Primavera dei Teatri 2010

Tutorial: organizzare un festival

TUTORIAL: come si fanno le “cose” del teatro? Ce lo facciamo raccontare dalle persone che il teatro lo costruiscono o lo immaginano. In maniera veloce, come i trucchi del mestiere, come i consigli degli esperti.

Questa prima uscita, come il tema del trimestre, è dedicata ai “Festival”. Abbiamo chiesto proprio ai direttori artistici e ai curatori, quali siano le 3 cose assolutamente da fare e le 3 da evitare per creare un festival, per cercare di restituire la varietà di approccio che anima il paesaggio teatrale italiano.

 

BARBARA BONINSEGNA
Drodesera / Centrale Fies
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DA FARE DA NON FARE
Aprire gli occhi sul presente, non solo artistico, non solo politico, non solo iconografico. Adagiarsi sul consolidato
Mettersi in relazione col luogo in cui vivi mantenendo alta la proposta artistica senza mai cedere a compromessi rispetto alla facilità di comprensione, ma piuttosto lavorando col e sul pubblico locale. Spendere soldi che non hai
Mantenere l’indipendenza. Intesa come capacità di muoversi liberamente dal punto di vista filosofico, teorico, pratico e politico senza essere mai preda di qualcuno. Non copiare i festival degli altri (:D)
LUCA RICCI
Kilowatt Festival
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DA FARE DA NON FARE
Costruire un rapporto corretto con gli artisti – Qualunque siano le condizioni economiche dalle quali si parte, gli accordi con gli artisti devono essere chiari, rispettosi del loro sforzo creativo e della loro condizione di lavoratori. Si può anche partire con pochissimo (a noi è capitato così, avevamo 2.500 euro per l’edizione 2003, il primo anno) e chiedere agli artisti di investire in un progetto, ma poi è fondamentale ricordarsi di quegli stessi artisti, una volta che il festival è cresciuto. Meno sono le economie a disposizione e più gli artisti devono conoscere i dettagli del budget, di modo da essere in condizione di poter scegliere se partecipare o meno. Scambiare la propria gratificazione con un bisogno diffuso – Se un festival non è costruito intorno a una precisa analisi delle caratteristiche e ai bisogni della comunità di riferimento, non diventa realmente necessario, ma soltanto autorefenziale. Quando parlo di comunità di riferimento lo dico in senso largo: la comunità di riferimento è al tempo stesso quella locale (coi politici, i cittadini), così come quella delle aree limitrofe o degli appassionati del settore, ma anche quella dei colleghi, a livello nazionale.
Costruire un progetto e non una lista di spettacoli – È fondamentale vedere tanti spettacoli dal vivo e tanto materiale video, perché la conoscenza del panorama è un pre-requisito imprescindibile, ma bisogna anche coltivare una visione in base alla quale la sequenza degli spettacoli scelti non corrisponda a un semplice elenco di titoli, ma sia orientata a un obiettivo ultimo, definisca un progetto, disegni una visione. Copiare gli altri – Se una cosa c’è già, non ha senso rifarla; quel che conta è costruire un progetto creativo intorno a una propria idea originale. Abbiamo bisogno di esplorare ciò che è ignoto piuttosto che di piccoli cabotaggi verso mete già conosciute.
Saper dire no – Come in molte cose della vita dire sì a tutti è facile, ma sono i no che fanno la differenza. Anche nei confronti degli artisti che si stimano non serve essere compiacenti: non aiuta il loro processo creativo e men che meno aiuta il rafforzamento del progetto di festival. Farlo per forza – Se non ci sono le condizioni minime, meglio desistere.
