recensioni primavera dei teatri

A Primavera dei Teatri: tra dialettica collettiva, Perrotta e Latini

Roberto Latini - foto di Angelo Maggio

Roberto Latini – foto di Angelo Maggio

C’è crisi, e necessità di rifondarsi. Di fare tabula rasa ricostruendo dal niente. Conservare purezza e pratiche sane; acidificare impurità. Il teatro, dunque, quale strumento di proselitismo. Per coscienze svuotate. Per spolverare un senso critico sotto sabbia. Una riflessione indotta, semplicemente incoraggiata, suggerita o accennata almeno. Se non è atto politico, non è detto non debba avere dignità o ragione d’essere l’esecuzione teatrale. Ma, il contesto attuale, storico, sociale, obbliga a delle prese di posizioni serrate, ferme, necessariamente osmotiche. E se le rivoluzioni nascono individualmente, una moltitudine di singoli, concentrati contemporaneamente sulla stessa rappresentazione (fenomeno), formano e amplificano una comprensione comune, potenzialmente esecutiva.

Nelle rassegne e nei festival, la materia vivida di fruizione asseconda lo scambio, la parola, il dibattito. Non solo tra spettatori ansiosi di commenti a fine scena o turisti in vacanza… Dialettica collettiva, invece, che semina o potrebbe seminare, per futuri raccolti. E cambi direzionali.

A Castrovillari, il festival di Primavera, è un evento speciale. Prima di tutto perché si percepisce la tensione (di volontà) nell’attuare un discorso sul teatro ché non sia esclusivamente panem et circernses. Poi, perché possibile in una terra impossibile. Perché una strana alchimia scandisce i giorni. Un’inconsueta unione empatica. Magari così in maschera da risultare verosimile (il teatro che si estende oltre se stesso); probabilmente ruffiana; sicuramente non disinteressata. Ma c’è. Un bene comune.
Succede a Castrovillari, che dopo 3 giorni di festival sembra siano passate settimane. Succede che una cittadina di provincia si emancipi e diventi un borgo europeo. Che un gruppo di studenti universitari alimentino la passione nel volere cibarsi di fatti teatrali ascoltando in un bistrot le parole di un critico, Giulio Baffi, la cui vita è scorsa tra palco e realtà. Succede che nelle segrete del Castello Aragonese, prigioni fino a vent’anni dopo l’Unità d’Italia, un musicista, Gianfranco De Franco (esecutore e compositore delle musiche di Dissonorata e La Borto), materializzi le percezioni degli uditori e li porti a compiere viaggi sensoriali. E l’umido dei sotterranei sembra diffondere tanfo di carni putride e angosciosi respiri.

Perrotta - foto di Angelo Maggio

Perrotta – foto di Angelo Maggio

Giovedì, terzo giorno di festival, giorno di prime. Mario Perrotta con Un bès. Antonio Ligabue in prima serata al teatro Sybaris e Roberto Latini in seconda nella Sala 14 con Noosfera Museum.
Il dualismo dell’artista-uomo nel lavoro inedito di Perrotta, di chi sa di “meritare un bacio, da artista, e elemosinarlo da pazzo”. Un’indagine in terra di confine (umana e cerebrale), in cosa è dentro e fuori; riflessione approfondita sulla libertà d’agire per proprio dettame e i condizionamenti di etichette altrui.
Perrotta arriva sul palco dalla platea, mendicando affetto, comprensione, gesti d’umanità. Il suo sguardo assente, stralunato, svela il timore (probabilmente) della prova davanti un pubblico “attento”. Davanti a un teatro gremito e una trentina di spettatori concentrati più sull’attesa della sbavatura, della stonatura, anziché mettere occhi e sensi sulla scena liberandosi da sovrastrutture di ruolo e mestiere…
Trapela l’emotività che non è solo del personaggio. Quella è calcata in maniera naturalistica, e tramite il linguaggio teatrale, metaforico, intuitivo, percepibile, s’incarna e si fa veicolo tra il pubblico al buio. Una dialettica ricercata, sperimentata a commistioni di poetiche inconsuete, codificate ma originali. Tre pannelli a grate, dei finestroni ingabbiati, come unico elemento scenografico che diventano, nel retro, lavagne cartacee in cui Perrotta tratteggia a carboncino. E rappresenta paesaggi (ambientazioni), personaggi, visioni d’una mente diversamente abile. Ricerca e sperimentazione. Padronanza attoriale e fisicità versatile a prodursi in elemento scenico. Assenza di sintesi e verticalismo pronunciato. Consuetudine dei lavori scritti e interpretati, la regia è postuma alle esigenze di attori e costruzione di scene. Che nel troncone finale dello spettacolo, assumono forme più familiari di narrazione e dialoghi con doppi indivisibili. Un leggero riverbero di caratterizzazione eguale a se stesso macchia leggermente la prova: l’incertezza della prima, il timore precedentemente accennato. Un moderno innestato a trame consolidate, emerso con la spettacolarizzazione del prodotto visivo. Il palco diventa camera oscura, in alcune scene, dove sono proiettate, a luce fantasmagorica, paesaggi, disegni, volti. Fantasmagorie, come attorno a uno scemo del villaggio. Artista. Bandito e ammirato. In eterno conflitto tra il fuori e il dentro. Ma senza maschere d’ordinanza. Se ne evince non un’attenzione epica su un accaduto, una biografia, nemmeno un tentativo catartico nell’osservare qualcosa per cui provare pietà e espiare. Piuttosto uno specchiarsi riaffiorando in superficie, da noi, da dentro, quella parte di follia stipata accuratamente sottovuoto.

