intervista silvia bottiroli

Tutorial: organizzare un festival

TUTORIAL: come si fanno le “cose” del teatro? Ce lo facciamo raccontare dalle persone che il teatro lo costruiscono o lo immaginano. In maniera veloce, come i trucchi del mestiere, come i consigli degli esperti.

Questa prima uscita, come il tema del trimestre, è dedicata ai “Festival”. Abbiamo chiesto proprio ai direttori artistici e ai curatori, quali siano le 3 cose assolutamente da fare e le 3 da evitare per creare un festival, per cercare di restituire la varietà di approccio che anima il paesaggio teatrale italiano.

 

BARBARA BONINSEGNA
Drodesera / Centrale Fies
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DA FARE DA NON FARE
Aprire gli occhi sul presente, non solo artistico, non solo politico, non solo iconografico. Adagiarsi sul consolidato
Mettersi in relazione col luogo in cui vivi mantenendo alta la proposta artistica senza mai cedere a compromessi rispetto alla facilità di comprensione, ma piuttosto lavorando col e sul pubblico locale. Spendere soldi che non hai
Mantenere l’indipendenza. Intesa come capacità di muoversi liberamente dal punto di vista filosofico, teorico, pratico e politico senza essere mai preda di qualcuno. Non copiare i festival degli altri (:D)
LUCA RICCI
Kilowatt Festival
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DA FARE DA NON FARE
Costruire un rapporto corretto con gli artisti – Qualunque siano le condizioni economiche dalle quali si parte, gli accordi con gli artisti devono essere chiari, rispettosi del loro sforzo creativo e della loro condizione di lavoratori. Si può anche partire con pochissimo (a noi è capitato così, avevamo 2.500 euro per l’edizione 2003, il primo anno) e chiedere agli artisti di investire in un progetto, ma poi è fondamentale ricordarsi di quegli stessi artisti, una volta che il festival è cresciuto. Meno sono le economie a disposizione e più gli artisti devono conoscere i dettagli del budget, di modo da essere in condizione di poter scegliere se partecipare o meno. Scambiare la propria gratificazione con un bisogno diffuso – Se un festival non è costruito intorno a una precisa analisi delle caratteristiche e ai bisogni della comunità di riferimento, non diventa realmente necessario, ma soltanto autorefenziale. Quando parlo di comunità di riferimento lo dico in senso largo: la comunità di riferimento è al tempo stesso quella locale (coi politici, i cittadini), così come quella delle aree limitrofe o degli appassionati del settore, ma anche quella dei colleghi, a livello nazionale.
Costruire un progetto e non una lista di spettacoli – È fondamentale vedere tanti spettacoli dal vivo e tanto materiale video, perché la conoscenza del panorama è un pre-requisito imprescindibile, ma bisogna anche coltivare una visione in base alla quale la sequenza degli spettacoli scelti non corrisponda a un semplice elenco di titoli, ma sia orientata a un obiettivo ultimo, definisca un progetto, disegni una visione. Copiare gli altri – Se una cosa c’è già, non ha senso rifarla; quel che conta è costruire un progetto creativo intorno a una propria idea originale. Abbiamo bisogno di esplorare ciò che è ignoto piuttosto che di piccoli cabotaggi verso mete già conosciute.
Saper dire no – Come in molte cose della vita dire sì a tutti è facile, ma sono i no che fanno la differenza. Anche nei confronti degli artisti che si stimano non serve essere compiacenti: non aiuta il loro processo creativo e men che meno aiuta il rafforzamento del progetto di festival. Farlo per forza – Se non ci sono le condizioni minime, meglio desistere.
SALVATORE TRAMACERE
Il Teatro dei Luoghi Fest
KOREJA
DA FARE DA NON FARE
È importante la chiarezza del progetto artistico proposto e della coerenza del piano di comunicazione: programmare per tempo e utilizzare tutti gli strumenti utili ad un’adeguata promozione. Non disorientare il pubblico, le compagnie e gli ospiti; non trascurare l’accoglienza: precisione, puntualità e disponibilità.
Far convivere una realtà che valorizzi il territorio (non solo tramite la programmazione ma anche attraverso il coinvolgimento attivo di pubblico e realtà locali, associazioni, collaboratori, ristorazione ecc.) per far sì che si crei un senso forte di aggregazione e comunità. Non chiudersi nel provincialismo.
È importante la coesione del gruppo e della comunicazione interna: riunioni interne e di micro-area; divisione dei compiti ma prontezza di spirito e adattabilità a qualsiasi situazione attraverso un’adeguata capacità di problem solving. Evitare malumori nel gruppo e situazioni d’emergenza.
DARIO DE LUCA
Primavera dei Teatri / Progetto MORE
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DA FARE DA NON FARE
Dare una specificità al proprio festival e perseguirla in maniera rigorosa, aliena da concessioni o compromessi. Un festival con una peculiarità ha carattere, personalità e lo rende riconoscibile. Poi, nel tempo, può, e deve, cambiare, evolversi, invecchiare bene insomma, ma facendo un cambio-pelle naturale e fisiologico. Non dare una personalità al proprio festival.
Accogliere tutti (spettatori, compagnie, operatori e critici) con affabilità. Nessuno deve sentirsi a disagio. È come invitare al proprio matrimonio: dove devono convivere ospiti che non si conoscono tra loro o peggio che non possono vedersi. Non abbandonare nessuno. Non far sentire solo o poco considerato l’ospite. Li hai invitati a una festa a casa tua? Ebbene quella festa devono ricordarsela. Un buon gioco di squadra è essenziale per questo punto. Essere disattento o addirittura assente con l’ospite, sia esso spettatore, artista, operatore o critico.
Gli spettacoli e i gruppi o gli artisti singoli devono realmente convincere la direzione artistica. Costruire l’edizione artistica del festival seguendo le reali convinzioni estetiche e il proprio gusto personale tenendo conto della koinè culturale nel quale si inserisce il progetto prescelto. Non trasformare la programmazione in un contenitore di proposte inserite perché: “bisogna tener conto degli artisti del territorio”, “a quelli dobbiamo un piacere”, “quell’artista va per la maggiore”, “tal dei tali ci ha chiesto di prenderli” etc. etc.  Solo così non sarai mai ricattabile e potrai difendere sempre e a spada tratta le scelte fatte. Costruire un progetto nel quale non ci si riconosce ma che tiene conto di “altre dinamiche”.
Avere una squadra tecnica in grado di risolvere tutti i problemi che possono verificarsi durante il festival. Un festival di teatro è fatto per presentare dei lavori teatrali (spesso in prima visione per cui con la fragilità e delicatezza delle piantine appena spuntate) e questi hanno la massima priorità. Una squadra tecnica accogliente, che sappia mettere a proprio agio gli artisti, sia a disposizione e all’occorrenza sappia consigliare per rendere più efficace quello spettacolo in quel determinato spazio teatrale. Che la cortesia, la disponibilità, la professionalità e il comune intento di resa massima della performance non si tramuti o venga presa per genuflessione acritica nei confronti dell’artista demiurgo dell’opera. Lasciare gli artisti soli senza alcun aiuto e/o supporto emotivo.