SALVATORE TRAMACERE
Il Teatro dei Luoghi Fest
KOREJA
DA FARE DA NON FARE
È importante la chiarezza del progetto artistico proposto e della coerenza del piano di comunicazione: programmare per tempo e utilizzare tutti gli strumenti utili ad un’adeguata promozione. Non disorientare il pubblico, le compagnie e gli ospiti; non trascurare l’accoglienza: precisione, puntualità e disponibilità.
Far convivere una realtà che valorizzi il territorio (non solo tramite la programmazione ma anche attraverso il coinvolgimento attivo di pubblico e realtà locali, associazioni, collaboratori, ristorazione ecc.) per far sì che si crei un senso forte di aggregazione e comunità. Non chiudersi nel provincialismo.
È importante la coesione del gruppo e della comunicazione interna: riunioni interne e di micro-area; divisione dei compiti ma prontezza di spirito e adattabilità a qualsiasi situazione attraverso un’adeguata capacità di problem solving. Evitare malumori nel gruppo e situazioni d’emergenza.
DARIO DE LUCA
Primavera dei Teatri / Progetto MORE
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DA FARE DA NON FARE
Dare una specificità al proprio festival e perseguirla in maniera rigorosa, aliena da concessioni o compromessi. Un festival con una peculiarità ha carattere, personalità e lo rende riconoscibile. Poi, nel tempo, può, e deve, cambiare, evolversi, invecchiare bene insomma, ma facendo un cambio-pelle naturale e fisiologico. Non dare una personalità al proprio festival.
Accogliere tutti (spettatori, compagnie, operatori e critici) con affabilità. Nessuno deve sentirsi a disagio. È come invitare al proprio matrimonio: dove devono convivere ospiti che non si conoscono tra loro o peggio che non possono vedersi. Non abbandonare nessuno. Non far sentire solo o poco considerato l’ospite. Li hai invitati a una festa a casa tua? Ebbene quella festa devono ricordarsela. Un buon gioco di squadra è essenziale per questo punto. Essere disattento o addirittura assente con l’ospite, sia esso spettatore, artista, operatore o critico.
Gli spettacoli e i gruppi o gli artisti singoli devono realmente convincere la direzione artistica. Costruire l’edizione artistica del festival seguendo le reali convinzioni estetiche e il proprio gusto personale tenendo conto della koinè culturale nel quale si inserisce il progetto prescelto. Non trasformare la programmazione in un contenitore di proposte inserite perché: “bisogna tener conto degli artisti del territorio”, “a quelli dobbiamo un piacere”, “quell’artista va per la maggiore”, “tal dei tali ci ha chiesto di prenderli” etc. etc.  Solo così non sarai mai ricattabile e potrai difendere sempre e a spada tratta le scelte fatte. Costruire un progetto nel quale non ci si riconosce ma che tiene conto di “altre dinamiche”.
Avere una squadra tecnica in grado di risolvere tutti i problemi che possono verificarsi durante il festival. Un festival di teatro è fatto per presentare dei lavori teatrali (spesso in prima visione per cui con la fragilità e delicatezza delle piantine appena spuntate) e questi hanno la massima priorità. Una squadra tecnica accogliente, che sappia mettere a proprio agio gli artisti, sia a disposizione e all’occorrenza sappia consigliare per rendere più efficace quello spettacolo in quel determinato spazio teatrale. Che la cortesia, la disponibilità, la professionalità e il comune intento di resa massima della performance non si tramuti o venga presa per genuflessione acritica nei confronti dell’artista demiurgo dell’opera. Lasciare gli artisti soli senza alcun aiuto e/o supporto emotivo.

