intervista operaestate festival

Come si lavora a Operaestate: scouting, collaborazioni e progettualità europea

Da qualche anno la creatività emergente delle arti performative del Nord Est si è imposta all’attenzione dei palcoscenici nazionali e non solo, fino a richiamare all’interno di questo territorio anche artisti di altra provenienza, italiana e internazionale. Ma cos’è che spinge tanti giovani artisti della danza e del teatro a venire da queste parti per formarsi, per creare le proprie produzioni e mostrarle?
L’operatività di Operaestate Festival Veneto – che vede alla direzione Rosa Scapin con Carlo Mangolini, mentre Roberto Casarotto è responsabile del Progetto Danza Internazionale – negli ultimi anni si è distinta per energia e vitalità, andando a costituire un caso rappresentativo di sperimentazione e innovazione. La struttura, parte fin dalle origini della pubblica amministrazione, si occupa di aspetti che vanno ben oltre la tradizionale concezione del festival-vetrina e si esprime nei termini di un concetto di produzione allargato. Processi di scouting e percorsi formativi, sostegno alla ricerca e opportunità di mobilità, progettualità europea e interazione con soggetti privati sono alcune delle particolarità che distinguono oggi il lavoro di questa realtà ormai più che trentennale. Siamo andati a incontrarla per comprendere come si siano sviluppate alcune di queste peculiarità, che compongono in parte la base a partire da cui tanti giovani artisti della danza e del teatro veneti e non solo hanno affinato la propria ricerca.

Le Bolle Nardini – foto di Adriano Boscato

Un primo aspetto distintivo del lavoro di Operaestate si può rinvenire nel contesto di esperienze di collaborazione con realtà private, che vanno ben oltre il tradizionale concetto di “sponsorizzazione”.
Rosa Scapin: Premetto che “sponsorizzazione” è una parola che non vogliamo più sentire da almeno dieci anni, nel senso che non esiste una dimensione di questo tipo: tutti i sostegni offerti dalle aziende al Festival vengono concordati insieme, a seconda dei rapporti che si instaurano e delle esigenze che vengono espresse. Si tratta soprattutto di concessioni di spazi, di progetti di benessere culturale per i dipendenti e, in qualche caso, di relazioni strutturate nei termini della produzione di nuove opere.
L’esperienza esemplare, in questo contesto, è quella che ci lega alla Ditta Nardini, che fa capo a una famiglia con consistenti interessi per le arti e i linguaggi del contemporaneo. Nel 2002 L.i.s. ha creato Grappa alchemica – finora è l’unica esperienza di creazione in azienda, ma è un tema che emerge con i soggetti che abbiamo avvicinato in tempi recenti e che abbiamo intenzione di avvicinare: utilizzare gli spazi e i prodotti, le innovazioni e la vitalità dell’azienda per mettere in atto nuove creazioni che sappiano combinare entrambe le creatività, ossia quella espressa dagli artisti e quella espressa dall’azienda. È un tema all’ordine del giorno, molto interessante e stimolante: come si intersecano industria creativa e la creazione nelle arti performative? Ma è anche difficile da sviluppare: se una prospettiva simile si realizza, deve accadere perché serve sia a noi che all’artista che all’azienda, innescando un processo virtuoso che abbia una ricaduta importante per tutti.
Carlo Mangolini: Infatti l’esperienza di Grappa alchemica non a caso è stato unica finora: il tema dell’alchimia e della distillazione si è tradotto in uno sviluppo artistico a partire dal prodotto, per cui metteva in forte comunicazione i due piani. È rimasto a ora un’eccezione perché non è semplice che i piani si intersechino in modo tale che lo stimolo produttivo diventi poi anche funzionale – è fondamentale che ci sia questa coincidenza – alle politiche dell’azienda. Il che non è assolutamente facile.
R.S.: Poi, la collaborazione con la Ditta Nardini si è sviluppata con il Garage, che ci è stato offerto nel 2007 ed è stato inaugurato l’anno successivo, e con l’utilizzo delle Bolle per gli spettacoli di danza contemporanea.
Già in precedenza avevamo avviato progetti di formazione e residenza, utilizzando il Teatro Astra…
C.M.: Il primo progetto europeo è stato The Migrant Body nel 2006. Ma in realtà, ancora prima era emersa la necessità di utilizzare uno spazio che non fosse teatrale in senso convenzionale. Abbiamo cominciato a cercarlo fin da quando sono arrivato nel 2001, perché c’era la consapevolezza che uno spazio del genere avrebbe fatto la differenza.