Roberto Latini - foto di Angelo Maggio

Roberto Latini – foto di Angelo Maggio

Latini è un poeta del gesto. Scevro dal lirismo. Padrone in scena, del suo corpo e della sua voce. Padrone non egoista né autoreferenziale. Ma pasto per pubblico e oggetto di voyeurismo impalpabile. Di trasmissioni non immediate. Su cui tornare, con la riflessione, da diverse angolazioni di vista, di analisi. Il teatro che apre la mente. Di un linguaggio non intellegibile, diretto o esplicativo. Metaforico, ermetico, simbolico, immaginifico. Dopo Noosfera Lucignolo e Noosfera Titanic, il terzo movimento del progetto, Noosfera Museum, si propone suggerimento della semantica testuale, come esposizione di mutazioni fisiche e essenziali effetto del «disagio dell’attesa di un futuro che si è dimesso dalla nostre aspirazioni». Voci da rifugi, da corazze (o prigioni) di solitudini. In uno spazio (d’azione scenica) ipertecnologico e naturale (luci, effetti sonori, fumo artificiale, alberi e terra, sangue, vino), Latini incarna la gelatina umana ammassata come in una fossa comune di anonimati, di dispersione. Ambendo al calco della bellezza tenuta in serbo «dalla platea che l’ha custodita». Cinquanta minuti di mutismi materializzati visivamente; l’intromissione della parola sgranata dagli amplificatori (in fuori campo) poi modulata dalle corde vocali dell’attore. Senza troppo cenno d’impostazione, cruda, dal profondo, precisa e scandita, confidenziale. Museum, esposizione di corpi e interiorità in gabbia e in processione sistematica. Contrapposizione a sintassi dogmatizzata. Urgenza sensibile tradotta in linguaggi altri, liberi. Liberi dal confezionamento per cerimonie, liberi dagli unici sguardi possibili, da prospettive banali. Liberi come dovremmo essere dalla standardizzazione di ambizioni, volontà, atteggiamenti. Per partiture prese a sacrificio attoriale dell’espressione accurata. Per tensione teatrale tenuta chirurgicamente a ritmo costante e un talento, cibo per uditori non ipocriti.

Visto a Primavera dei Teatri, Castrovillari 

Emilio Nigro

 

Al via Primavera dei Teatri: tra Malosti e Maniaci d’Amore

Dalla XIV edizione del Festival Primavera dei Teatri, il nostro corrispondente Emilio Nigro ci manderà alcune pagine di diario, raccontandoci l’atmosfera che distingue il festival calabro diretto da Scena Verticale e alcuni spettacoli che lo animano.

Al via Primavera: tra Malosti e Maniaci d’Amore

castrovillariDopo del tempo al chiuso – una lunga stagione rigida piovosa e scura – riprendere la strada comporta una sorpresa continua. Come vedere per la prima volta le cose del mondo. Con lo stupore di un bambino curioso di tutto e cosciente di nulla. Le percezioni si dilatano, i sensi s’affinano; gesti, voci, volti, s’amplificano. Impressioni continue. Un groppo di ginestre su un colle sembra un’immagine dipinta. Un quartiere, medievale, che dice di dominazioni aragonesi, fatto e rifatto per giorni, mesi, anni, svela un dettaglio inedito, uno scorcio stucchevole, un dinamismo esotico. Un baretto d’un vicolo malandrino, sgrauso, con brutti cerri e l’atmosfera truce, assume contorni affascinanti. Suggestivi. Delle suggestioni che si avvertono nelle periferie criminali. Lo strano fascino del pericolo…