 

ANGELA FUMAROLA e FABIO MASI
Armunia / Inequilibrio
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1. ANGELA FUMAROLA
DA FARE DA NON FARE
Dedicare tempo alle scelte artistiche, ponderando bene il bilanciamento delle serata, al fine di rendere ogni giorno un’esperienza unica. Omologarsi.
Puntare al senso di ogni spettacolo e alla sua capacità di interagire con lo spazio emotivo, rigenerandolo. Avere ansia e fretta.
Dare valore all’accoglienza, intesa come ritualità, per il pubblico, per gli artisti e per il gruppo di lavoro. Non riconoscere il contesto di riferimento nel quale si svolge il festival.
2. FABIO MASI
Creare le migliori condizioni per accompagnare la versatilità delle varie proposte artistiche in modo da avere un maggior spettro di proposte, senza l’esigenza di una tematica o filone da seguire. Essere meno vetrina e più processi creativi.
Realizzare un ambiente e un “clima” accogliente e facilitatore di intrecci e confronti. Non creare l’ansia di “correre” a vedere gli spettacoli.
Fare di un festival il luogo e lo spazio dell’ampliamento degli orizzonti artistici e culturali grazie ad altre iniziative non direttamente connesse alla programmazione vera e propria.

 

FABRIZIO ARCURI
Short Theatre
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DA FARE DA NON FARE
Evolversi dai propri gusti. Dare priorità ai propri gusti.
Costruire un contenitore in grado di comunicare con la società. Costruire qualcosa a propria immagine e somiglianza.
Essere curiosi di quello che non si conosce, del nuovo. Essere spaventati dal nuovo.

