A conclusione del triennio che li ha visti dirigere il Festival Internazionale di Teatro in Piazza di Santarcangelo, abbiamo incontrato Silvia Bottiroli e Rodolfo Sacchettini per farci raccontare l’edizione 2014 e la loro visione del futuro.
Quali sono state le linee guida di questo triennio da voi diretto?
RS Un lavoro non solo sul Festival ma anche sull’annualità con la realizzazione di Anno Solare: non una stagione teatrale, ma una serie di attività organizzate all’insegna del lavoro con le compagnie, della loro crescita e delle residenze. Il progetto è stato anche un grande lavoro di relazione con la cittadinanza, perché abbiamo visto quanto sia stato fondamentale tenere la brace accesa tra un’edizione e l’altra. Questo era uno degli obiettivi iniziali e siamo contenti di averlo portato a termine. Una seconda questione è la dimensione internazionale: abbiamo lavorato per far sì che Santarcangelo potesse essere una finestra su altri mondi e su nuovi percorsi e che lo facesse in modo capillare come se si stesse lavorando con dei gruppi italiani. Guardare all’Europa con uno sguardo che fosse nostro e con un atteggiamento di grande ascolto nei confronti di ciò che sta succedendo in questi anni.
Come avete concretizzato questo lavoro con la dimensione internazionale?
RS Oggi, secondo me, per proporre un discorso culturale di un certo spessore, non si può che avere un orizzonte cosmopolita. Bisogna fare esperienza di ciò che accade fuori per capire anche ciò che ci passa accanto. L’anno scorso abbiamo avuto la possibilità di avvalerci della collaborazione del curatore Matthieu Goeury. Con lui non abbiamo lavorato come con un consulente esterno, ma in ottica di collettivo e in forte condivisione. C’è poi una serie di progetti in cui il lavoro straniero non è stato semplicemente importato, ma è stato reinventato e riadattato alla situazione italiana. L’anno scorso è stato il caso di Lotte Van Den Berg, quest’anno il caso di Sarah Vanhee. Si tratta non tanto di ospitare un artista, ma di creare assieme un rapporto proficuo in termini produttivi. Come dice Ernesto De Martino credo che per essere cosmopoliti bisogna avere un “villaggio nella memoria”. Bisogna avere cioè un proprio punto di vista, radicale. E il punto di vista di Santarcangelo è la sua storia, “eroica” per quanto riguarda il teatro.
In cosa siete riusciti a far emergere le forme del radicalmente nuovo?
RS Io credo che in questi tre anni Santarcangelo abbia detto alcune cose su più livelli: innanzitutto ha ripensato a una forma di Festival che fosse molto intrecciata alla città. È così da sempre, ma abbiamo ragionato sulla tipologia di relazione da inventare di volta in volta. Secondo noi la relazione tra Festival e territorio di riferimento non può essere una relazione orizzontale, ma triangolare. Ci deve essere un punto d’incontro che sono gli artisti, le opere che si fanno, lo spazio e il tempo che inventiamo. Tra città e Festival ci deve essere il desiderio di fare un passo l’uno verso l’altro. Lo stesso deve accadere con la comunità degli artisti: Santarcangelo è un luogo che fa parte della storia di tante persone. Questo posto per tanti artisti, tecnici, operatori del settore, critici, spettatori è stato il luogo dell’inizio e il luogo in cui nascono le cose, è il luogo del nuovo, della nascita di qualcosa che ancora non si conosce. Solo lasciando passare del tempo potremo sapere cosa è nato in questi anni, sapendo che oggi tenere viva una fonte di questo tipo è difficilissimo, c’è bisogno di tantissimi ingredienti: il desiderio di molti di essere qui, la scoperta, la meraviglia, la diversità, i valori artistici, una condizione economica e una politica che ti permettano di fare tutto questo.
SB I passaggi in cui abbiamo lasciato che qualcosa di nuovo accadesse sono stati i momenti in cui abbiamo fatto un passo di lato o indietro e siamo riusciti a creare un vuoto perché qualcosa di altro potesse accadere. L’esempio più calzante è l’utilizzo che abbiamo fatto della piazza. Nel passaggio dal primo al secondo anno abbiamo innovato un approccio già riconoscibile: abbiamo spostato l’orizzonte di quello che presentavamo o la drammaturgia di quello che accadeva nelle serate aumentando il rapporto con il pubblico e il livello dell’incontro tra un teatro contemporaneo e una platea indifferenziata. Quest’anno invece abbiamo deciso di lasciar andare la piazza, cioè di togliere il teatro da quello spazio perché potesse esistere come luogo in sé. Qualcosa è accaduto con il lavoro di Mael Veisse e le sue sedie dislocate nello spazio perché il suo approccio al luogo e all’architettura porta degli elementi ma li lascia anche liberi di muoversi. La dinamica in sé è molto semplice: le persone vivono la piazza come una piazza ma in modo molto più intenso di quanto fanno normalmente. Ora è il luogo di una laboriosità dove si riparano le biciclette, i bambini giocano, i turisti si fermano e così via, e questo a me comunica il grado di nostalgia che lascerà quella piazza che nell’ordinario non riuscirà a esistere. Il nostro punto di vista curatoriale ci ha permesso di fare un passaggio di sottrazione, togliere il teatro da lì e lasciare lo spazio aperto.
La componente politica attraversa la programmazione del Festival. La forma stessa del Festival e la sua relazione con la città ha una sua componente politica intrinseca, indaghiamola.
