intervista carlo mangolini

Tutorial: organizzare un festival

TUTORIAL: come si fanno le “cose” del teatro? Ce lo facciamo raccontare dalle persone che il teatro lo costruiscono o lo immaginano. In maniera veloce, come i trucchi del mestiere, come i consigli degli esperti.

Questa prima uscita, come il tema del trimestre, è dedicata ai “Festival”. Abbiamo chiesto proprio ai direttori artistici e ai curatori, quali siano le 3 cose assolutamente da fare e le 3 da evitare per creare un festival, per cercare di restituire la varietà di approccio che anima il paesaggio teatrale italiano.

 

BARBARA BONINSEGNA
Drodesera / Centrale Fies
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DA FARE DA NON FARE
Aprire gli occhi sul presente, non solo artistico, non solo politico, non solo iconografico. Adagiarsi sul consolidato
Mettersi in relazione col luogo in cui vivi mantenendo alta la proposta artistica senza mai cedere a compromessi rispetto alla facilità di comprensione, ma piuttosto lavorando col e sul pubblico locale. Spendere soldi che non hai
Mantenere l’indipendenza. Intesa come capacità di muoversi liberamente dal punto di vista filosofico, teorico, pratico e politico senza essere mai preda di qualcuno. Non copiare i festival degli altri (:D)
LUCA RICCI
Kilowatt Festival
kilowatt ok
DA FARE DA NON FARE
Costruire un rapporto corretto con gli artisti – Qualunque siano le condizioni economiche dalle quali si parte, gli accordi con gli artisti devono essere chiari, rispettosi del loro sforzo creativo e della loro condizione di lavoratori. Si può anche partire con pochissimo (a noi è capitato così, avevamo 2.500 euro per l’edizione 2003, il primo anno) e chiedere agli artisti di investire in un progetto, ma poi è fondamentale ricordarsi di quegli stessi artisti, una volta che il festival è cresciuto. Meno sono le economie a disposizione e più gli artisti devono conoscere i dettagli del budget, di modo da essere in condizione di poter scegliere se partecipare o meno. Scambiare la propria gratificazione con un bisogno diffuso – Se un festival non è costruito intorno a una precisa analisi delle caratteristiche e ai bisogni della comunità di riferimento, non diventa realmente necessario, ma soltanto autorefenziale. Quando parlo di comunità di riferimento lo dico in senso largo: la comunità di riferimento è al tempo stesso quella locale (coi politici, i cittadini), così come quella delle aree limitrofe o degli appassionati del settore, ma anche quella dei colleghi, a livello nazionale.
Costruire un progetto e non una lista di spettacoli – È fondamentale vedere tanti spettacoli dal vivo e tanto materiale video, perché la conoscenza del panorama è un pre-requisito imprescindibile, ma bisogna anche coltivare una visione in base alla quale la sequenza degli spettacoli scelti non corrisponda a un semplice elenco di titoli, ma sia orientata a un obiettivo ultimo, definisca un progetto, disegni una visione. Copiare gli altri – Se una cosa c’è già, non ha senso rifarla; quel che conta è costruire un progetto creativo intorno a una propria idea originale. Abbiamo bisogno di esplorare ciò che è ignoto piuttosto che di piccoli cabotaggi verso mete già conosciute.
Saper dire no – Come in molte cose della vita dire sì a tutti è facile, ma sono i no che fanno la differenza. Anche nei confronti degli artisti che si stimano non serve essere compiacenti: non aiuta il loro processo creativo e men che meno aiuta il rafforzamento del progetto di festival. Farlo per forza – Se non ci sono le condizioni minime, meglio desistere.