Il lavoro di Operaestate da diversi anni si distingue, nel contesto del teatro e della danza emergenti, per percorsi di scouting e di sostegno che vanno ben al di là del tradizionale contributo produttivo e della presentazione di spettacoli all’interno dell’omonimo festival.
C.M.:
Per quanto riguarda il teatro, abbiamo fatto la scelta di concentrarci molto – anche se non solo – sulle realtà territoriali. Lo stimolo è venuto sicuramente dal Premio Scenario – un’esperienza fondante e fondamentale –, la cui operatività si articola in diverse commissioni zonali, costruite per mappare il nuovo sul territorio: ci ha permesso di avvicinare giovani artisti locali, non soltanto quelli che poi sono arrivati alle fasi finali e hanno dunque maturato e strutturato un percorso insieme al Premio, ma anche altre progettualità, cui abbiamo potuto offrire la possibilità di sperimentare fino in fondo la propria ricerca, con tutti i rischi che può comportare.
Alcune di queste realtà non sono state solo capaci di imporsi all’interno del Premio e oltre, ma hanno rappresentato esperienze fondanti per cambiamenti di approccio da parte del Festival: certo noi abbiamo offerto un sostegno, un aiuto, una possibilità in più alle compagnie; ma di contro, la loro presenza ha donato al Festival una riconoscibilità diversa.
Di solito individuiamo forme di sostegno, anche produttivo, differenti, che si traducono poi anche in esiti diversi: di base un contributo e la possibilità di residenza negli spazi del CSC Garage Nardini, ma, ad esempio – per citare due casi particolarmente significativi – per Anagoor il Festival è stato una palestra in cui il gruppo ha affinato e sperimentato una propria cifra, mentre con Babilonia Teatri è stato concordato un percorso di sostegno pluriennale che ha potuto garantire una sorta di continuità.
Ora stiamo valutando un passo successivo, anche in base a quello che ci viene richiesto dalle compagnie: stiamo studiando e verificando le modalità possibili per consentire e facilitare la circuitazione a livello nazionale e internazionale. Nel 2012 è stato attivato il progetto Transarte: assieme a Short Theatre di Roma, il festival di Terni e Contemporanea di Prato abbiamo ospitato alcune compagnie francesi; stiamo lavorando con Olanda e Francia. L’obiettivo a lungo termine è quello di creare flussi bilaterali che diano la possibilità ad alcune compagnie di essere presenti in situazioni internazionali.

Avete, negli anni, individuato delle realtà partner con cui si siano sviluppate affinità o collaborazioni?
C.M.: Con il Teatro Fondamenta Nuove di Venezia, in passato, si è messa a punto una formula di residenzialità: le compagnie facevano un proprio spettacolo e poi trascorrevano un certo tempo in residenza a Venezia, presentando infine uno studio per un nuovo lavoro, che poi avrebbe debuttato al Festival l’estate successiva. Laddove questa modalità così definita – a causa di tagli consistenti subiti dal Teatro – non è più stata possibile, ci sono in ogni caso ragionamenti su alcuni gruppi che ci piacerebbe continuare a sviluppare insieme: il confronto con Enrico Bettinello (il direttore, ndr) è sempre presente e la collaborazione procede nelle forme e nelle modalità possibili.
Sempre per quanto riguarda il versante teatrale, da diversi anni collaboriamo stabilmente con Centrale Fies di Dro, una struttura che ha sviluppato una vocazione produttiva forte e specifica. Un aspetto che va sempre ribadito è che Operaestate – nonostante tutte le specificità che ci siamo guadagnati sul campo – è un ufficio comunale, non è e non potrà mai essere un centro di produzione. In questo senso, la presenza di una struttura come Fies, con una vocazione produttiva e con cui condividiamo diverse affinità, ha aiutato molto.

Act your age

Altra dimensione in cui si concretizzano esperienze di collaborazione consiste nell’ampia progettualità di carattere europeo che negli ultimi anni segna il lavoro di Operaestate, che in questo senso ha sviluppato un’operatività piuttosto eccezionale soprattutto per quanto riguarda la danza.
Roberto Casarotto:
Un elemento per me rilevante è l’attenzione da parte del Festival, oltre che per il contemporaneo, anche per il territorio: una componente fondamentale è stata quella di basarsi su delle necessità vive e realistiche, corrispondenti alle voci che ci arrivavano da situazioni precise.
Altro aspetto distintivo per la danza, fin dal primo progetto, è stato quello di lavorare in una dimensione internazionale: tutte le azioni che si sono promosse e create, hanno visto protagonisti artisti italiani sempre in dialogo con realtà o progettualità almeno europee. Fin da The Migrant Body abbiamo cercato di metterci in linea con le modalità di lavoro europee e, per farlo, abbiamo messo in rete le opportunità, le esperienze e le conoscenze, dialogando con realtà che avessero storie diverse dalla nostra e identificando insieme tematiche che ci stavano a cuore. La più rilevante – tanto nella dimensione italiana che in quella internazionale delle realtà con cui eravamo entrati in contatto – era quella di creare degli spazi, dei tempi, dei luoghi, delle risorse da dedicare alla ricerca, perché crediamo che quello possa essere il punto di partenza da cui attivare la crescita artistica.
Accanto alla ricerca siamo riusciti, con i mezzi che siamo stati in grado di trovare, a dare un sostegno alla creazione che, nel caso di Operaestate, non va oltre la messa a disposizione di residenze e di opportunità di rappresentazione per gli spettacoli: a oggi non abbiamo un fondo dedicato alla coproduzione. Tuttavia, parte della mobilità si è concentrata sulla promozione all’estero di lavori creati da artisti italiani, che poi, attraverso network come Aerowaves, hanno avuto possibilità di crescita: tutto questo ha portato anche a disseminare per l’Europa una serie di lavori di cui magari non siamo stati coproduttori in senso stretto, ma cui abbiamo partecipato cercando delle opportunità.

