Festival Primavera dei Teatri

Ancora Primavera: tra Iodice e il debutto di Fibre Parallele

foto di Angelo Maggio

foto di Angelo Maggio

Le note di Gianfranco De Franco calano il sipario sulla XIV edizione della Primavera dei Teatri. È l’alba. Una trentina di impavidi assistono tra sonno e veglia alla performance Volo infermo del musicista cosentino. Raccolti nell’atmosfera mistica delle colonne del Protoconvento Francescano, location storica della rassegna. De Franco fa suonare una dozzina di strumenti, elettronici, tradizionali, popolari. Lo accompagna nell’esecuzione Ilaria Montenegro, un’artista di questa terra. Con la A maiuscola. Passano 45 minuti di proiezioni e musica. Proiezioni altrove – non solo una questione di sonnolenza – di ipnosi, piuttosto. I suoni catalizzano sensazioni, umori, esperienze, dejavù delle giornate trascorse tre le poltrone del teatro e le frivolezze dell’ante e post festival. Una grossa edizione. Per numeri, qualità, portate servite. Uno dei pochi festival in cui la scuderia della critica si ritrova in massa. L’unica manifestazione che fa parlare della Calabria artistica, in campo teatrale. L’unico modo per pensarci mitteleuropei, o almeno mediterranei. Uno dei padroni di casa chiude la rassegna sul palco. Dario De Luca e il suo concerto-spettacolo Morir sì giovane e in andropausa messo su con Giuseppe Vincenzi, un’altra eccellenza di questa terra in quanto a mente. Suonato dalla Omissis Mini Orchestra e documentato ampiamente da critica e cronaca.
Chiusura dell’ultima giornata di spettacoli tra fischi e fiaschi. Il fiasco Simone Biggi: no comment. Basta dire che in corso d’opera una trentina hanno abbandonato la platea. Composta da critici per lo più. I dieci minuti di flatulenze, dal palco, indicano la caratura dell’allestimento big biggi one man show.

foto di Angelo Maggio

foto di Angelo Maggio

Prima serata per le Fibre Parallele e l’anteprima nazionale di Lo splendore dei supplizi. I pugliesi confermano la loro vocazione scenica. Visivamente minuziosi, nelle meccaniche dei gesti e dei movimenti sul palco, drammaticamente maturi con margini di sviluppo esponenziali, chiaroveggenti nel creare e prevedere il responso degli uditori. Quattro quadri, microatti, ognuno con un vizio da scontare. Un languore di coppia, una disonestà reiterata, il razzismo, l’ineguaglianza. Quattro scene per quattro supplizi. Ma in platea tutt’altro. Piacere. La pluripremiata compagnia testimonia la sua genetica teatrale. Senza acrobazie tecniche o psicofisiche, un lavoro di indagine sull’attuale, proposizione di evergreen in contesto di cancri sociali, artigianalità teatrale e sapienza nella speculazione spaziale. Un lavoro ‘scientifico’, di quella scienza artistica che è astrazione e concretezza. Dinamicità e sospensione. Concetto e pura forma. Drammaturgie di linguaggio d’uso e poetiche ricamate, nitidezza registica, sincronismo attoriale individuale e di coppia. Centotrentacinque minuti che sembrano venti…

foto di Angelo Maggio

foto di Angelo Maggio

Altra ciliegina lo spettacolo della sera precedente, venerdì, di Davide Iodice. Altra conferma. Di uno sguardo al teatro in sembianze altre. Uno sguardo dalla platea su qualcosa di evanescente, eppure frutto di moti, tempeste interiori, materializzate con la levità del passo coreografico, la poesia visiva della danza. E del gesto osmotico. E dell’estetica che diventa materia. L’elemento naturale che tra le pareti del palco diventa impercettibile. La prima nazionale di Mangiare e bere. Letame e morte, con Alessandra Fabbri e tutto il resto di Iodice (regia, drammaturgia, spazio scenico, luci), divide la platea. Se piace sublima, se non piace è ritenuto plastico, finto, edulcorante. Ci si domanda come può un travaglio viscerale risultare finto, quando dell’attrice si avverte il respiro che inciampa tra i denti nell’azione drammaturgica e se ne percepisce la liberazione quando il gesto danzante la muove. Se ne percepisce la vibrante sensazione di leggerezza provata nell’esecuzione, per consegnare quello che non si riesce con le parole, metafora di incomunicabilità contemporanee. Un’indagine sull’animalità dell’attore, sull’istinto animale di stare sul palco come predestinazione, come habitat, l’unico possibile probabilmente. E tutto, nel suo codice di simbolismo, appare chiaro e intellegibile. Soggetto anche a interpretazioni, come tutto ciò che arte lo è. Non è possibile standardizzare, nemmeno comporre decaloghi o istruzioni d’uso sul fare scenico. Se si giunge a questa deriva è per il marcio esercizio di un presunto potere. Di chi osserva, soprattutto. Un osservatore aperto mentalmente è già di per sé un privilegiato. Il suo sguardo vede oltre e dovrebbe intermediare, con l’esperienza e le competenze, verso chi ha la vista corta perché non assiduo di luoghi teatrali o semplicemente per attitudine diversa. Non ci sono spettatori di serie A e serie B, ci sono coloro che stanno sul palco e quelli che stanno dall’altra parte. Alcuni più attenti, esperti, curiosi di altri. Invece c’è chi sta in platea come fosse seduto su uno scranno d’Olimpo. Pratiche malsane. Il sapere si diffonde, non si agita come fascio littorio.