 

ANGELA FUMAROLA e FABIO MASI
Armunia / Inequilibrio
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1. ANGELA FUMAROLA
DA FARE DA NON FARE
Dedicare tempo alle scelte artistiche, ponderando bene il bilanciamento delle serata, al fine di rendere ogni giorno un’esperienza unica. Omologarsi.
Puntare al senso di ogni spettacolo e alla sua capacità di interagire con lo spazio emotivo, rigenerandolo. Avere ansia e fretta.
Dare valore all’accoglienza, intesa come ritualità, per il pubblico, per gli artisti e per il gruppo di lavoro. Non riconoscere il contesto di riferimento nel quale si svolge il festival.
2. FABIO MASI
Creare le migliori condizioni per accompagnare la versatilità delle varie proposte artistiche in modo da avere un maggior spettro di proposte, senza l’esigenza di una tematica o filone da seguire. Essere meno vetrina e più processi creativi.
Realizzare un ambiente e un “clima” accogliente e facilitatore di intrecci e confronti. Non creare l’ansia di “correre” a vedere gli spettacoli.
Fare di un festival il luogo e lo spazio dell’ampliamento degli orizzonti artistici e culturali grazie ad altre iniziative non direttamente connesse alla programmazione vera e propria.

 

FABRIZIO ARCURI
Short Theatre
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DA FARE DA NON FARE
Evolversi dai propri gusti. Dare priorità ai propri gusti.
Costruire un contenitore in grado di comunicare con la società. Costruire qualcosa a propria immagine e somiglianza.
Essere curiosi di quello che non si conosce, del nuovo. Essere spaventati dal nuovo.

 

CARLO MANGOLINI
Operaestate Festival Veneto
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DA FARE DA NON FARE
LA PAROLA CHIAVE E’ CONDIVISIONE  LA PAROLA CHIAVE E’ CHIUSURA
ARTISTI / Per costruire i contenuti artistici è indispensabile mettersi in ascolto. Intercettare tutto quello che accade attorno a noi. Costruire un percorso riconoscibile. Comunicare con gli artisti, ascoltarli, interpretarli, capire le loro potenzialità. MAI ESSERE AUTOREFERENZIALI / Evitare di ripetere se stessi.
STAFF / Per rendere efficace il risultato è fondamentale poter contare su un gruppo di persone con le quali condividere idee, pensieri ma anche fatica, sudore e tanto tempo da dedicare al progetto. MAI ESSERE PRESUNTUOSI / Non essere sicuri mai di niente.
PUBBLICO / Per intercettare il pubblico è necessario conoscerlo e farsi conoscere. Spiegare percorsi e direzioni di lavoro, trovare modalità di coinvolgimenti, creare momenti di approfondimento. MAI ESSERE ASSENTI / Prendersi cura di tutti: artisti, staff, pubblico, ma anche stampa, operatori e chiunque entra il relazione col festival .
SILVIA BOTTIROLI
Santarcangelo Festival
santarcangelo
DA FARE DA NON FARE
Viaggiare, frequentare ciò che non si conosce. Fare esperienza della scomodità, del senso di straniamento, del non capire, della stanchezza, del voler tornare a casa, e insieme dell’eccitazione, della curiosità, del puro piacere del viaggio. Porsi nella condizione di non sapere e farla durare, condividendola con il gruppo di lavoro e con gli artisti, perché questa vibrazione di incertezza e desiderio si trasmetta poi anche agli spettatori e ai passanti. Non costruire recinti, non tracciare sentieri nel bosco, non trasformare i sentieri in grandi strade asfaltate. Non addomesticare, non addomesticarsi: se si vogliono fare, e condividere con altri, incontri straordinari, bisogna avventurarsi in luoghi sconosciuti e pericolosi, non si troverà mai una balena in una vaschetta per pesci rossi.
Fidarsi. Del caso, della generosità delle persone con cui si lavora, dell’intuito degli artisti, della curiosità esigente del pubblico. Del tempo, degli incontri, del fatto che alla fine tutto è connesso e ogni dettaglio contiene l’intero. Fidarsi, soprattutto, di sé e del proprio istinto. Non accontentarsi. È necessario essere esigenti con gli artisti, perché in un confronto serrato possano far crescere la loro libertà, e con le istituzioni, i partner e gli spettatori, perché possano andare dove da soli non andrebbero, dove non sanno di potere o voler andare. E naturalmente essere esigenti con se stessi, essere scontenti, insicuri, ambiziosi, rigorosissimi.
Darsi delle priorità. Non si riesce a fare tutto, e non si può rispondere a tutte le aspettative che sono poste su di un festival. La vera responsabilità è allora quella di fare delle scelte, di darsi delle priorità e un ordine, da seguire sia nel tempo lungo degli anni in cui si imprime una traiettoria a un’istituzione artistica, sia nel tempo brevissimo delle singole giornate di lavoro. E che le priorità cambino, si sa, è una regola del gioco: rende tutto più difficile ma anche più entusiasmante. Non tentare di compiacere nessuno. Si lavora per l’arte e per niente e nessun altro che l’arte. Non per sé, non per certi artisti, non per le istituzioni o i network professionali, non per il pubblico. E alchemicamente, se si respinge la tentazione del compiacimento e della ricerca di approvazione, grandi cose possono accadere per tutti, anche per chi avrebbe voluto essere rassicurato nella sua visione del mondo e invece ne scopre altre nuove.
EDOARDO DONATINI
Contemporanea Festival
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DA FARE DA NON FARE
È fondamentale che un festival sia aggregatore di un’idea di cultura in continuo movimento, un luogo reagente che raccoglie percorsi artistici provenienti da diverse discipline, un connettore di relazioni in cui la trasversalità dei linguaggi caratterizza in maniera consistente la ricerca compositiva e le metodologie della visione. Non fermarsi all’idea dei grandi eventi che non favorisce la costruzione di una comunità capace di difendere le proprie conquiste, passo dopo passo, acquisizione dopo acquisizione.
Considerare lo spettatore come committente in rappresentanza della sua comunità di riferimento; ed è qui che la creazione ristabilisce il giusto spazio d’incontro tra l’agire della scena e il fruire dello spettatore. In questo senso acquista ancora più valore l’attitudine del festival a costruire ambienti complessi, da cui scaturiscono questioni, elementi attivi che innescano continuamente nuove criticità. Considerare lo spettatore come un soggetto “acritico”, un cliente che non è in grado di giudicare e valutare. Evitare il facile consenso che si ottiene dalla proposta di spettacoli che richiamano solo alla pratica dell’intrattenimento o del semplice accompagnamento.
Assumere la responsabilità delle scelte e delle questioni messe in atto, domande che possono creare disorientamenti, che obbligano il pubblico al confronto con prospettive non sempre immediatamente comprensibili, ma forse, facilmente percepibili. La funzione di un festival non può limitarsi alla sola ricerca del nuovo o al mero elenco degli spettacoli in programma.