 

CARLO MANGOLINI
Operaestate Festival Veneto
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DA FARE DA NON FARE
LA PAROLA CHIAVE E’ CONDIVISIONE  LA PAROLA CHIAVE E’ CHIUSURA
ARTISTI / Per costruire i contenuti artistici è indispensabile mettersi in ascolto. Intercettare tutto quello che accade attorno a noi. Costruire un percorso riconoscibile. Comunicare con gli artisti, ascoltarli, interpretarli, capire le loro potenzialità. MAI ESSERE AUTOREFERENZIALI / Evitare di ripetere se stessi.
STAFF / Per rendere efficace il risultato è fondamentale poter contare su un gruppo di persone con le quali condividere idee, pensieri ma anche fatica, sudore e tanto tempo da dedicare al progetto. MAI ESSERE PRESUNTUOSI / Non essere sicuri mai di niente.
PUBBLICO / Per intercettare il pubblico è necessario conoscerlo e farsi conoscere. Spiegare percorsi e direzioni di lavoro, trovare modalità di coinvolgimenti, creare momenti di approfondimento. MAI ESSERE ASSENTI / Prendersi cura di tutti: artisti, staff, pubblico, ma anche stampa, operatori e chiunque entra il relazione col festival .
SILVIA BOTTIROLI
Santarcangelo Festival
santarcangelo
DA FARE DA NON FARE
Viaggiare, frequentare ciò che non si conosce. Fare esperienza della scomodità, del senso di straniamento, del non capire, della stanchezza, del voler tornare a casa, e insieme dell’eccitazione, della curiosità, del puro piacere del viaggio. Porsi nella condizione di non sapere e farla durare, condividendola con il gruppo di lavoro e con gli artisti, perché questa vibrazione di incertezza e desiderio si trasmetta poi anche agli spettatori e ai passanti. Non costruire recinti, non tracciare sentieri nel bosco, non trasformare i sentieri in grandi strade asfaltate. Non addomesticare, non addomesticarsi: se si vogliono fare, e condividere con altri, incontri straordinari, bisogna avventurarsi in luoghi sconosciuti e pericolosi, non si troverà mai una balena in una vaschetta per pesci rossi.
Fidarsi. Del caso, della generosità delle persone con cui si lavora, dell’intuito degli artisti, della curiosità esigente del pubblico. Del tempo, degli incontri, del fatto che alla fine tutto è connesso e ogni dettaglio contiene l’intero. Fidarsi, soprattutto, di sé e del proprio istinto. Non accontentarsi. È necessario essere esigenti con gli artisti, perché in un confronto serrato possano far crescere la loro libertà, e con le istituzioni, i partner e gli spettatori, perché possano andare dove da soli non andrebbero, dove non sanno di potere o voler andare. E naturalmente essere esigenti con se stessi, essere scontenti, insicuri, ambiziosi, rigorosissimi.
Darsi delle priorità. Non si riesce a fare tutto, e non si può rispondere a tutte le aspettative che sono poste su di un festival. La vera responsabilità è allora quella di fare delle scelte, di darsi delle priorità e un ordine, da seguire sia nel tempo lungo degli anni in cui si imprime una traiettoria a un’istituzione artistica, sia nel tempo brevissimo delle singole giornate di lavoro. E che le priorità cambino, si sa, è una regola del gioco: rende tutto più difficile ma anche più entusiasmante. Non tentare di compiacere nessuno. Si lavora per l’arte e per niente e nessun altro che l’arte. Non per sé, non per certi artisti, non per le istituzioni o i network professionali, non per il pubblico. E alchemicamente, se si respinge la tentazione del compiacimento e della ricerca di approvazione, grandi cose possono accadere per tutti, anche per chi avrebbe voluto essere rassicurato nella sua visione del mondo e invece ne scopre altre nuove.
EDOARDO DONATINI
Contemporanea Festival
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DA FARE DA NON FARE
È fondamentale che un festival sia aggregatore di un’idea di cultura in continuo movimento, un luogo reagente che raccoglie percorsi artistici provenienti da diverse discipline, un connettore di relazioni in cui la trasversalità dei linguaggi caratterizza in maniera consistente la ricerca compositiva e le metodologie della visione. Non fermarsi all’idea dei grandi eventi che non favorisce la costruzione di una comunità capace di difendere le proprie conquiste, passo dopo passo, acquisizione dopo acquisizione.
Considerare lo spettatore come committente in rappresentanza della sua comunità di riferimento; ed è qui che la creazione ristabilisce il giusto spazio d’incontro tra l’agire della scena e il fruire dello spettatore. In questo senso acquista ancora più valore l’attitudine del festival a costruire ambienti complessi, da cui scaturiscono questioni, elementi attivi che innescano continuamente nuove criticità. Considerare lo spettatore come un soggetto “acritico”, un cliente che non è in grado di giudicare e valutare. Evitare il facile consenso che si ottiene dalla proposta di spettacoli che richiamano solo alla pratica dell’intrattenimento o del semplice accompagnamento.
Assumere la responsabilità delle scelte e delle questioni messe in atto, domande che possono creare disorientamenti, che obbligano il pubblico al confronto con prospettive non sempre immediatamente comprensibili, ma forse, facilmente percepibili. La funzione di un festival non può limitarsi alla sola ricerca del nuovo o al mero elenco degli spettacoli in programma.