SALVATORE TRAMACERE
Il Teatro dei Luoghi Fest
KOREJA
DA FARE DA NON FARE
È importante la chiarezza del progetto artistico proposto e della coerenza del piano di comunicazione: programmare per tempo e utilizzare tutti gli strumenti utili ad un’adeguata promozione. Non disorientare il pubblico, le compagnie e gli ospiti; non trascurare l’accoglienza: precisione, puntualità e disponibilità.
Far convivere una realtà che valorizzi il territorio (non solo tramite la programmazione ma anche attraverso il coinvolgimento attivo di pubblico e realtà locali, associazioni, collaboratori, ristorazione ecc.) per far sì che si crei un senso forte di aggregazione e comunità. Non chiudersi nel provincialismo.
È importante la coesione del gruppo e della comunicazione interna: riunioni interne e di micro-area; divisione dei compiti ma prontezza di spirito e adattabilità a qualsiasi situazione attraverso un’adeguata capacità di problem solving. Evitare malumori nel gruppo e situazioni d’emergenza.
DARIO DE LUCA
Primavera dei Teatri / Progetto MORE
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DA FARE DA NON FARE
Dare una specificità al proprio festival e perseguirla in maniera rigorosa, aliena da concessioni o compromessi. Un festival con una peculiarità ha carattere, personalità e lo rende riconoscibile. Poi, nel tempo, può, e deve, cambiare, evolversi, invecchiare bene insomma, ma facendo un cambio-pelle naturale e fisiologico. Non dare una personalità al proprio festival.
Accogliere tutti (spettatori, compagnie, operatori e critici) con affabilità. Nessuno deve sentirsi a disagio. È come invitare al proprio matrimonio: dove devono convivere ospiti che non si conoscono tra loro o peggio che non possono vedersi. Non abbandonare nessuno. Non far sentire solo o poco considerato l’ospite. Li hai invitati a una festa a casa tua? Ebbene quella festa devono ricordarsela. Un buon gioco di squadra è essenziale per questo punto. Essere disattento o addirittura assente con l’ospite, sia esso spettatore, artista, operatore o critico.
Gli spettacoli e i gruppi o gli artisti singoli devono realmente convincere la direzione artistica. Costruire l’edizione artistica del festival seguendo le reali convinzioni estetiche e il proprio gusto personale tenendo conto della koinè culturale nel quale si inserisce il progetto prescelto. Non trasformare la programmazione in un contenitore di proposte inserite perché: “bisogna tener conto degli artisti del territorio”, “a quelli dobbiamo un piacere”, “quell’artista va per la maggiore”, “tal dei tali ci ha chiesto di prenderli” etc. etc.  Solo così non sarai mai ricattabile e potrai difendere sempre e a spada tratta le scelte fatte. Costruire un progetto nel quale non ci si riconosce ma che tiene conto di “altre dinamiche”.
Avere una squadra tecnica in grado di risolvere tutti i problemi che possono verificarsi durante il festival. Un festival di teatro è fatto per presentare dei lavori teatrali (spesso in prima visione per cui con la fragilità e delicatezza delle piantine appena spuntate) e questi hanno la massima priorità. Una squadra tecnica accogliente, che sappia mettere a proprio agio gli artisti, sia a disposizione e all’occorrenza sappia consigliare per rendere più efficace quello spettacolo in quel determinato spazio teatrale. Che la cortesia, la disponibilità, la professionalità e il comune intento di resa massima della performance non si tramuti o venga presa per genuflessione acritica nei confronti dell’artista demiurgo dell’opera. Lasciare gli artisti soli senza alcun aiuto e/o supporto emotivo.