Bentornata Primavera. La fioritura è di stagione. L’habitat quello di sempre. A cui però non ci si abitua mai. E se ne ha sete e fame, quando tarda. Qui, in terra di Calabria, in una zona conservatasi testimonianza borbonica, tra le più intatte antropologicamente. Tra il Pollino e l’urbanizzazione del grosso centro di provincia, costumanze salvaguardate e innesti sociali digeriti appena. Dove sorrisi e maschere d’ordinanza, di convenzione, si acutizzano a un tale livello di finzione da sembrare sinceri. Dove si è poveri economicamente e culturalmente, arretrati e pieni di contraddizioni, ma ricchi d’integrità intellettiva e morale, di spirito, di senso, d’umanità. Quella ricchezza che il teatro dovrebbe diffondere, nelle varie trame in cui si dipana. Arrivando in sordina o di prepotenza, per metafora o realismo estremo. Una via di comunicazione ambigua, non necessariamente immediata, chiara, intellegibile. In ogni caso viva, senza possibilità di correzione subitanea, senza possibilità di replay. Un’azione collettiva. Che può diventare corale livellando comprensione e messaggio, ascolto e eseguito, gesto e visualizzato. Un gioco reciproco. Uno scambio diseguale ma uniforme. Incubatrice di emozioni.

foto di Angelo Maggio

foto di Angelo Maggio

Dovrebbe essere emozionante il teatro che vale. Al di là delle classificazioni o nomenclature di genere, tecnica, critica e resoconti di significato. E spiegare perché uno spettacolo lo è e un altro no. Facile a dirsi…
Emozionante lo è stato Lo stupro di Lucrezia di Valter Malosti. Shakespeare. La parola che incanta. L’incisività del verso che descrive moti, situazioni, congetture, a rimando, per metafora o allegoria, inarrivabile. E stupisce – dello stupore di un bimbo curioso di tutto e cosciente di nulla – da creare ipnosi.
Peccato che gli attori non sono stati sempre all’altezza, durante l’ora e mezza di spettacolo, di dare giusta grazia a questa dialettica celeste. Comprensibile, tuttavia, considerando la mole di lavoro fisico a cui sono sottoposti. Per vivificare lo stupro della moglie di Collatino, Lucrezia, l’allettante, la casta, la fedele. Una violenza di cui i due coniugi sono colpevoli, l’uno per aver fatto venire l’acquolina in bocca all’erotomane confidando virtù e virtuosismi dell’amata, l’altra rea di bellezza tentatrice. Giustificazioni per la superbia di Tarquinio carnefice e simbolo della cecità effetto della libidine, della presunzione indotta dal potere, dell’animalità dell’essere governati dall’istinto. Emblema primordiale, emblema del potere (il popolo romano insorge contro la monarchia portando il vessillo del suicidio di Lucrezia). E Lucrezia è vittima predestinata, ciò che in fenomenologia è indicato come movente, e nelle disquisizioni filosofiche astratte come episodio necessario al compimento del fato. Però Lucrezia è una donna. Una donna stuprata. Il palco diventa megafono del dolore. Dell’onore perduto. Della devastazione fisica e mentale. Malosti lo trasforma in un vuoto d’anima, con un parterre di luci a trasmettere (sensibilmente) un groviglio di angoscia e orrore, un duello di corpi nudi (padrone e sottoposto) sequenziale e crudo – l’asessualità, la mancanza di percezioni sensuali all’assistere a nudità sottoposte a violenza – un’estetica carica di semiotica audiovisiva e innesto di feticci contemporanei. Con il risultato, però, di non avere convinto il pubblico, poco soddisfatto da qualcosa ritenuta (ormai) di repertorio, di consumo, di codificabile e catalogabile. L’alterità del frigo, le postazioni microfonate, l’amplesso esplicito. Teatro moderno sintetizza un evolversi di tecniche o una ricerca raffinata nell’indagine della realtà, delle fonti, dell’eredità drammaturgica e teatrale?

