Figli di un Dio che non c’è

Recensione a FiglidiunbruttodioCompagnia Musella Mazzarelli

figlidiunbruttodio - foto di Angelo Maggio

Non c’è posto per tutti nell’Italia di oggi. O meglio: posto ce n’è, ma non se lo pretendi dignitoso o se lo vuoi appagante dal punto di vista professionale. Bisogna svendersi, mettere da parte se stessi, quello che si è; dimenticarsi di una morale, dimenticare di avere una propria vita.

Figlidiunbruttodio è un duplice spaccato reale sulla società in cui viviamo: una società bulimica, malata, riflessa in un mondo dello spettacolo che tende ad inglobare, usare, ingurgitare uomini per poi risputarli fuori annullati, vuoti. Una società che d’altra parte si disinteressa della gente comune, gente che neanche riesce a trovare un lavoro manuale per avere una casa, per mangiare. Lino Musella e Paolo Mazzerelli sono bravissimi autori e interpreti di un testo che gioca sul sottile filo della comicità amara: fanno sorridere i personaggi che mettono in scena, per la loro semplicità e ingenuità; un’ingenuità che nasconde sogni di una vita normale ma che sia dignitosa da una parte, o sogni di gloria dall’altra. Due sono le storie che in Figli di un brutto Dio corrono su uno stesso filo rosso: due coppie di personaggi emblematici del mondo in cui siamo immersi. La prima, ispirata a Uomini e topi di Steinbeck, è molto beckettianamente la vicenda di due emarginati che vivono alla fermata di un autobus cercando di sopravvivere alla fame e sperando che quel bus 160 passi e li porti a ottenere un lavoro promesso, da manovali. L’altra è la storia di Fabri, giovane che cerca la fama televisiva in un reality dal titolo Figlidiunbruttodio, affidandosi a un produttore che rispecchia tutto il cinismo di chi pensa al denaro sfruttando le speranze e le tragedie altrui. Se all’inizio si ride di fronte alle emozioni incontrollabili e alle espressioni di gioia del giovane ragazzo una volta accettato per entrare a far parte dello show televisivo, si rabbrividisce all’idea che sia disposto a rinunciare alla propria identità ed eseguire qualsiasi ordine del produttore pur di diventare famoso. E si rimane attoniti quando addirittura in ballo entrano la vita e la morte: si è disposti anche ad uccidere – e non il primo sconosciuto che passa – pur di avere tre mesi di gloria. Figlidiunbruttodio è un crescendo di colpi di scena che porta all’estremo situazioni che, purtroppo, non si allontanano neanche di molto da una società che si è dimenticata dell’Uomo e che ne sfrutta debolezze, sogni e speranze; vite.

Visto a Primavera dei Teatri, Castrovillari

Carlotta Tringali

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