Santarcangelo 14: riflettendo sul Festival

foto di Ilaria Scarpa

foto di Ilaria Scarpa

A conclusione del triennio che li ha visti dirigere il Festival Internazionale di Teatro in Piazza di Santarcangelo, abbiamo incontrato Silvia Bottiroli e Rodolfo Sacchettini per farci raccontare l’edizione 2014 e la loro visione del futuro.

Quali sono state le linee guida di questo triennio da voi diretto?
RS Un lavoro non solo sul Festival ma anche sull’annualità con la realizzazione di Anno Solare: non una stagione teatrale, ma una serie di attività organizzate all’insegna del lavoro con le compagnie, della loro crescita e delle residenze. Il progetto è stato anche un grande lavoro di relazione con la cittadinanza, perché abbiamo visto quanto sia stato fondamentale tenere la brace accesa tra un’edizione e l’altra. Questo era uno degli obiettivi iniziali e siamo contenti di averlo portato a termine. Una seconda questione è la dimensione internazionale: abbiamo lavorato per far sì che Santarcangelo potesse essere una finestra su altri mondi e su nuovi percorsi e che lo facesse in modo capillare come se si stesse lavorando con dei gruppi italiani. Guardare all’Europa con uno sguardo che fosse nostro e con un atteggiamento di grande ascolto nei confronti di ciò che sta succedendo in questi anni.

Come avete concretizzato questo lavoro con la dimensione internazionale?
RS Oggi, secondo me, per proporre un discorso culturale di un certo spessore, non si può che avere un orizzonte cosmopolita. Bisogna fare esperienza di ciò che accade fuori per capire anche ciò che ci passa accanto. L’anno scorso abbiamo avuto la possibilità di avvalerci della collaborazione del curatore Matthieu Goeury. Con lui non abbiamo lavorato come con un consulente esterno, ma in ottica di collettivo e in forte condivisione. C’è poi una serie di progetti in cui il lavoro straniero non è stato semplicemente importato, ma è stato reinventato e riadattato alla situazione italiana. L’anno scorso è stato il caso di Lotte Van Den Berg, quest’anno il caso di Sarah Vanhee. Si tratta non tanto di ospitare un artista, ma di creare assieme un rapporto proficuo in termini produttivi. Come dice Ernesto De Martino credo che per essere cosmopoliti bisogna avere un “villaggio nella memoria”. Bisogna avere cioè un proprio punto di vista, radicale. E il punto di vista di Santarcangelo è la sua storia, “eroica” per quanto riguarda il teatro.

foto di Ilaria Scarpa

foto di Ilaria Scarpa

In cosa siete riusciti a far emergere le forme del radicalmente nuovo?
RS Io credo che in questi tre anni Santarcangelo abbia detto alcune cose su più livelli: innanzitutto ha ripensato a una forma di Festival che fosse molto intrecciata alla città. È così da sempre, ma abbiamo ragionato sulla tipologia di relazione da inventare di volta in volta. Secondo noi la relazione tra Festival e territorio di riferimento non può essere una relazione orizzontale, ma triangolare. Ci deve essere un punto d’incontro che sono gli artisti, le opere che si fanno, lo spazio e il tempo che inventiamo. Tra città e Festival ci deve essere il desiderio di fare un passo l’uno verso l’altro. Lo stesso deve accadere con la comunità degli artisti: Santarcangelo è un luogo che fa parte della storia di tante persone. Questo posto per tanti artisti, tecnici, operatori del settore, critici, spettatori è stato il luogo dell’inizio e il luogo in cui nascono le cose, è il luogo del nuovo, della nascita di qualcosa che ancora non si conosce. Solo lasciando passare del tempo potremo sapere cosa è nato in questi anni, sapendo che oggi tenere viva una fonte di questo tipo è difficilissimo, c’è bisogno di tantissimi ingredienti: il desiderio di molti di essere qui, la scoperta, la meraviglia, la diversità, i valori artistici, una condizione economica e una politica che ti permettano di fare tutto questo.