foto di Angelo Maggio

foto di Angelo Maggio

Fertile e prorompente l’impronta registica allo spettacolo: fedeltà al verbo Scespiriano e costruzione sulle meccaniche attoriali, sul rappresentare altro da ciò che si vede e l’occhio legge a primo assorbimento, sul disegno visivo d’arte, sull’impostazione vocale adottata per il narratore. Umorale la prova d’attore, flebili nell’ attacco – probabilmente destabilizzati dall’ “ansia da prestazione” – più padroni nella seconda parte, con un punto a favore di Alice Spisa, sottotono Jacopo Squizzato, immaturo. Complessivamente, il suffragio del pubblico, è discorde. Per il rigore di movimenti troppo precisi, per un calo di climax delle scene successive all’amplesso violento, per un ipnotismo testuale distratto da inefficaci trasposti vocali; Per un disegno scenografico da cornice, poco sfruttato nella speculazione totale dello spazio; Spettacolo emozionante, avvertito, sudato, ma ancora distante, plastico.

Di diversa pasta lo spettacolo in seconda serata. Nella location inedita del Castello Aragonese. Il primo, si è visto al Teatro Sibarys.

foto di Angelo Maggio

foto di Angelo Maggio

Fresca la sera incorniciata dallo scenario naturale del Castello. Muri e facciate lasciate all’identità austera del passaggio del tempo. Fresca l’esecuzione sul palco de Il nostro amore schifo del duo Maniaci d’Amore (Francesco D’amore, Luciana Maniàci). Meridionali approdati al teatro da strade di formazione altre (Scuola Holde – Torino) per cui evidente il tratto letterario nella partitura drammaturgica e l’intenzione scenica di veicolare il testo, la trovata prosaica, il gioco di parole. Perfetta dizione lui, naturalistica lei, con l’inflessione messinese e l’apertura vocale negli innumerevoli “per sempre” reiterati a totem di caratterizzazione. I “per sempre” di quell’amore pensato prima che vissuto. Adolescenziale. Intollerante nei confronti del qui e ora universale, matrice del lineare funzionamento delle manifestazioni vitali. Cliché di coppia, non stagionata per “verginità” anagrafica, ma mossa da normative di codificazione comune, dogmatica. Come s’avesse un libretto d’istruzioni per movimenti di sentimento. E fuori dai resoconti concettuali, il lavoro dei due – un frutto verde con pezzetti di rossa maturità – convince per la frizzantezza dell’approccio e della dimestichezza con le pratiche di messa in scena. Per la padronanza nell’intervenire chirurgicamente con la sicurezza del professionista, nonostante la poca esperienza. E le strutture troppo in vista (quelle di pianificazione, le idee adottate nella costruzione, gli ingranaggi dialogici) come in un cantiere con uno scheletro d’edificio, il lavoro attoriale ingenuo e semplicistico, l’autenticità spinta all’eccesso, sono piccoli nei su pelle candida, setosa. Stupore per i coup de theatre (ripetuti) nel finale. Intelligenti, di uno spettacolo intelligente.

Dal Festival Primavera dei Teatri, Castrovillari

Emilio Nigro

 

 

Quel che resta dei Grimm secondo RicciForte

Foto di Angelo Maggio

C’era una volta… BANG! Ora non c’è più.
Ricci/Forte
sbarcano a Primavera dei Teatri con Grimmless, uno straordinario tentativo di rileggere i fratelli Grimm e applicarli alla vita reale. Non esistono più principi e principesse. La disperata ricerca del mondo delle favole si trasforma in un blob vitale che ingloba nel suo crudo scorrere un piccolo frammento di storia, a volte anche solo un c’era una volta.
Ci siamo dimenticati che la maggior parte delle novelle scritte dai fratelli Grimm sono delle vere e proprie storie dell’orrore. È solo rileggendole da adulti che da quelle fiabe emergono i risvolti più inquietanti e scabrosi; quasi che la violenza, celata da morbide parole e lieti fini, non sia mai esistita. Eppure sono lì, sotto i nostri occhi: abbandoni, omicidi e cannibalismo mascherati da storielle, perché tanto “tutto finisce bene…”. E se a quelle storie, che conosciamo a menadito, togliessimo il finale? Un lupo ha assalito un’anziana ed è stato freddato sul colpo appena prima che sbranasse la nipotina, una giovane donna è rimasta in coma dopo aver morso una mela, due fratellini sono stati rinchiusi e seviziati da una donna… Sono storie di tutti i giorni. L’energia vitale del lavoro, risiede tutta nelle parole: se la violenza degli spettacoli precedenti si esprimeva in azioni e immagini, quella presente in Grimmless è fredda e tagliente del verbo espresso con la lucidità di un omicidio a sangue freddo.
Quella che raccontano ricci/forte non è una vita da favola, piuttosto è la vita coniugata come se fosse una favola. L’impianto drammaturgico mescola estratti delle fiabe più conosciute con leggende e miti d’oggi. Ecco che Facebook diventa il libro degli incantesimi, per predire e leggere nel pensiero. «Ti ho taggato in una foto all’inizio del sentiero, ti ho taggato mentre corri verso gli alberi a occhi chiusi» così inizia Cappuccetto Rosso; «Perché hai chiuso la chat? Per guardarti meglio». «C’era una volta un Paese a forma di scarpa, ora non c’è più».