 

ANGELA FUMAROLA e FABIO MASI
Armunia / Inequilibrio
armunia
1. ANGELA FUMAROLA
DA FARE DA NON FARE
Dedicare tempo alle scelte artistiche, ponderando bene il bilanciamento delle serata, al fine di rendere ogni giorno un’esperienza unica. Omologarsi.
Puntare al senso di ogni spettacolo e alla sua capacità di interagire con lo spazio emotivo, rigenerandolo. Avere ansia e fretta.
Dare valore all’accoglienza, intesa come ritualità, per il pubblico, per gli artisti e per il gruppo di lavoro. Non riconoscere il contesto di riferimento nel quale si svolge il festival.
2. FABIO MASI
Creare le migliori condizioni per accompagnare la versatilità delle varie proposte artistiche in modo da avere un maggior spettro di proposte, senza l’esigenza di una tematica o filone da seguire. Essere meno vetrina e più processi creativi.
Realizzare un ambiente e un “clima” accogliente e facilitatore di intrecci e confronti. Non creare l’ansia di “correre” a vedere gli spettacoli.
Fare di un festival il luogo e lo spazio dell’ampliamento degli orizzonti artistici e culturali grazie ad altre iniziative non direttamente connesse alla programmazione vera e propria.

 

FABRIZIO ARCURI
Short Theatre
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DA FARE DA NON FARE
Evolversi dai propri gusti. Dare priorità ai propri gusti.
Costruire un contenitore in grado di comunicare con la società. Costruire qualcosa a propria immagine e somiglianza.
Essere curiosi di quello che non si conosce, del nuovo. Essere spaventati dal nuovo.

 

CARLO MANGOLINI
Operaestate Festival Veneto
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DA FARE DA NON FARE
LA PAROLA CHIAVE E’ CONDIVISIONE  LA PAROLA CHIAVE E’ CHIUSURA
ARTISTI / Per costruire i contenuti artistici è indispensabile mettersi in ascolto. Intercettare tutto quello che accade attorno a noi. Costruire un percorso riconoscibile. Comunicare con gli artisti, ascoltarli, interpretarli, capire le loro potenzialità. MAI ESSERE AUTOREFERENZIALI / Evitare di ripetere se stessi.
STAFF / Per rendere efficace il risultato è fondamentale poter contare su un gruppo di persone con le quali condividere idee, pensieri ma anche fatica, sudore e tanto tempo da dedicare al progetto. MAI ESSERE PRESUNTUOSI / Non essere sicuri mai di niente.
PUBBLICO / Per intercettare il pubblico è necessario conoscerlo e farsi conoscere. Spiegare percorsi e direzioni di lavoro, trovare modalità di coinvolgimenti, creare momenti di approfondimento. MAI ESSERE ASSENTI / Prendersi cura di tutti: artisti, staff, pubblico, ma anche stampa, operatori e chiunque entra il relazione col festival .
SILVIA BOTTIROLI
Santarcangelo Festival
santarcangelo
DA FARE DA NON FARE
Viaggiare, frequentare ciò che non si conosce. Fare esperienza della scomodità, del senso di straniamento, del non capire, della stanchezza, del voler tornare a casa, e insieme dell’eccitazione, della curiosità, del puro piacere del viaggio. Porsi nella condizione di non sapere e farla durare, condividendola con il gruppo di lavoro e con gli artisti, perché questa vibrazione di incertezza e desiderio si trasmetta poi anche agli spettatori e ai passanti. Non costruire recinti, non tracciare sentieri nel bosco, non trasformare i sentieri in grandi strade asfaltate. Non addomesticare, non addomesticarsi: se si vogliono fare, e condividere con altri, incontri straordinari, bisogna avventurarsi in luoghi sconosciuti e pericolosi, non si troverà mai una balena in una vaschetta per pesci rossi.
Fidarsi. Del caso, della generosità delle persone con cui si lavora, dell’intuito degli artisti, della curiosità esigente del pubblico. Del tempo, degli incontri, del fatto che alla fine tutto è connesso e ogni dettaglio contiene l’intero. Fidarsi, soprattutto, di sé e del proprio istinto. Non accontentarsi. È necessario essere esigenti con gli artisti, perché in un confronto serrato possano far crescere la loro libertà, e con le istituzioni, i partner e gli spettatori, perché possano andare dove da soli non andrebbero, dove non sanno di potere o voler andare. E naturalmente essere esigenti con se stessi, essere scontenti, insicuri, ambiziosi, rigorosissimi.
Darsi delle priorità. Non si riesce a fare tutto, e non si può rispondere a tutte le aspettative che sono poste su di un festival. La vera responsabilità è allora quella di fare delle scelte, di darsi delle priorità e un ordine, da seguire sia nel tempo lungo degli anni in cui si imprime una traiettoria a un’istituzione artistica, sia nel tempo brevissimo delle singole giornate di lavoro. E che le priorità cambino, si sa, è una regola del gioco: rende tutto più difficile ma anche più entusiasmante. Non tentare di compiacere nessuno. Si lavora per l’arte e per niente e nessun altro che l’arte. Non per sé, non per certi artisti, non per le istituzioni o i network professionali, non per il pubblico. E alchemicamente, se si respinge la tentazione del compiacimento e della ricerca di approvazione, grandi cose possono accadere per tutti, anche per chi avrebbe voluto essere rassicurato nella sua visione del mondo e invece ne scopre altre nuove.
EDOARDO DONATINI
Contemporanea Festival
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DA FARE DA NON FARE
È fondamentale che un festival sia aggregatore di un’idea di cultura in continuo movimento, un luogo reagente che raccoglie percorsi artistici provenienti da diverse discipline, un connettore di relazioni in cui la trasversalità dei linguaggi caratterizza in maniera consistente la ricerca compositiva e le metodologie della visione. Non fermarsi all’idea dei grandi eventi che non favorisce la costruzione di una comunità capace di difendere le proprie conquiste, passo dopo passo, acquisizione dopo acquisizione.
Considerare lo spettatore come committente in rappresentanza della sua comunità di riferimento; ed è qui che la creazione ristabilisce il giusto spazio d’incontro tra l’agire della scena e il fruire dello spettatore. In questo senso acquista ancora più valore l’attitudine del festival a costruire ambienti complessi, da cui scaturiscono questioni, elementi attivi che innescano continuamente nuove criticità. Considerare lo spettatore come un soggetto “acritico”, un cliente che non è in grado di giudicare e valutare. Evitare il facile consenso che si ottiene dalla proposta di spettacoli che richiamano solo alla pratica dell’intrattenimento o del semplice accompagnamento.
Assumere la responsabilità delle scelte e delle questioni messe in atto, domande che possono creare disorientamenti, che obbligano il pubblico al confronto con prospettive non sempre immediatamente comprensibili, ma forse, facilmente percepibili. La funzione di un festival non può limitarsi alla sola ricerca del nuovo o al mero elenco degli spettacoli in programma.