Segnalazioni e riflessioni di fine Primavera

Il Festival Primavera dei Teatri di Castrovillari, che ha tenuto occupato il Tamburo di Kattrin per tutta la durata della rassegna si è concluso dopo aver registrato un gran successo tra spettacoli di qualità, presenza di tutta la stampa nazionale e pubblico in gran numero. Un Festival che, pur non avendo avuto un aiuto economico neanche dopo l’assegnazione del Premio Speciale Ubu 2009, si è fatto forza ed è riuscito ad ottenere un grande risultato. Diciasette spettacoli per otto prime nazionali non sono pochi se si pensa che Primavera dei Teatri si è svolto dal 30 maggio al 5 giugno: un fitto calendario di appuntamenti che hanno sorpreso per qualità e tematiche impegnate  trattate, con una grande attenzione alla drammaturgia come poco in Italia oggi si può trovare. Uno staff di eccezione è riuscito ad organizzare in modo impeccabile un festival di grande valore, umano in primis. I direttori artistici Dario De Luca e Saverio La Ruina, insieme a Settimio Pisani – parte organizzativa della loro compagnia Scena Verticale –, hanno fatto un lavoro che va premiato per costanza, dato che sono arrivati alla XI edizione di questo Festival con tutte le difficoltà annesse a una ragione, la Calabria, dove non è facile far riuscire a sopravvivere queste iniziative. Il Tamburo di Kattrin, dopo aver fatto da giornale di bordo con recensioni, presentazioni, video interviste e approfondimenti e aver visto tutti gli spettacoli proposti nel Protoconvento di Castrovillari, ha deciso di fare delle segnalazioni speciali a delle pièce che hanno più colpito la nostra redazione.

