Siamo Figli ‘i Famigghia

foto di Angelo Maggio

Fondamento della propria esistenza, la famiglia diventa il nido dentro cui si cresce, si matura, con il naturale sviluppo e la costruzione di una nuova cellula vitale. Non sempre però questo accade: dentro quel nucleo a volte il tempo della storia scorre in maniera inversa a quello della propria vita. Succede che non si cresce, si rimane confinati nel proprio ruolo di figli e non si assumono quelle responsabilità che fanno diventare i bambini di una volta gli adulti di oggi.
Roberto Bonaventura, insieme al Teatro di Messina, mette in scena in maniera precisa e puntuale il testo di Dario Tomasello che parte proprio da una generazione rimasta bambina. In Patri ‘i famigghia tre cugini, Angelica, Rino e Nando, si ritrovano dopo molti anni in occasione del funerale del padre di quest’ultimo. Trasferitosi ormai al nord, Nando – interpretato da Angelo Campolo nei panni di un cinico milanese, è freddo e distaccato rispetto agli altri due rimasti a Messina; e questo suo distacco si nota immediatamente nel dialetto che non sente più come la propria lingua. Se i compagni Rino, un bravissimo Annibale Pavone, e Angelica, una impeccabile Adele Tirante, si esprimono in siculo, Nando sembra non riconoscere addirittura quelle radici meridionali da cui proviene. Solo rivivendo con i suoi compagni i ricordi di un’infanzia smarrita e divertita colui che aveva lasciato il proprio paese inizia a ritrovarsi e recuperare la propria lingua madre. Aprendo il baule di legno sul palco e giocando con le ombre ludiche del passato, i tre adulti si dimostrano non essere mai cresciuti: nessuno è capace di essere padre; solo Angelica guarda al domani, ma il suo sembra più che altro un tentativo di rivalsa su quegli uomini confinati in un’infanzia lontana. In una scenografia volutamente infantile, fatta di piccole sedie da bambini e un fondale disegnato, i protagonisti eseguono movimenti precisi e spazialmente ben definiti.

foto di Angelo Maggio

Tomasello scrive un testo semplice e leggero, continuando la tradizione di Scimone Sframeli, altri due autori e registi siciliani che ricreano atmosfere “sospese” per i propri lavori. Ma diversamente da questo duo non c’è in Patri i’famigghia il finale graffiante che lascia riflettere a posteriori su quello che è stato uno spettacolo sì piacevole, ma da uno sviluppo forse troppo in sordina e poco incisivo rispetto alle premesse. Il plauso alla piacevole pièce va comunque ricordato: con una recitazione a metà tra il surreale e reale, in un’atmosfera divertita e a tratti fortemente straniante, Bonaventura consegna una regia intelligente, aiutato anche dalla buonissima interpretazione dei suoi attori. Un tema, quello affrontato, che mostra come davanti alla morte si sia costretti a fare un consunto della propria vita: a volte solo di fronte alla Signora in nero si cresce. E sono gli stessi personaggi ad accorgersi: «non avemu patri, non semu patri! Sulu figghi sapemu esseri».

 

Visto a Primavera dei Teatri, Castrovillari

Carlotta Tringali

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