Come si lavora a Operaestate: scouting, collaborazioni e progettualità europea

Da qualche anno la creatività emergente delle arti performative del Nord Est si è imposta all’attenzione dei palcoscenici nazionali e non solo, fino a richiamare all’interno di questo territorio anche artisti di altra provenienza, italiana e internazionale. Ma cos’è che spinge tanti giovani artisti della danza e del teatro a venire da queste parti per formarsi, per creare le proprie produzioni e mostrarle?
L’operatività di Operaestate Festival Veneto – che vede alla direzione Rosa Scapin con Carlo Mangolini, mentre Roberto Casarotto è responsabile del Progetto Danza Internazionale – negli ultimi anni si è distinta per energia e vitalità, andando a costituire un caso rappresentativo di sperimentazione e innovazione. La struttura, parte fin dalle origini della pubblica amministrazione, si occupa di aspetti che vanno ben oltre la tradizionale concezione del festival-vetrina e si esprime nei termini di un concetto di produzione allargato. Processi di scouting e percorsi formativi, sostegno alla ricerca e opportunità di mobilità, progettualità europea e interazione con soggetti privati sono alcune delle particolarità che distinguono oggi il lavoro di questa realtà ormai più che trentennale. Siamo andati a incontrarla per comprendere come si siano sviluppate alcune di queste peculiarità, che compongono in parte la base a partire da cui tanti giovani artisti della danza e del teatro veneti e non solo hanno affinato la propria ricerca.