RS È un Festival che lavora su una diversità e che pone delle domande a una minoranza. Santarcangelo è nella sua natura uno spazio per il teatro di ricerca e ha questo tipo di esigenza radicale: non fare scelte facili, ma scegliere ciò che comporta rischio e sperimentazione. In altri contesti il condizionamento politico e di pubblico è enorme, mentre Santarcangelo garantisce di venire in un luogo vivo, di avere molta attenzione sia da parte del pubblico che degli addetti ai lavori, di avere degli spazi molto belli ma non teatrali e quindi costringe gli artisti a reinventare e riadattare. A Santarcangelo vorremmo costruire un certo spazio di libertà dai ricatti dell’oggi che sono dei vincoli micidiali legati soprattutto ai dettami dell’economia e della comunicazione. Oggi come oggi il mondo si è miniaturizzato, la crisi spaventa e comporta chiusura e minore assunzione di rischio. In una situazione di crollo e di grande confusione anche artistica, credo ci sia un bisogno disperato di luoghi in cui si prova ad andare in controtendenza e si prova a far accadere delle cose, con il margine ovvio del presente incontrollabile. Intanto però si cerca di creare le condizioni utili alla nascita, alla crescita e alla vita di esperienze nuove.
SB Accanto a questo, la forma di Festival veicola di per sé una politica delle relazioni, della cura, parole abusate ma centrali. È una politica effettiva e concreta: diciamo spesso che il Festival per dieci giorni è il sindaco della città, mentre il sindaco diventa spettatore. Il Festival rivolge delle proposte, o degli inviti, su come vivere assieme: bici, acqua, luoghi d’incontro, dove e come si mangia. Ed è una politica che tiene assieme tante realtà diverse, artisti, lavoratori, cittadini, spettatori…
Edizione 2014: teatro, danza, cinema, incontri, architettura…
RS In questi tre anni, per varie ragioni, abbiamo implementato l’aspetto delle alterità rispetto al teatro. Noi abbiamo uno spazio e un tempo definito e delimitato e in questi dieci giorni vogliamo costruire un piccolo mondo, una polis, in cui ovviamente ci deve essere tutto, in un momento di festa che ha bisogno di sregolatezza: orari, densità di relazione, energia sono accelerati rispetto alla quotidianità. Secondo me c’è bisogno di questo per fare esperienze. Inoltre, da un punto di vista artistico, il lavoro deve essere complesso, per essere all’altezza delle domande dell’oggi: bisogna mescolare e incrociare le cose. L’elemento del linguaggio ibrido è fondamentale ormai da tempo, ma sempre più necessario è l’approccio ibrido a monte.
SB Abbiamo avvertito il bisogno di andare a cercare oltre quella dimensione performativa che il Festival già ha, sapendo che questi nuovi elementi sarebbero stati inseriti in una struttura e un’architettura che sono performative in sé. La forma Festival, abbiamo imparato, può contenere elementi molto diversi. Abbiamo cercato incontri al di fuori del teatro anche perché ci sembra che in questo momento il teatro stesso abbia bisogno di guardare fuori da sé. Gli artisti hanno bisogno di uscire da una dimensione rappresentativa e il Festival può essere l’occasione giusta per farlo date le sue caratteristiche. In alcuni casi per noi è stato importante invitare direttamente alcuni artisti a compiere una serie di incontri, in altri casi, quell’altro a cui il teatro guarda è la realtà nel suo senso più esplicito e politico.
Cosa ti auguri di aver portato di nuovo che possa proseguire nel futuro del Festival?
RS Il futuro del sistema teatrale generale mi sembra molto nero… stanno crollando molte cose e ci sono tantissimi problemi. Le fondamenta stesse stanno cedendo, ma ci sono delle situazioni che provano a crescere. Santarcangelo in questi ultimi anni ci ha provato. Siamo partiti dopo un triennio diretto da artisti. Un triennio in cui il Festival è stato “salvato” da tre compagnie storiche della regione che hanno messo al centro della programmazione la loro ricerca artistica. Nei tre anni successivi abbiamo provato a lavorare in maniera meno verticale e con un’idea di curatela molto aperta alle diversità, di cui c’è un disperato bisogno secondo noi. Dopo tre anni di lavoro, secondo me è chiara una cosa: per raccogliere dei frutti c’è bisogno di tempo e di relazioni che nascono anni prima. Questo è da tenere ben presente per il futuro. Come secondo aspetto direi la natura di questo Festival: un luogo dove la sperimentazione e gli incroci possano continuare a essere praticati. Un luogo di diversità, energie giovani, crescita. Altrimenti si normalizza con i tanti altri festival che già esistono. Il valore della diversità della storia di Santarcangelo è un cardine da preservare.
SB Mi sembrano importanti soprattutto due aspetti. Il primo è la dimensione internazionale: Santarcangelo è un Festival che mette in contatto una certa realtà internazionale con una località molto specifica. Qui la temperatura di quest’incontro è molto particolare ed è una responsabilità averne cura, per costruire un’internazionalità che non sia solo un cartellone con molte presenze straniere, ma un lavoro comune con persone e realtà che hanno altre provenienze. In secondo luogo la dimensione del rapporto tra gli artisti e la città: è facile creare sulla carta a priori delle condizioni per un progetto e poi con questioni minuscole, nella pratica, spegnere proprio i fuochi di quei progetti, mentre in questi anni credo che abbiamo saputo far nascere certi percorsi, far accadere certi incontri, alimentare certi incendi.
Intervista a cura di Margherita Gallo