SB I passaggi in cui abbiamo lasciato che qualcosa di nuovo accadesse sono stati i momenti in cui abbiamo fatto un passo di lato o indietro e siamo riusciti a creare un vuoto perché qualcosa di altro potesse accadere. L’esempio più calzante è l’utilizzo che abbiamo fatto della piazza. Nel passaggio dal primo al secondo anno abbiamo innovato un approccio già riconoscibile: abbiamo spostato l’orizzonte di quello che presentavamo o la drammaturgia di quello che accadeva nelle serate aumentando il rapporto con il pubblico e il livello dell’incontro tra un teatro contemporaneo e una platea indifferenziata. Quest’anno invece abbiamo deciso di lasciar andare la piazza, cioè di togliere il teatro da quello spazio perché potesse esistere come luogo in sé. Qualcosa è accaduto con il lavoro di Mael Veisse e le sue sedie dislocate nello spazio perché il suo approccio al luogo e all’architettura porta degli elementi ma li lascia anche liberi di muoversi. La dinamica in sé è molto semplice: le persone vivono la piazza come una piazza ma in modo molto più intenso di quanto fanno normalmente. Ora è il luogo di una laboriosità dove si riparano le biciclette, i bambini giocano, i turisti si fermano e così via, e questo a me comunica il grado di nostalgia che lascerà quella piazza che nell’ordinario non riuscirà a esistere. Il nostro punto di vista curatoriale ci ha permesso di fare un passaggio di sottrazione, togliere il teatro da lì e lasciare lo spazio aperto.

La componente politica attraversa la programmazione del Festival. La forma stessa del Festival e la sua relazione con la città ha una sua componente politica intrinseca, indaghiamola.
RS È un Festival che lavora su una diversità e che pone delle domande a una minoranza. Santarcangelo è nella sua natura uno spazio per il teatro di ricerca e ha questo tipo di esigenza radicale: non fare scelte facili, ma scegliere ciò che comporta rischio e sperimentazione. In altri contesti il condizionamento politico e di pubblico è enorme, mentre Santarcangelo garantisce di venire in un luogo vivo, di avere molta attenzione sia da parte del pubblico che degli addetti ai lavori, di avere degli spazi molto belli ma non teatrali e quindi costringe gli artisti a reinventare e riadattare. A Santarcangelo vorremmo costruire un certo spazio di libertà dai ricatti dell’oggi che sono dei vincoli micidiali legati soprattutto ai dettami dell’economia e della comunicazione. Oggi come oggi il mondo si è miniaturizzato, la crisi spaventa e comporta chiusura e minore assunzione di rischio. In una situazione di crollo e di grande confusione anche artistica, credo ci sia un bisogno disperato di luoghi in cui si prova ad andare in controtendenza e si prova a far accadere delle cose, con il margine ovvio del presente incontrollabile. Intanto però si cerca di creare le condizioni utili alla nascita, alla crescita e alla vita di esperienze nuove.

SB Accanto a questo, la forma di Festival veicola di per sé una politica delle relazioni, della cura, parole abusate ma centrali. È una politica effettiva e concreta: diciamo spesso che il Festival per dieci giorni è il sindaco della città, mentre il sindaco diventa spettatore. Il Festival rivolge delle proposte, o degli inviti, su come vivere assieme: bici, acqua, luoghi d’incontro, dove e come si mangia. Ed è una politica che tiene assieme tante realtà diverse, artisti, lavoratori, cittadini, spettatori…

foto di Ilaria Scarpa

foto di Ilaria Scarpa

Edizione 2014: teatro, danza, cinema, incontri, architettura…
RS In questi tre anni, per varie ragioni, abbiamo implementato l’aspetto delle alterità rispetto al teatro. Noi abbiamo uno spazio e un tempo definito e delimitato e in questi dieci giorni vogliamo costruire un piccolo mondo, una polis, in cui ovviamente ci deve essere tutto, in un momento di festa che ha bisogno di sregolatezza: orari, densità di relazione, energia sono accelerati rispetto alla quotidianità. Secondo me c’è bisogno di questo per fare esperienze. Inoltre, da un punto di vista artistico, il lavoro deve essere complesso, per essere all’altezza delle domande dell’oggi: bisogna mescolare e incrociare le cose. L’elemento del linguaggio ibrido è fondamentale ormai da tempo, ma sempre più necessario è l’approccio ibrido a monte.

SB Abbiamo avvertito il bisogno di andare a cercare oltre quella dimensione performativa che il Festival già ha, sapendo che questi nuovi elementi sarebbero stati inseriti in una struttura e un’architettura che sono performative in sé. La forma Festival, abbiamo imparato, può contenere elementi molto diversi. Abbiamo cercato incontri al di fuori del teatro anche perché ci sembra che in questo momento il teatro stesso abbia bisogno di guardare fuori da sé. Gli artisti hanno bisogno di uscire da una dimensione rappresentativa e il Festival può essere l’occasione giusta per farlo date le sue caratteristiche. In alcuni casi per noi è stato importante invitare direttamente alcuni artisti a compiere una serie di incontri, in altri casi, quell’altro a cui il teatro guarda è la realtà nel suo senso più esplicito e politico.