Le Bolle Nardini – foto di Adriano Boscato

Un primo aspetto distintivo del lavoro di Operaestate si può rinvenire nel contesto di esperienze di collaborazione con realtà private, che vanno ben oltre il tradizionale concetto di “sponsorizzazione”.
Rosa Scapin: Premetto che “sponsorizzazione” è una parola che non vogliamo più sentire da almeno dieci anni, nel senso che non esiste una dimensione di questo tipo: tutti i sostegni offerti dalle aziende al Festival vengono concordati insieme, a seconda dei rapporti che si instaurano e delle esigenze che vengono espresse. Si tratta soprattutto di concessioni di spazi, di progetti di benessere culturale per i dipendenti e, in qualche caso, di relazioni strutturate nei termini della produzione di nuove opere.
L’esperienza esemplare, in questo contesto, è quella che ci lega alla Ditta Nardini, che fa capo a una famiglia con consistenti interessi per le arti e i linguaggi del contemporaneo. Nel 2002 L.i.s. ha creato Grappa alchemica – finora è l’unica esperienza di creazione in azienda, ma è un tema che emerge con i soggetti che abbiamo avvicinato in tempi recenti e che abbiamo intenzione di avvicinare: utilizzare gli spazi e i prodotti, le innovazioni e la vitalità dell’azienda per mettere in atto nuove creazioni che sappiano combinare entrambe le creatività, ossia quella espressa dagli artisti e quella espressa dall’azienda. È un tema all’ordine del giorno, molto interessante e stimolante: come si intersecano industria creativa e la creazione nelle arti performative? Ma è anche difficile da sviluppare: se una prospettiva simile si realizza, deve accadere perché serve sia a noi che all’artista che all’azienda, innescando un processo virtuoso che abbia una ricaduta importante per tutti.
Carlo Mangolini: Infatti l’esperienza di Grappa alchemica non a caso è stato unica finora: il tema dell’alchimia e della distillazione si è tradotto in uno sviluppo artistico a partire dal prodotto, per cui metteva in forte comunicazione i due piani. È rimasto a ora un’eccezione perché non è semplice che i piani si intersechino in modo tale che lo stimolo produttivo diventi poi anche funzionale – è fondamentale che ci sia questa coincidenza – alle politiche dell’azienda. Il che non è assolutamente facile.
R.S.: Poi, la collaborazione con la Ditta Nardini si è sviluppata con il Garage, che ci è stato offerto nel 2007 ed è stato inaugurato l’anno successivo, e con l’utilizzo delle Bolle per gli spettacoli di danza contemporanea.
Già in precedenza avevamo avviato progetti di formazione e residenza, utilizzando il Teatro Astra…
C.M.: Il primo progetto europeo è stato The Migrant Body nel 2006. Ma in realtà, ancora prima era emersa la necessità di utilizzare uno spazio che non fosse teatrale in senso convenzionale. Abbiamo cominciato a cercarlo fin da quando sono arrivato nel 2001, perché c’era la consapevolezza che uno spazio del genere avrebbe fatto la differenza.

Il lavoro di Operaestate da diversi anni si distingue, nel contesto del teatro e della danza emergenti, per percorsi di scouting e di sostegno che vanno ben al di là del tradizionale contributo produttivo e della presentazione di spettacoli all’interno dell’omonimo festival.
C.M.:
Per quanto riguarda il teatro, abbiamo fatto la scelta di concentrarci molto – anche se non solo – sulle realtà territoriali. Lo stimolo è venuto sicuramente dal Premio Scenario – un’esperienza fondante e fondamentale –, la cui operatività si articola in diverse commissioni zonali, costruite per mappare il nuovo sul territorio: ci ha permesso di avvicinare giovani artisti locali, non soltanto quelli che poi sono arrivati alle fasi finali e hanno dunque maturato e strutturato un percorso insieme al Premio, ma anche altre progettualità, cui abbiamo potuto offrire la possibilità di sperimentare fino in fondo la propria ricerca, con tutti i rischi che può comportare.
Alcune di queste realtà non sono state solo capaci di imporsi all’interno del Premio e oltre, ma hanno rappresentato esperienze fondanti per cambiamenti di approccio da parte del Festival: certo noi abbiamo offerto un sostegno, un aiuto, una possibilità in più alle compagnie; ma di contro, la loro presenza ha donato al Festival una riconoscibilità diversa.
Di solito individuiamo forme di sostegno, anche produttivo, differenti, che si traducono poi anche in esiti diversi: di base un contributo e la possibilità di residenza negli spazi del CSC Garage Nardini, ma, ad esempio – per citare due casi particolarmente significativi – per Anagoor il Festival è stato una palestra in cui il gruppo ha affinato e sperimentato una propria cifra, mentre con Babilonia Teatri è stato concordato un percorso di sostegno pluriennale che ha potuto garantire una sorta di continuità.
Ora stiamo valutando un passo successivo, anche in base a quello che ci viene richiesto dalle compagnie: stiamo studiando e verificando le modalità possibili per consentire e facilitare la circuitazione a livello nazionale e internazionale. Nel 2012 è stato attivato il progetto Transarte: assieme a Short Theatre di Roma, il festival di Terni e Contemporanea di Prato abbiamo ospitato alcune compagnie francesi; stiamo lavorando con Olanda e Francia. L’obiettivo a lungo termine è quello di creare flussi bilaterali che diano la possibilità ad alcune compagnie di essere presenti in situazioni internazionali.