foto di Angelo Maggio

Prende un risvolto inaspettatamente politico l’ultimo lavoro del duo romano: sarà che ultimamente la politica di favole ne racconta parecchie e forse la quotidianità è intrisa e imprescindibile da essa. Il collegamento  diretto, non del tutto scontato, calza a pennello: un’invasione di rimandi cromatici e testuali espliciti riporta la storia dall’aldilà e ricolloca immediatamente i fatti in scena. Più volte è stata resa nota questa caratteristica dei brani, scritti in questo caso da Gianni Forte, un’universalità che parte da un individualismo marcato e personalissimo: si tratta per lo più di monologhi, vite che si incrociano, personaggi extra-ordinari lontanissimi dai quelli che crediamo essere i nostri orizzonti.  Ma un instante dopo arriva puntuale, trovando l’ago nel pagliaio, esattamente quel riferimento, quell’emozione descritta proprio come solo tu pensavi d’averla provata. Ed ecco che lo spettatore soffre con quel corpo che si dilania in scena. Accade e basta.
Oppure non accade, ed è giusto renderne conto, questo è uno di quei casi in cui il teatro divide il pubblico. A Castrovillari – ma forse non solo qui – gli spettatori si sono divisi nettamente e fuori dalla sala, finalmente, si è animato il dibattito. Violenza gratuita, nudo in scena, assenza di senso le tematiche più discusse. Ovviamente non vi è torto o ragione, teniamo solamente a sottolineare quanto questa sia la vera natura del teatro: aprire al dialogo, allo scontro, al confronto. L’irriverente messinscena, lo spregiudicato uso del corpo e della parola sono sicuramente indispensabili grimaldelli nello scatenare reazioni, tanto da aprire la bocca – e perché no, la mente – del pubblico.
Rispetto a lavori precedenti come Troia’s Discount e Macadamia Nut Brittle che hanno portato ricci/forte alla ribalta, Grimmless risulta – nonostante tutto – meno forte e incisivo. L’atto sessuale è quasi sfiorato ma non si impossessa della scena, il nudo arriva solo in chiusura e in una forma delicata, puramente estetica, quasi superflua. Si potrebbe addirittura azzardare ad una voluta e intelligente astinenza dalla irruenza consueta (per coloro che conoscono il percorso del gruppo ovviamente), un freno auto-imposto atto all’apertura ad un pubblico ancora più largo, meno elitario e più comune – con tutto ciò che c’è di positivo nel termine.
L’energia propulsiva di questo lavoro – e più in generale della poetica iperbolica del duo – lascia il segno in un festival che da sempre è votato ai nuovi linguaggi e che lavora da anni per aprire nuovi orizzonti al panorama teatrale calabrese.

Visto a Primavera dei Teatri, Castrovillari

Camilla Toso

 