Cosa ti auguri di aver portato di nuovo che possa proseguire nel futuro del Festival?
RS Il futuro del sistema teatrale generale mi sembra molto nero… stanno crollando molte cose e ci sono tantissimi problemi. Le fondamenta stesse stanno cedendo, ma ci sono delle situazioni che provano a crescere. Santarcangelo in questi ultimi anni ci ha provato. Siamo partiti dopo un triennio diretto da artisti. Un triennio in cui il Festival è stato “salvato” da tre compagnie storiche della regione che hanno messo al centro della programmazione la loro ricerca artistica. Nei tre anni successivi abbiamo provato a lavorare in maniera meno verticale e con un’idea di curatela molto aperta alle diversità, di cui c’è un disperato bisogno secondo noi. Dopo tre anni di lavoro, secondo me è chiara una cosa: per raccogliere dei frutti c’è bisogno di tempo e di relazioni che nascono anni prima. Questo è da tenere ben presente per il futuro. Come secondo aspetto direi la natura di questo Festival: un luogo dove la sperimentazione e gli incroci possano continuare a essere praticati. Un luogo di diversità, energie giovani, crescita. Altrimenti si normalizza con i tanti altri festival che già esistono. Il valore della diversità della storia di Santarcangelo è un cardine da preservare.

SB Mi sembrano importanti soprattutto due aspetti. Il primo è la dimensione internazionale: Santarcangelo è un Festival che mette in contatto una certa realtà internazionale con una località molto specifica. Qui la temperatura di quest’incontro è molto particolare ed è una responsabilità averne cura, per costruire un’internazionalità che non sia solo un cartellone con molte presenze straniere, ma un lavoro comune con persone e realtà che hanno altre provenienze. In secondo luogo la dimensione del rapporto tra gli artisti e la città: è facile creare sulla carta a priori delle condizioni per un progetto e poi con questioni minuscole, nella pratica, spegnere proprio i fuochi di quei progetti, mentre in questi anni credo che abbiamo saputo far nascere certi percorsi, far accadere certi incontri, alimentare certi incendi.

Intervista a cura di Margherita Gallo

Tattica, Innovazione, Istituzioni. Spunti per un confronto con Silvia Bottiroli

A Lecce, in occasione di ArtLab13, abbiamo incontrato Silvia Bottiroli, direttrice artistica di Santarcangelo 12♦13♦14. Nel chiostro del MUST, il museo storico della città, abbiamo ascoltato il suo parere su alcuni spunti particolarmente interessanti emersi durante il convegno, riflettendo assieme intorno a specifiche parole.

Silvia Bottiroli foto di Ilaria Scarpa

Silvia Bottiroli foto di Ilaria Scarpa

STRATEGIA
Termine divenuto centrale, che pone l’accento sulla necessità di ragionare pianificando e sfruttando le sempre minori risorse che le organizzazioni culturali hanno a disposizione. Nel corso di un dibattito ad ArtLab13, hai proposto un’interessante spunto di riflessione sul concetto di tattica come alternativa alla parola strategia. Cosa intendi?

S.B: È una riflessione in corso non ancora così formalizzata. Ho iniziato a riflettere sulla differenza tra tattica e strategia circa un anno fa a Graz durante Truth is concrete, la maratona sul rapporto tra arte e attivismo politico organizzata dal festival Steirischer Herbst. In quel contesto si è molto discusso della differenza tra questi due approcci, all’interno di un solco di riflessione che a me interessa particolarmente: la possibilità che il fare artistico introduca cambiamento nel mondo a diversi livelli. Dal mio punto di vista, la strategia è qualcosa che parte dall’alto e la tattica è qualcosa che parte dal basso, e in particolare queste due parole identificano due visioni di territorio e di modalità di operare molto diverse. La strategia presuppone una pre-visione e un pre-orientamento del futuro. È uno sguardo che territorializza e segna dei perimetri, degli ambiti e delle appartenenze. La strategia è una prospettiva già data. La tattica invece ha un approccio molto più basato sulla mobilità e soprattutto si pone nei confronti del futuro secondo criteri che non sono strettamente legati alla pianificazione, all’architettura e alla costruzione di un tempo a venire, ma è un mettersi a disposizione, un’apertura nei confronti del tempo a venire. La definirei quasi come una fiducia nell’imprevedibile. In sintesi, concepisco la tattica come una lettura costante di quello che ci sta accadendo, che non cerca di pre-orientarlo, ma di accoglierlo.