Per il miglior attore merita una segnalazione Fabrizio Gifuni con L’ingegner Gadda va alla guerra, in quanto è riuscito a dar voce e corpo a parole complesse come quelle di Gadda, rendendole comunicabili. Segnaliamo invece Paolo Mazzarelli e Lino Musella per la miglior interpretazione: in Figlidiunbruttodio la loro capacità di dar vita a situazioni e personaggi totalmente differenti merita un plauso. Per la miglior performance e musica una nomina speciale va a Alessandro Bedosti per i suoi movimenti corporei più che efficaci nel veicolare una trasformazione da uomo a insetto e ai paesaggi sonori di Elicheinfunzione: entrambi hanno reso lo spettacolo La Metamorfosi di Città di Ebla carico di forti sensazioni. Trattato dei manichini colpisce invece per le sue luci che riescono a regalare momenti di poesia e magia sposandosi perfettamente con i corpi delle performer in scena. Segnaliamo per la drammaturgia quello che per i premi ufficiali sarebbe un ex-aequo: il testo di Variazioni sul modello di Kraepelin di Davide Carnevali merita un’attenzione particolare per la capacità di affrontare una malattia come il morbo di Alzheimer non in modo drammatico, ma intrecciando surrealtà e realtà in un gioco di ricordi; l’altra drammaturgia da non far passare inosservata è L’Italia s’è desta di Stefano Massini, per il lavoro di ricerca e di riscrittura di fatti di cronaca presentati in maniera maledettamente sarcastica e amara. Altra segnalazione speciale va a Dies Irae_5 episodi intorno alla fine della specie di Teatro Sotterraneo: una regia che trova nella forma di collettivo il suo punto di forza. Come miglior spettacolo, infine, indichiamoLa Borto di Saverio La Ruina: per la sua profondità, per il suo toccare l’anima e stritolarla, lasciando il pubblico carico di emozioni perfettamente visibili all’uscita dello spettacolo.

Carlotta Tringali

Superstizioni danzate

Recensione a AmmaliataCompagnia Divano Occidentale Orientale

Ammaliata

Ammaliata

Alcune credenze arcaiche e lontane persistono e ancora percorrono la società contemporanea. Superstizione e tradizione trovano spazio nella quotidianità della gente comune: quando un gatto nero attraversa la strada i più superstiziosi aspettano ancora che passi qualcun altro e quando fanno cadere il sale ne gettano tre pizzichi dietro le spalle. Tutti piccoli accorgimenti che si prendono quasi inconsapevolmente senza sapere veramente chi ce li ha insegnati, senza conoscerne la provenienza. A volte non sappiamo nemmeno perché questi accadimenti “portino male” o quale sia il motivo di tale supposizione. Una volta ci volevano sette anni di lavoro da cameriera per pagare uno specchio rotto al padrone: gli scongiuri non servivano a molto.

Tre donne, un canto, una danza. Elementi fondamentali del rito. Proprio intorno al rituale dello scongiuro ruota Ammaliata messo in scena da Giuseppe Bonifati insieme alla Compagnia Divano Occidentale Orientale. «Ammaliata è l’appellativo col quale viene designata una persona che è stata colta dal fascino a motivo della sua avvenenza o semplicemente per invidia». La giovane compagnia locale propone uno spettacolo concerto per tre voci, un vero e proprio campionario di dialetti e rituali meridionali si mescolano al camdoblé e alle assonanze della musica brasiliana.

Ammaliata

Tre attori recitano nei panni di tre vecchie, due comari e una magara che danzando e cantando al ritmo della tammurriata scongiurano il malocchio e benedicono l’amore di due giovani del paese. Il lavoro di Bonifati è divertente quanto accurato, la contaminazione di generi musicali, riti e danze diverse rende lo spettacolo omogeneo e caratteristico al contempo. Samba e taranta si alternano ai balli dei dervisci nordafricani. I canti tradizionali accompagnati dal bravissimo percussionista Antonio Merola, si alternano a un testo quasi completamente in versi.  Intonato al ritmo, il testo si muove tra nenia, lamento e un rap supportato dalla rima baciata – divertente ma a lungo cacofonica. Buona la performance degli attori, soprattutto Luigi Tabita nell’interpretazione della magara dallo sguardo penetrante.  La scelta di dare a tre uomini personaggi femminili accentua la parodia di una pièce che nasconde una profonda ricerca antropologica. Una compagnia giovane che merita sicuramente di crescere e approfondire il proprio lavoro.