Siamo Figli ‘i Famigghia

foto di Angelo Maggio

Fondamento della propria esistenza, la famiglia diventa il nido dentro cui si cresce, si matura, con il naturale sviluppo e la costruzione di una nuova cellula vitale. Non sempre però questo accade: dentro quel nucleo a volte il tempo della storia scorre in maniera inversa a quello della propria vita. Succede che non si cresce, si rimane confinati nel proprio ruolo di figli e non si assumono quelle responsabilità che fanno diventare i bambini di una volta gli adulti di oggi.
Roberto Bonaventura, insieme al Teatro di Messina, mette in scena in maniera precisa e puntuale il testo di Dario Tomasello che parte proprio da una generazione rimasta bambina. In Patri ‘i famigghia tre cugini, Angelica, Rino e Nando, si ritrovano dopo molti anni in occasione del funerale del padre di quest’ultimo. Trasferitosi ormai al nord, Nando – interpretato da Angelo Campolo nei panni di un cinico milanese, è freddo e distaccato rispetto agli altri due rimasti a Messina; e questo suo distacco si nota immediatamente nel dialetto che non sente più come la propria lingua. Se i compagni Rino, un bravissimo Annibale Pavone, e Angelica, una impeccabile Adele Tirante, si esprimono in siculo, Nando sembra non riconoscere addirittura quelle radici meridionali da cui proviene. Solo rivivendo con i suoi compagni i ricordi di un’infanzia smarrita e divertita colui che aveva lasciato il proprio paese inizia a ritrovarsi e recuperare la propria lingua madre. Aprendo il baule di legno sul palco e giocando con le ombre ludiche del passato, i tre adulti si dimostrano non essere mai cresciuti: nessuno è capace di essere padre; solo Angelica guarda al domani, ma il suo sembra più che altro un tentativo di rivalsa su quegli uomini confinati in un’infanzia lontana. In una scenografia volutamente infantile, fatta di piccole sedie da bambini e un fondale disegnato, i protagonisti eseguono movimenti precisi e spazialmente ben definiti.

foto di Angelo Maggio

Tomasello scrive un testo semplice e leggero, continuando la tradizione di Scimone Sframeli, altri due autori e registi siciliani che ricreano atmosfere “sospese” per i propri lavori. Ma diversamente da questo duo non c’è in Patri i’famigghia il finale graffiante che lascia riflettere a posteriori su quello che è stato uno spettacolo sì piacevole, ma da uno sviluppo forse troppo in sordina e poco incisivo rispetto alle premesse. Il plauso alla piacevole pièce va comunque ricordato: con una recitazione a metà tra il surreale e reale, in un’atmosfera divertita e a tratti fortemente straniante, Bonaventura consegna una regia intelligente, aiutato anche dalla buonissima interpretazione dei suoi attori. Un tema, quello affrontato, che mostra come davanti alla morte si sia costretti a fare un consunto della propria vita: a volte solo di fronte alla Signora in nero si cresce. E sono gli stessi personaggi ad accorgersi: «non avemu patri, non semu patri! Sulu figghi sapemu esseri».

 

Visto a Primavera dei Teatri, Castrovillari

Carlotta Tringali

Geremia Cervello: il crack-machine italiano

Come gira l’economia mondiale? Ciò che riguarda il mondo della finanza genera spesso, nei non addetti, una sorta di repulsione che se da un lato mitizza il denaro allo stesso tempo lo priva di valore. All’interno di questo territorio esiste un tipo di moneta chiamata “virtuale” della quale se ne rispetta la portata inventiva, l’idea che si possa ragionare e smerciare mediante una risorsa immateriale ma della quale non è possibile tracciare i limiti. Il mercato è diventato uno scambio monetario che ha travalicato la legalità; puzza di marcio e sta sempre molto attento a non svelare la sua piaga, una profonda e intrinseca corruzione.

foto di Angelo Maggio

La Compagnia MusellaMazzarelli catapulta la problematica in teatro con Crack Machine. Il denaro non esiste, un spettacolo che ha debuttato a Primavera dei Teatri e che prende spunto dalla vicenda che, nel 2007, ha visto Jerome Kerviel, un ex trader della Societé Générale, accusato di essere l’unico responsabile di un buco di 5 miliardi di euro. Paolo Mazzarelli interpreta il protagonista dello scandalo che, in Crack Machine, è chiamato Geremia Cervello. Geremia era bravo nel suo lavoro; i rendimenti di depositi e gli investimenti finanziari dei clienti erano aumentati così tanto che era soprannominato “cash-machine” fino al giorno in cui divenne “crack-machine”. Nella divisione di quattro personaggi per due attori, la corruzione di questo mondo porta il nome di Alberto La Parola, avvocato che minaccia Cervello al fine di scagionare la Banca; e di Italo Capone, guardia carceraria che esercita il suo potere su Eros – il detenuto responsabile del laboratorio di falegnameria, interpretato da Lino Musella – per sottometterlo a sé.