Avete, negli anni, individuato delle realtà partner con cui si siano sviluppate affinità o collaborazioni?
C.M.: Con il Teatro Fondamenta Nuove di Venezia, in passato, si è messa a punto una formula di residenzialità: le compagnie facevano un proprio spettacolo e poi trascorrevano un certo tempo in residenza a Venezia, presentando infine uno studio per un nuovo lavoro, che poi avrebbe debuttato al Festival l’estate successiva. Laddove questa modalità così definita – a causa di tagli consistenti subiti dal Teatro – non è più stata possibile, ci sono in ogni caso ragionamenti su alcuni gruppi che ci piacerebbe continuare a sviluppare insieme: il confronto con Enrico Bettinello (il direttore, ndr) è sempre presente e la collaborazione procede nelle forme e nelle modalità possibili.
Sempre per quanto riguarda il versante teatrale, da diversi anni collaboriamo stabilmente con Centrale Fies di Dro, una struttura che ha sviluppato una vocazione produttiva forte e specifica. Un aspetto che va sempre ribadito è che Operaestate – nonostante tutte le specificità che ci siamo guadagnati sul campo – è un ufficio comunale, non è e non potrà mai essere un centro di produzione. In questo senso, la presenza di una struttura come Fies, con una vocazione produttiva e con cui condividiamo diverse affinità, ha aiutato molto.

Act your age

Altra dimensione in cui si concretizzano esperienze di collaborazione consiste nell’ampia progettualità di carattere europeo che negli ultimi anni segna il lavoro di Operaestate, che in questo senso ha sviluppato un’operatività piuttosto eccezionale soprattutto per quanto riguarda la danza.
Roberto Casarotto:
Un elemento per me rilevante è l’attenzione da parte del Festival, oltre che per il contemporaneo, anche per il territorio: una componente fondamentale è stata quella di basarsi su delle necessità vive e realistiche, corrispondenti alle voci che ci arrivavano da situazioni precise.
Altro aspetto distintivo per la danza, fin dal primo progetto, è stato quello di lavorare in una dimensione internazionale: tutte le azioni che si sono promosse e create, hanno visto protagonisti artisti italiani sempre in dialogo con realtà o progettualità almeno europee. Fin da The Migrant Body abbiamo cercato di metterci in linea con le modalità di lavoro europee e, per farlo, abbiamo messo in rete le opportunità, le esperienze e le conoscenze, dialogando con realtà che avessero storie diverse dalla nostra e identificando insieme tematiche che ci stavano a cuore. La più rilevante – tanto nella dimensione italiana che in quella internazionale delle realtà con cui eravamo entrati in contatto – era quella di creare degli spazi, dei tempi, dei luoghi, delle risorse da dedicare alla ricerca, perché crediamo che quello possa essere il punto di partenza da cui attivare la crescita artistica.
Accanto alla ricerca siamo riusciti, con i mezzi che siamo stati in grado di trovare, a dare un sostegno alla creazione che, nel caso di Operaestate, non va oltre la messa a disposizione di residenze e di opportunità di rappresentazione per gli spettacoli: a oggi non abbiamo un fondo dedicato alla coproduzione. Tuttavia, parte della mobilità si è concentrata sulla promozione all’estero di lavori creati da artisti italiani, che poi, attraverso network come Aerowaves, hanno avuto possibilità di crescita: tutto questo ha portato anche a disseminare per l’Europa una serie di lavori di cui magari non siamo stati coproduttori in senso stretto, ma cui abbiamo partecipato cercando delle opportunità.