Visto a Primavera dei Teatri, Castrovillari

Camilla Toso

Il sondaggio del Festival

Protoconvento di Primavera dei Teatri

Durante le giornate del Festival Primavera dei Teatri di Castrovillari abbiamo “sottoposto” ad artisti e operatori teatrali, disponibili, un sondaggio per gioco ma anche per riflettere un poco sul nostro vivere a cavallo di due secoli. Prendendo spunto dall’articolo che Renato Palazzi ha scritto per Linus circa cosa possiamo definire prettamente novecentesco e cosa invece pensiamo possa appartenere al nuovo millennio, ci siamo aggirati tra Protoconvento, Ufficio di Scena Verticale, Chiostro, Teatro Sybaris, Sala 14 e posti di ritrovo – che uniscono la convivialità e favoriscono anche la disponibilità a mettersi in discussione – per capire un po’ come le persone concepiscono alcuni fattori teatrali.

In modo scherzoso abbiamo stilato una lista con una quarantina di voci riguardanti esclusivamente il mondo teatrale definendo “D.O.C.” ciò che poteva essere inserito a pieno titolo nel Novecento – e quindi anche sepolto in quel secolo densissimo ma ormai defunto – e facendo appello al termine “O.G.M.” per tutti quegli elementi formatisi negli ultimi dieci anni o magari nati nel ‘900 ma che si sono evoluti e possono rientrare a pieno titolo nel 2000. Nel fare il sondaggio però ci siamo spesso chieste se ci sono davvero organismi evolutisi con l’arrivo del nuovo millennio o invece ciò che viene proposto nel nuovo secolo non sia piuttosto una ripetizione di ciò che si è già largamente distinto nel ‘900. Di fronte a diverse voci infatti i partecipanti al gioco si sono posti le stesse domande: per esempio alla voce ironica di «abiti neri e piedi nudi», dopo aver risposto immediatamente «Novecento», in molti si sono soffermati sul pensiero che in realtà ancora oggi tanti artisti utilizzano questa convenzione. Stessa cosa per la voce «il collettivo»: definita come tipicamente “D.O.C.” ha suscitato subito dei dubbi, in quanto diversi sono i gruppi nati nel nuovo secolo che adottano questa forma. Un sondaggio quindi che ha diviso e suscitato spesso la risposta «proprio non saprei» come di fronte alle voci «performer», figlio legittimo del ‘900 ma che sembra essere tornato a gran voce nel 2000, spodestando gli attori che invece escono dalle «Accademie Teatrali». Accademie collocate dalla stragrande maggioranza degli intervistati nel secolo scorso, senza possibilità di riscatto; solo poche voci fuori dal coro sottolineano come in realtà di queste ci sia estremamente bisogno; bisogno che viene appellato anche per la voce «Teatri Stabili» saldamente inserita con consapevolezza però nel ‘900. Altre necessità a teatro invocate da molti per il nostro oggi e allo stesso tempo inserite nella categoria “D.O.C.” o addirittura definite come appartenenti all’800 sono la «critica teatrale», la «stroncatura» e il «pubblico che fischia». Pubblico definito buonista e di un’educazione eccessiva che accetta in silenzio o anzi applaudendo convinto anche spettacoli che in realtà non ha apprezzato o perché dormiente sulla poltrona o perché lamentoso durante tutta la messinscena: ma un caloroso applauso finale sembra non venga negato a nessuno. La stroncatura e la critica teatrale sono morte per la maggioranza degli intervistati, sono le giovanissime operatrici volenterose e appassionate di scrittura collocano queste due voci nel 2000: ma solo per dare speranza a una pratica che sembra andare scomparendo. Stroncatura sopratutto che svanisce per il poco spazio dedicato alla stessa critica: se pochi sono gli spazi lasciati al teatro, di certo non si possono sprecare per le stroncature, ma per segnalare un bello spettacolo. E forse spesso artisti non migliorano i propri lavori, magari commettendo anche gli stessi “errori” proprio perché non trovano alcun riscontro con lo sguardo critico, purtroppo così costretti a non crescere. Nella scrittura, spesso, vengono approfonditi degli aspetti che a caldo, appena visto lo spettacolo magari non si percepiscono e anche se i critici si soffermano a discutere di alcuni problemi con le compagnie riguardo a uno spettacolo appena visto spesso non basta.