foto di Angelo Maggio

Dal notiziario radiofonico che apre lo spettacolo e informa della fuga di Geremia Cervello dal carcere, la drammaturgia di Musella e Mazzarelli, autori, attori e registi, fa uso del flashback per circoscrivere la vicenda. All’interno del penitenziario l’elegante trader, di nero vestito e dal linguaggio sopito, incontra Eros, uomo semplice che si esprime in dialetto napoletano. Il confronto tra i due detenuti si fonda sulla differenza dei capi d’accusa, sulla gravità dei crimini commessi; due realtà ben distinte che si incontrano e dalle quali emerge che «il peggior criminale è il capo della mia banca», il mondo di Cervello, il mondo degli istituti di credito. Sottili sono i riferimenti ai crack finanziari che hanno riguardato il nostro Paese, esplicita invece è la mafia interna allo IOR, l’Istituto per le Opere di Religione, solo per citare una di quelle sigle dietro «cui ci sono i criminali veri, gli squali; ci sono quelli che prestano 100 milioni e che sanno che ne avranno indietro 150».
Dal fumo di miliardi di euro alla fuga dal carcere dell’uomo: questo è l’unico modo per recuperare una libertà della quale l’uomo è stato privato durante la reclusione, l’unica possibilità per sfuggire ai ricatti del Potere e rispondere alle accuse di un crimine in cui non può esserci un solo responsabile. Tra le bellissime musiche che scandiscono il lavoro – dalle intromissioni di Climnoizer a Co’sang, artisti suggestivi e funzionali alla drammaturgia –, riaffiora la voce radiofonica che ha aperto lo spettacolo «le rivelazioni di Cervello stanno sconvolgendo il mondo bancario» ma dell’uomo, nessuna traccia.

Visto a Primavera dei Teatri, Castrovillari

Elena Conti

 

Frateme: i binari drammaturgici di Sicca

foto di Angelo Maggio

Debutta a Primavera dei Teatri Frateme, scritto e diretto da Benedetto Sicca, una pièce in dialetto napoletano che affronta alcune delle tematiche ormai all’ordine del giorno – omosessualità e violenza familiare – ambientandole in uno dei quartieri più difficili di Napoli. La trama è semplice quanto originale: una madre, un padre e i loro tre figli – Primo il maggiore e i due gemelli Secondo e Seconda – tutti e tre omosessuali. In scena le vicende di vita quotidiana, discorsi, cene e parole. Li vediamo incontrarsi, innamorarsi quotidianamente, con tutte le problematiche del vivere in una città dove «è meglio che nessuno sappia». Fin dalle prime battute si comprende come sotto la spigliata facciata della famiglia si nascondano inquietanti realtà e rancori.
Napoli si srotola sullo sfondo di questa vicenda familiare, una città in piena crisi dei rifiuti, un’emergenza che va e viene ma che non passa mai veramente. Come la malinconia da cui sono affetti tutti i personaggi; un malessere interiore diffuso, un disagio del quale non si comprende bene il motivo, almeno non subito, non all’instante, solo in seguito quando ormai è troppo tardi, quando il malessere è già malattia.
Un insieme di attori prezioso, capaci d’ascolto e affiatamento rari, carichi di energia in scena, che ha saputo sostenere ben due ore di spettacolo con un ritmo serrato senza far mai cadere l’attenzione dello spettatore. Sul palco letteralmente soli, nessun suppellettile a sostenere (o distrarre) l’azione, nessun supporto musicale. La parola e il silenzio, il gesto accentuato nel suo agire e la musicalità di una lingua che si lascia ascoltare (nonostante qualche problema di acustica del teatro).

foto di Angelo Maggio

Una scena per lo più vuota, un interno popolato da scheletri di sedie, sgabelli, tavolo e divano, un design semplice e lineare non caratterizzato: potrebbe essere un salotto qualunque. È fine la comprensione ma il riferimento è chiaro: questa non è una famiglia qualunque ma potrebbe essere una qualunque famiglia. Il confine tra l’una e l’altra, tra sanità e malattia mentale, è minimo: è nelle splendide parole del protagonista che lo definisce «un binario sottile sottile» sul quale basta «un venticello leggero per farci deragliare». La scenografia pensata e realizzata da Flavia di Nardo e Tommaso Garavini prende in parola il testo e assume un senso drammaturgico, installando tutti i mobili su piccoli binari. L’effetto è quello di una scacchiera dove le pedine si muovono solo in quattro direzioni: la città, la casa, le regole della società sembrano tessere materialmente una rete tra i personaggi che si destreggiano per sopravvivere “fuori dai binari”. Ma basta poco, una parola in più, a far degenerare la situazione. In un crescendo di sottintesi, i fratelli si dibattono per dimenticare il passato con amori presenti, l’amore paterno perversamente virato in violenza sessuale, nascosto tutta la vita nell’inquietudine che non trova pace. La malattia di Secondo si riversa così su tutta la famiglia: il padre assente si scopre essere la causa alla base del malessere che da anni affliggeva il ragazzo, che in un impeto di rabbia lo uccide.
Sicca dimostra una qualità incredibile nel dipingere i personaggi, nel lavorare la materia attoriale con un affondo tale da imprimere la carne di spessore: caratteri stilizzati a tratti nel gesto e nel movimento, ma carichi di emozioni dipinte a olio, quasi fossero un quadro espressionista. Un’opera precisa e pulita, una prosa che rende giustizia alla grande tradizione napoletana intrecciandola con la nuova drammaturgia in un bellissimo connubio.