I contesti e gli obiettivi si sono riplasmati negli anni?
R.C.: Evolvono. Perché credo che le progettualità tengano molto conto di come cambia la realtà in cui operano. Per esempio, nel 2011 abbiamo avuto Choreoroam, progetto europeo che si incentra sulla ricerca coreografica e il dialogo interculturale; nel 2012 sono arrivati Spazio e Act your age: il primo è un progetto che investiga la danza contemporanea in dialogo con le altre arti – per esempio con le nuove tecnologie sviluppate nell’ambito delle arti visive –, mentre Act your age, per me, in questo momento è il progetto più interessante per quello che è la sua rivoluzionaria idea di partecipazione: è rivolto sia a coreografi e danzatori, sia alle comunità delle varie città dei partner, articolandosi in una serie di attività che coinvolgono la partecipazione attiva degli abitanti, impegnati a investigare cosa significa invecchiare nell’ambito delle arti performative. È stato molto interessante vedere come si siano coinvolte le comunità locali delle città in cui finora è stato proposto – Bassano, Maastricht e Lemesos a Cipro – e credo che non si sia mai misurato un impatto del genere rispetto a forme di ricerca legate a questa tematica: immediatamente ci ha ispirato una serie di riflessioni sulle relazioni fra danza e medicina, in cui non si tratta assolutamente di danza-terapia, ma di arte come modalità di studio del proprio possibile impatto in campo medico e scientifico; ha ispirato considerazioni sulla messinscena e la scelta dei luoghi, in particolare su cosa significhi oggi cercare di raggiungere comunità che generalmente non si avvicinano ai prodotti teatrali convenzionalmente proposti. Tutto questo conduce a vedere la danza quasi come una via per creare progetti che abbiano impatti sociali e politici, quindi a sviluppare politiche culturali che veicolino altre finalità e possiedano altre nature di impatto. E questo ci piace molto.

La progettualità è influenzata dunque dalle condizioni di mutamento della società e del settore; e invece per quanto riguarda le sue ricadute dirette e indirette sulla creatività del territorio?
R.C.: Credo che, in questo momento, sia un aspetto di difficile misurazione. Sicuramente sono emersi dei giovani artisti a livello nazionale e internazionale, che hanno sviluppato le proprie idee e i propri network e sono mentalmente propensi a creare un nuovo concetto di produzione artistica. Molti dei giovani che hanno iniziato con noi, ora concepiscono la loro come una identità europea; spesso sono coinvolti in coproduzioni internazionali… Tutto questo, in un ambito temporale di quattro anni, per me è un risultato abbastanza eccezionale. Quindi c’è indubbiamente un discorso misurabile in termini di quantità di lavori prodotti e di produzioni attivate attraverso questa realtà e l’estero; però c’è anche un aspetto del lavoro che fino a ora non è misurabile in termini quantitativi, ma è legato a una dimensione qualitativa, quella della crescita del pubblico: tramite la modalità della residenza – nel 2012 ne sono state attivate 24, 12 con artisti italiani e altrettante per gli internazionali – presentiamo ogni volta al pubblico i work in progress che vengono realizzati al CSC; c’è un numero sempre in crescita di spettatori, il tempo dedicato alla conversazione che segue il lavoro spesso è più lungo di quello impegnato per la presentazione; è possibile percepire come cresca la modalità con cui il pubblico guarda allo spettacolo. Entrando nella storia degli artisti, entrando nelle diverse modalità di creazione, confrontandosi con linguaggi che vengono da tutto il mondo, il nostro pubblico piano piano si abitua a costruire una propria modalità di accesso a una forma che spesso viene vista come particolarmente comunicativa rispetto a quelle più tradizionali o convenzionali.