fogli altrettanto sproporzionati. A dispetto del titolo dello spettacolo, Alice nel paese delle meraviglie, sporgendosi a fatica sugli alti tavoli, si scopre che stanno trascrivendo versi da Amleto: una varia quantità di grafie e grandezze diverse come ad evocare le innumerevoli riscritture delle vicende legate al principe di Danimarca.
All’interno – il “paese delle meraviglie”, come ricorda il Bianconiglio e una grande indicazione sul portone – è possibile riconoscere qualche personaggio della tragedia di Shakespeare (innanzitutto tre o quattro Amleti) e del racconto di Carroll (la regina, il Cappellaio Matto, Alice). In questo “saggio sulla fine di una civiltà” (questo il sottotitolo dello spettacolo), i protagonisti non sono, in nessun caso, come ce li si aspettava, come ce li si era immaginati. Ai margini della crisi che sta sconvolgendo la società occidentale, che possono percepire solo riportata da altri, i detenuti-attori diretti da Armando Punzo ricordano le figure di Hamletmachine, “con alle spalle le rovine d’Europa”. Le macerie dell’Occidente sono materializzate, come preannunciato dal prologo, dall’esplosione dell’Amleto di Shakespeare, i cui versi, trascritti su fogli enormi da mani diverse, ricoprono per intero lo spazio scenico, dai pavimenti ai soffitti, dagli oggetti all’arredamento, fino, addirittura, a qualche inquietante personaggio che striscia contro le pareti, accarezzandone le parole.
Il caleidoscopio da cui emergono i personaggi di Carroll sembra rappresentare un’occasione di riscatto nell’incontro con quelli di Amleto, schiacciati ormai da secoli nei cliché che ne hanno caratterizzato le rappresentazioni. E schiacciati sono anche gli attori di questo nuovo spettacolo della Compagnia della Fortezza, in uno spazio davvero troppo piccolo, un labirinto costituito da passaggi angusti, corridoi stretti e soffitti bassi, accessi piccolissimi e stanze minuscole. La prossimità fra scena e platea è accentuata dalla composizione drammatica, che propone un’esperienza libera al pubblico: Alice nel paese delle meraviglie accade per frammenti contemporanei, fra cui lo spettatore è costretto a muoversi, non senza difficoltà, lasciandosi andare alla propria versione dell’opera.
Il testo – scritto e detto dappertutto – è lo spazio scenico: oltre alla scenografia costruita dalle parole di Shakespeare, la Compagnia della Fortezza propone una drammaturgia simultanea impastata a partire dalle tante versioni di Amleto, in cui si possono riconoscere la decostruzione di Carmelo Bene e la sempre efficace attualità di Heiner Müller, Laforgue e Genet. La voce dell’interprete, sempre monologante e dunque destinata alla cruda coesistenza rispetto all’altro, acquista in questo spazio una matericità straordinaria: le scene, senza toccarsi mai, vanno a creare quella stratificazione musicale, rumoristica e vocale che è alla base dello spettacolo. Nella concentrazione sulle sovrapposizioni e sulle intersezioni – di voce, di grafia, di senso – si annida, probabilmente, l’essenza delle vicende legate al principe di Danimarca. Nello spettacolo non si trova quello che resta dopo Amleto, né quello che torna in ogni Amleto, ma quel rumore bianco che ne presenta, ad ogni allestimento, quella sensazione di confusa universalità. È una sorta di litania incomprensibile ed irriducibile, affidata in questo spettacolo a personaggi cresciuti a dismisura, i cui corpi estremi – la cui presenza è resa ancora più efficace dalle costrizioni imposte dagli abiti, dallo spazio, dalla simultaneità – sono capaci di trafiggere i versi tragici che hanno ingabbiato le figure di Amleto, di reimpastarne le diverse versioni anche scavalcando limiti biografici, restituendo una nuova possibilità di esistenza ai personaggi e alla loro percezione da parte del pubblico.
Visto a VolterraTeatro
Roberta Ferraresi