Visto a Primavera dei Teatri, Castrovillari

Camilla Toso

Dentro le Sacre-Stie di Pirrotta

foto di Angelo Maggio

Non solo vivere ma anche fare teatro è un atto di coraggio, oggi più che mai; soprattutto nella situazione critica in cui ci si ritrova tra fondi che mancano, spazi dedicati alla cultura che scemano e, ovviamente, nella difficoltà a “resistere” che ne consegue. È un immenso piacere trovare degli artisti che restituiscono al teatro una sua prerogativa come è appunto quella del coraggio; persone che scelgono di utilizzare quest’arte per denunciare ciò che spesso viene taciuto, o non ha la giusta rilevanza, vanno sostenuti; soprattutto se gli argomenti che trattano sono di solito affrontati in appena due minuti, tempo a disposizione durante il telegiornale tra una notizia di cronaca e l’altra. I servizi si susseguono rapidamente e con la stessa velocità si dimentica ciò di cui si è appena parlato; le notizie passano, in fondo le brutture caratterizzano ormai il nostro quotidiano. Ma ci sono alcuni temi, alcuni scandali, che non possono passare inosservati, non devono; dovrebbero essere approfonditi, discussi e non nascosti come è successo fino ad ora. Scritto e diretto da Vincenzo Pirrotta, Sacre-Stie trascina fuori da un tunnel oscuro una tra le scabrosità più violente che solo in questo ultimo periodo è stata messa in luce: la pedofilia all’interno della chiesa. I continui flashback di cui si serve il testo per narrare vicende lontane costituiscono il terreno di un presente doloroso: da un passato che riaffiora tra poesia, passionalità e impudicizia maniacale, un cardinale si ritrova a fare i conti con un suo diocesano tornato a vendicare la sua infanzia e la sua vita perduta per colpa dello stupro avvenuto tra le mura ecclesiastiche tanti anni prima.

foto di Angelo Maggio

Filippo Luna è uno strepitoso Principe di Dio posseduto da Satana: ma il diavolo non è che un abbaglio, come lo stesso Dio, dietro cui si nasconde l’ossessione schifosa che lo abita.  La sua figura omosessuale si palesa sin dall’inizio, in un rapporto morboso che ha con il suo segretario, un accondiscendente Marcello Montalto, che esegue i suoi ordini. A poco a poco la perversione dilaga lasciando emergere i peccati di cui il cardinale si è macchiato: l’uomo viene legato a una sedia da un giovane prete che furente entra con una pistola nel suo studio. Interpretato da un convincente Alessandro Romano, il giovane diacono rivive l’incubo dei momenti passati in segreto nell’ufficio del cardinale – a suo tempo rettore dell’istituto dove studiava – e di quelli all’interno del confessionale dove, ancora bambino, perdeva la sua innocenza. Attraverso il racconto i due si spingono in un territorio impervio con un’estrema crudezza e allo stesso tempo una poesia carica di violenza verbale. Pirrotta con il suo testo si chiede perché la chiesa abbia cercato sempre di nascondere questi crimini; la rabbia nei confronti di coloro che abusano, in nome della religione, di ragazzini innocenti e puri è talmente alta che il regista fa anche i nomi di chi è rimasto a guardare, come lo stesso Papa Ratzinger, accusato di aver nascosto le prove che infangavano i sacerdoti della chiesa. La denuncia di Pirrotta è così diretta e senza mezzi termini che gli è valsa la scomunica. Il testo del drammaturgo e regista siciliano diventa ancor più un bellissimo atto di responsabilità che andrebbe sostenuto e abbracciato, a cominciare dagli operatori che potrebbero osare e dare spazio a uno spettacolo così spinoso ma necessario, prendendosi la loro parte di coraggio.

Visto a Primavera dei Teatri, Castrovillari

Carlotta Tringali