INNOVAZIONE.
Altro termine chiave che si rivela essere una pratica sempre più fondamentale. Qual è il tuo punto di vista sul concetto stesso di innovazione?

S.B: Se parliamo di innovazione, ciò che mi preme sottolineare prima di tutto è la differenza tra la produzione di innovazione e la produzione del nuovo, due concetti sostanzialmente diversi.
Se intendiamo per innovazione una auspicabilmente costante trasformazione dell’esistente verso nuove forme, intenderei invece per produzione del nuovo la possibilità di far apparire qualcosa di completamente diverso da ciò che già esiste. Parliamo di due procedimenti e modalità molto diverse. Più che di innovazione, che è un concetto molto virtuoso soprattutto nell’ambito delle pratiche, mi interessa in questo momento porre la domanda sul come, attraverso il lavoro che facciamo, possiamo far apparire ed emergere un nuovo scenario ancora sconosciuto. Se vogliamo che qualcosa che non conosciamo accada, dobbiamo muoverci con strumenti che non sono usuali, tenendo sempre presente che la produzione di cambiamento ha anche un aspetto distruttivo e soprattutto che è un avvenimento meno controllabile rispetto al processo di innovazione dell’esistente.
Diciamo pure che, anche rispetto all’esperienza di Santarcangelo, le due cose non sono opposte: si può provare a operare in una logica di cambiamento dell’istituzione e di innovazione delle sue modalità di lavoro, preparando il terreno perché quell’istituzione possa poi accogliere il nuovo quando questo si manifesta, sia in termini di produzione artistica che di modalità lavorativa propria dell’istituzione.

Santarcangelo Festival - foto di Ilaria Scarpa

Santarcangelo Festival – foto di Ilaria Scarpa

Proviamo a portare due esempi, che riguardino la realtà in cui lavori, per mettere meglio a fuoco questa differenza.

S.B: Se penso al nostro lavoro a Santarcangelo, a cosa stiamo facendo o abbiamo fatto in termini di innovazione, penso al modo in cui abbiamo articolato le nostre attività nell’arco di tutto l’anno e alla conseguente riorganizzazione del rapporto tra il festival e il territorio. Anno Solare – è questo il titolo delle nostre attività annuali – risponde a una lettura del contesto e a una trasformazione dell’esistente. Il progetto ha coinciso con la creazione di nuove possibilità a partire da ciò che già c’era, attraverso un utilizzo nuovo delle risorse che abbiamo in termini di foresteria e spazio per gli artisti e mediante l’attivazione di una serie di proposte, dialoghi e inviti alla città: gli incontri, le prove aperte, le gite in pullman a teatro. Al momento stiamo cercando di non formalizzare queste nuove modalità sperimentate, ma proviamo a cambiarle mantenendole costantemente in discussione.
Sul fronte della produzione del nuovo, siamo ancora nell’ambito delle domande aperte a cui non so dare una risposta compiuta ma, per portare un esempio, l’anno scorso abbiamo affidato al collettivo di architetti collAA uno spazio all’interno dello Sferisterio di Santarcangelo. Questo spazio ha ospitato diverse funzioni del festival: gli incontri, la libreria, una ciclofficina, il Progetto Clima di MK e altri ancora… Ma soprattutto ha creato un’apertura, un potenziale, e cioè è stato usato anche in modi impensati e non programmati, ci ha rivelato qualcosa che non avevamo previsto. Proprio a partire dall’esperienza fatta in questo luogo e all’interno del progetto europeo Shared Space, stiamo articolando per il prossimo anno una serie di pratiche artistiche e pratiche seminariali sulla questione dello spazio. Ovviamente il festival non si risolverà interamente lì dentro, ma nella nostra visione questa è una sorta di miniatura che potrà far apparire qualcosa di altro rispetto al festival che conosciamo, un’idea di spazio e tempo di esperienza e di produzione di conoscenza.

PUBBLICO PARTE I.
Inteso come spettatore, partecipante, audience. Vorrei che prima di tutto cercassi di raccontare il pubblico o i pubblici di Santarcangelo, per come li conosci e li studi dal tuo osservatorio.