Riguardo invece le voci come «residenze», «spettacoli a tappe», lo «spettacolo breve» e le «prove aperte» rientrano secondo molti pareri a pieno titolo sotto la categorizzazione di “O.G.M.”: curioso come diverse persone abbiano detto che questa sia una conseguenza della precarietà teatrale.

Altre sono le voci generiche presentate nel sondaggio ma che hanno talmente diviso i pareri che ne è impossibile tirare delle fila: questo soprattutto di fronte a personaggi di grande fama come Dario Fo, Samuel Beckett, Ascanio Celestini, Pina Bausch, Romeo Castellucci, Antonio Latella, Peter Brook, Bernard-Marie Koltès, Bertolt Brecht, Carmelo Bene, Antonin Artaud ed Eimuntas Nekrosius. Inoltre in moltissimi hanno inserito la figura del regista come fenomeno pienamente “novecentesco” e “D.O.C” ritrovandosi di conseguenza in difficoltà nel collocare alcuni di questi grandi maestri proprio per il loro essere – nel caso di alcuni – registi “D.O.C.”: se a gran voce Castellucci viene inserito nel 2000, la stessa cosa non vale per Nekrosius definito “novecentesco” anche per il suo avere tutto il tempo necessario a disposizione per ricercare ciò che gli serve, risorse che difficilmente hanno gli artisti oggi. Se Antonio Latella è collocato nel 2000, non si può dire la stessa cosa di Peter Brook che in moltissimi collocano nel ‘900.

Per concludere il nostro sondaggio in maniera più leggera abbiamo inserito delle voci come «concorsi under 35», «felpa con cappuccio», «la raccomandazione» e «il microfono a teatro»: se quest’ultimo è stato definito in maniera molto interessante e su cui riflettere come simbolo di potere – e di fronte a questo aggiungerei che ciò diventa estremamente significativo nel momento in cui anche il Teatro delle Albe nella riproposizione dell’Avaro di Molière utilizza questo strumento come metafora di potere – alle altre voci tutti con un sorriso amaro hanno risposto «purtroppo 2000».

Un sondaggio che divide ma che fa nascere una profonda riflessione: se le «categorizzazioni teatrali» sono tipicamente “Novecento”, è anche vero che oggi più che mai il bisogno di denominare ci divora. A che cosa serve dare dei paletti ben definiti? E dopo tutto, come ha sottolineato un artista, il sondaggio è estremamente “duemilesco”: tipico di una società in cui oggi non si fa più politica ma sondaggi. Interroghiamoci di meno sul denominare, ma accettiamo ciò che ci viene offerto lasciandoci investire dalle emozioni.

Carlotta Tringali

Un groviglio sublime

Recensione a L’ingegner Gadda va alla guerra – Fabrizio Gifuni

L'ingegner Gadda va alla guerra

L'ingegner Gadda va alla guerra

Si ricorre spesso alla metafora del groviglio o della matassa quando si parla del linguaggio di Carlo Emilio Gadda: per la sua complessità, eterogeneità, il gusto del pastiche linguistico e dei neologismi bislacchi e raffinati. Fabrizio Gifuni, per L’ingegner Gadda va alla guerra, avviluppa coerentemente un testo che sonda il grande scrittore lombardo a partire da diversi suoi scritti — Giornale di guerra e di prigionia, Eros e Priamo, La cognizione del dolore — e lo interseca con incursioni del capolavoro shakespeariano Amleto. Ma l’incredibile ideatore ed adattatore (nonché interprete) del denso e bellissimo testo dimostra di sapersi muovere nei labirinti verbali di Gadda dipanandone significati, profondità e forza critica. Il lavoro di Giuseppe Bertolucci, che guida Gifuni lungo linee rette che geometrizzano una drammaturgia complessa e intensa, costruisce un perfetto ingranaggio di ritmo: con un raffinatissimo gioco di luci (di Cesare Accetta), si procede per un serrato montaggio in cui lo straordinario interprete si muove con maestria tra gli intricati passaggi di un testo da lui stesso annodato.