I contesti e gli obiettivi si sono riplasmati negli anni?
R.C.: Evolvono. Perché credo che le progettualità tengano molto conto di come cambia la realtà in cui operano. Per esempio, nel 2011 abbiamo avuto Choreoroam, progetto europeo che si incentra sulla ricerca coreografica e il dialogo interculturale; nel 2012 sono arrivati Spazio e Act your age: il primo è un progetto che investiga la danza contemporanea in dialogo con le altre arti – per esempio con le nuove tecnologie sviluppate nell’ambito delle arti visive –, mentre Act your age, per me, in questo momento è il progetto più interessante per quello che è la sua rivoluzionaria idea di partecipazione: è rivolto sia a coreografi e danzatori, sia alle comunità delle varie città dei partner, articolandosi in una serie di attività che coinvolgono la partecipazione attiva degli abitanti, impegnati a investigare cosa significa invecchiare nell’ambito delle arti performative. È stato molto interessante vedere come si siano coinvolte le comunità locali delle città in cui finora è stato proposto – Bassano, Maastricht e Lemesos a Cipro – e credo che non si sia mai misurato un impatto del genere rispetto a forme di ricerca legate a questa tematica: immediatamente ci ha ispirato una serie di riflessioni sulle relazioni fra danza e medicina, in cui non si tratta assolutamente di danza-terapia, ma di arte come modalità di studio del proprio possibile impatto in campo medico e scientifico; ha ispirato considerazioni sulla messinscena e la scelta dei luoghi, in particolare su cosa significhi oggi cercare di raggiungere comunità che generalmente non si avvicinano ai prodotti teatrali convenzionalmente proposti. Tutto questo conduce a vedere la danza quasi come una via per creare progetti che abbiano impatti sociali e politici, quindi a sviluppare politiche culturali che veicolino altre finalità e possiedano altre nature di impatto. E questo ci piace molto.

La progettualità è influenzata dunque dalle condizioni di mutamento della società e del settore; e invece per quanto riguarda le sue ricadute dirette e indirette sulla creatività del territorio?
R.C.: Credo che, in questo momento, sia un aspetto di difficile misurazione. Sicuramente sono emersi dei giovani artisti a livello nazionale e internazionale, che hanno sviluppato le proprie idee e i propri network e sono mentalmente propensi a creare un nuovo concetto di produzione artistica. Molti dei giovani che hanno iniziato con noi, ora concepiscono la loro come una identità europea; spesso sono coinvolti in coproduzioni internazionali… Tutto questo, in un ambito temporale di quattro anni, per me è un risultato abbastanza eccezionale. Quindi c’è indubbiamente un discorso misurabile in termini di quantità di lavori prodotti e di produzioni attivate attraverso questa realtà e l’estero; però c’è anche un aspetto del lavoro che fino a ora non è misurabile in termini quantitativi, ma è legato a una dimensione qualitativa, quella della crescita del pubblico: tramite la modalità della residenza – nel 2012 ne sono state attivate 24, 12 con artisti italiani e altrettante per gli internazionali – presentiamo ogni volta al pubblico i work in progress che vengono realizzati al CSC; c’è un numero sempre in crescita di spettatori, il tempo dedicato alla conversazione che segue il lavoro spesso è più lungo di quello impegnato per la presentazione; è possibile percepire come cresca la modalità con cui il pubblico guarda allo spettacolo. Entrando nella storia degli artisti, entrando nelle diverse modalità di creazione, confrontandosi con linguaggi che vengono da tutto il mondo, il nostro pubblico piano piano si abitua a costruire una propria modalità di accesso a una forma che spesso viene vista come particolarmente comunicativa rispetto a quelle più tradizionali o convenzionali.