S.B: Nella nostra esperienza i pubblici sono plurali innanzitutto in una dimensione territoriale. Il pubblico locale lo definirei proprio con il termine di “cittadini” perché, anche se non sono necessariamente spettatori del festival, sono tutti cittadini di questo festival oltre che della loro città. La situazione che abbiamo a Santarcangelo, sicuramente frutto della sua storia, è di grande partecipazione e quindi di ampio dibattito intorno al festival che è un fatto sociale e culturale importante per la comunità. Può essere molto amato o anche molto criticato, ma è un fattore di riconoscimento di un’identità collettiva attorno al quale si discute. Abbiamo notato come i cittadini che sono orgogliosi di avere il festival, lo difendono e lo supportano, non siano necessariamente spettatori che comprano il biglietto e vengono agli spettacoli, ma piuttosto abitanti che si sono sentiti partecipi del festival. Le forme di coinvolgimento e partecipazione possono essere molto semplici come la richiesta a una casa privata di aprirci le porte e darci un allaccio alla rete elettrica per riuscire a fare un spettacolo. Accanto a questo, abbiamo sperimentato approcci partecipativi molto più complessi come il coinvolgimento degli abitanti nei progetti artistici di Virgilio Sieni o Richard Maxwell ad esempio.
Un altro esempio è Compagnia di giro, un progetto che prevede lo spostamento in pullman per andare a teatro durante la stagione invernale in altri spazi della regione. Questo è stato uno strumento molto importante perché ha permesso ai partecipanti di vedere un tipo di teatro che non fosse solo quello di ricerca che il festival propone e al contempo di leggere un territorio circostante che è ricchissimo e che merita di avere supporto in termini di spettatori. A noi ha dato la possibilità di rispondere a una collettività che non ha una stagione teatrale, senza farci carico direttamente di un’attività che non saremmo in grado di gestire e che non ci compete.
Con queste azioni il festival ha affermato con chiarezza che si occupa della città e che vuole essere per la comunità un’occasione di crescita e riflessione su se stessa. Il pubblico locale è sicuramente il pubblico di cui ci siamo occupati di più perché è nei suoi confronti che sentiamo una responsabilità maggiore, cercando però di concepire questo lavoro non in ottica pedagogica, ma in un’ottica della relazione e della prossimità. Ci siamo posti come il loro interlocutore più presente e più prossimo nei confronti del mondo del teatro.

PUBBLICO PARTE II
Inteso come ruolo chiave del sostegno al settore culturale. Qual è il tuo punto di vista sul ruolo che le istituzioni culturali possono svolgere in tempi di cambiamento obbligato. Credi nel loro ruolo? Possono davvero produrre cambiamento o semplicemente riprodurre se stesse?

S.B: Ho evidentemente una grande fiducia nelle istituzioni, credo sia importante che questi anni di trasformazione siano attraversati anche dalle istituzioni. L’esperienza di Santarcangelo è abbastanza interessante perché è un’associazione di diritto privato, formata però interamente da enti pubblici, finanziata per la maggior parte da fondi nazionali, regionali e locali che, come molte altre istituzioni, negli ultimi anni ha avviato un processo di ribilanciamento delle entrate secondo criteri di sostenibilità che tengono conto della partecipazione di privati. Questo è già un aspetto di cambiamento istituzionale importante che sto vedendo accadere sempre più spesso. Confrontarsi con l’istituzione ha indubbiamente un aspetto faticoso e complesso, perché è un contesto in cui possono e devono coesistere dei punti di vista molto diversi. Stiamo tentando di inserire un seme di trasformazione potente, rimettendo in discussione la traduzione in attività concrete degli obiettivi statuari che l’associazione ha. A mio avviso, il tema dell’innovazione in questo momento deve essere posto in termini radicali: un’istituzione oggi è all’altezza del suo compito se non tenta solo di adoperare delle piccole migliorie al suo funzionamento, ma se riesce a scardinare e mettere in discussione le pratiche di lavoro consolidate o le modalità organizzative. Per fare questo ha bisogno di elementi estranei ed esterni che provocano un cambiamento. Santarcangelo ha il raro privilegio di essere un’organizzazione che cambia con costanza la direzione artistica, ma in generale, se un’istituzione vuole innovare e innovarsi probabilmente deve porsi il tema del ricambio al suo interno e ai suoi vertici perché è dall’incontro con una diversità che il cambiamento può accadere.

Vorrei tornare alle due parole proposte all’inizio: strategia e tattica, che sono entrambe termini bellici. Parlare di nemico è ovviamente fuorviante, ma per stare nella metafora della guerra, alla luce di quanto detto finora, qual è lo scopo/obiettivo di un’organizzazione culturale come quella da te diretta e come cambia questo obiettivo se lo si guarda attraverso l’ottica della tattica?

S.B: Siamo in un momento in cui produrre cambiamento è più importante che sopravvivere. Stare in difesa, mirare alla propria sopravvivenza o alla propria crescita, in termini di organizzazione, è meno importante che introdurre il principio che dobbiamo abitare la complessità in modo aperto e produrre cambiamento, anche a costo di trasformarci radicalmente, disperdere le forme che conosciamo, attendere che ne emergano delle nuove.

Intervista a cura di Margherita Gallo