Ad aprire lo spettacolo il Principe di Danimarca che, muovendosi all’indietro come un gambero, riporta Gadda ai dolorosi ricordi della sua traumatica esperienza al fronte durante il primo conflitto mondiale. Le parole sono sferzate che rendicontano tutta l’assurdità della guerra vista con gli occhi di un testimone d’eccellenza, per poi approdare all’avvento del fascismo. La psicanalisi entra così in gioco in un toscano arcaico che, con sarcasmo, analizza la figura dell’allora Presidente del Consiglio Benito Mussolini: l’adorazione erotica che scatena in un italico popolo indementito dalla frenesia suona assurdamente e amaramente attuale. «La moltitudine desidera l’istrione»: difficile non cogliere analogie con corrispettivi istituzionali di oggi. Continua infatti Gadda osservando acutamente come l’ethos sia divenuto la mera salvaguardia della propria persona, la religio l’adorazione della propria immagine, in un processo di deformazione storica  che non sembra aver invertito ancora rotta. Ma l’operazione non scade mai in una semplice satira; al contrario si distingue per una costruzione sottilmente intelligente senza divenire eccessivamente intellettuale, dimostrando di saper convincere ed emozionare un pubblico eterogeneo.

L'ingegner Gadda va alla guerra

L'ingegner Gadda va alla guerra

Fabrizio Gifuni  fa vivere e chiarifica con la forza della concretezza scenica  la complessa trama verbale di Gadda, grazie ad un uso del corpo e della voce ricercato, meditato e impeccabilmente coinvolgente che svela una partecipazione attoriale consapevole e appassionata: la sensazione è quella di una forte necessità, un’urgenza nell’attore-autore di comunicare significati trasversali attraverso il delicato omaggio al grande scrittore lombardo. Con soppesata forza e magnifico acume, da L’ingegner Gadda va alla guerra si diramano svariati fili interpretativi, livelli di comprensione e d’emozione; un fil rouge unisce Amleto a Gadda, un altro il passato dell’Italia al suo presente, mentre tantissimi altri aprono a riflessioni sulla letteratura e  il teatro in un groviglio di citazioni che, se forse è difficile districare, sono la forza e la ricchezza di un testo che è, prima di tutto, un piacere ascoltare in questa era di televisiva semplificazione linguistica.

Visto a Primavera dei Teatri, Castrovillari

Silvia Gatto

Fabrizio Gifuni presenta L’ingegner Gadda va alla Guerra

[youtube]http://www.youtube.com/watch?v=0XX-rZd6qak[/youtube]Fabrizio Gifuni presenta L’ingegner Gadda va alla Guerra uno spettacolo incentrato sulla figura del poeta lombardo e tratto interamente dai suoi Diari di guerra e di prigionia e dal testo Eros e Priapo. Una rielaborazione complessa che vede la figura di Gadda continuamente intrecciarsi con quella di Amleto, qui di seguito l’autore spiega il suo percorso drammaturgico e attoriale.

Ammaliata – Compagnia Divano Occidentale Orientale

05.06.2010 Castrovillari, Festival Primavera dei Teatri. Commenti del pubblico sullo spettacolo Ammaliata di Compagnia Divano Occidentale Orientale

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L’ingegner Gadda va alla guerra – Fabrizio Gifuni/Solares Fondazione delle Arti

05.06.2010 Castrovillari, Festival Primavera dei Teatri. Commenti a caldo del pubblico dopo lo spettacolo L’ingegner Gadda va alla guerra di Fabrizio Gifuni

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