Visto a Primavera dei Teatri, Castrovillari

Emilio Nigro

A Primavera dei Teatri: tra dialettica collettiva, Perrotta e Latini

Roberto Latini - foto di Angelo Maggio

Roberto Latini – foto di Angelo Maggio

C’è crisi, e necessità di rifondarsi. Di fare tabula rasa ricostruendo dal niente. Conservare purezza e pratiche sane; acidificare impurità. Il teatro, dunque, quale strumento di proselitismo. Per coscienze svuotate. Per spolverare un senso critico sotto sabbia. Una riflessione indotta, semplicemente incoraggiata, suggerita o accennata almeno. Se non è atto politico, non è detto non debba avere dignità o ragione d’essere l’esecuzione teatrale. Ma, il contesto attuale, storico, sociale, obbliga a delle prese di posizioni serrate, ferme, necessariamente osmotiche. E se le rivoluzioni nascono individualmente, una moltitudine di singoli, concentrati contemporaneamente sulla stessa rappresentazione (fenomeno), formano e amplificano una comprensione comune, potenzialmente esecutiva.

Nelle rassegne e nei festival, la materia vivida di fruizione asseconda lo scambio, la parola, il dibattito. Non solo tra spettatori ansiosi di commenti a fine scena o turisti in vacanza… Dialettica collettiva, invece, che semina o potrebbe seminare, per futuri raccolti. E cambi direzionali.

A Castrovillari, il festival di Primavera, è un evento speciale. Prima di tutto perché si percepisce la tensione (di volontà) nell’attuare un discorso sul teatro ché non sia esclusivamente panem et circernses. Poi, perché possibile in una terra impossibile. Perché una strana alchimia scandisce i giorni. Un’inconsueta unione empatica. Magari così in maschera da risultare verosimile (il teatro che si estende oltre se stesso); probabilmente ruffiana; sicuramente non disinteressata. Ma c’è. Un bene comune.
Succede a Castrovillari, che dopo 3 giorni di festival sembra siano passate settimane. Succede che una cittadina di provincia si emancipi e diventi un borgo europeo. Che un gruppo di studenti universitari alimentino la passione nel volere cibarsi di fatti teatrali ascoltando in un bistrot le parole di un critico, Giulio Baffi, la cui vita è scorsa tra palco e realtà. Succede che nelle segrete del Castello Aragonese, prigioni fino a vent’anni dopo l’Unità d’Italia, un musicista, Gianfranco De Franco (esecutore e compositore delle musiche di Dissonorata e La Borto), materializzi le percezioni degli uditori e li porti a compiere viaggi sensoriali. E l’umido dei sotterranei sembra diffondere tanfo di carni putride e angosciosi respiri.

Perrotta - foto di Angelo Maggio

Perrotta – foto di Angelo Maggio

Giovedì, terzo giorno di festival, giorno di prime. Mario Perrotta con Un bès. Antonio Ligabue in prima serata al teatro Sybaris e Roberto Latini in seconda nella Sala 14 con Noosfera Museum.
Il dualismo dell’artista-uomo nel lavoro inedito di Perrotta, di chi sa di “meritare un bacio, da artista, e elemosinarlo da pazzo”. Un’indagine in terra di confine (umana e cerebrale), in cosa è dentro e fuori; riflessione approfondita sulla libertà d’agire per proprio dettame e i condizionamenti di etichette altrui.
Perrotta arriva sul palco dalla platea, mendicando affetto, comprensione, gesti d’umanità. Il suo sguardo assente, stralunato, svela il timore (probabilmente) della prova davanti un pubblico “attento”. Davanti a un teatro gremito e una trentina di spettatori concentrati più sull’attesa della sbavatura, della stonatura, anziché mettere occhi e sensi sulla scena liberandosi da sovrastrutture di ruolo e mestiere…
Trapela l’emotività che non è solo del personaggio. Quella è calcata in maniera naturalistica, e tramite il linguaggio teatrale, metaforico, intuitivo, percepibile, s’incarna e si fa veicolo tra il pubblico al buio. Una dialettica ricercata, sperimentata a commistioni di poetiche inconsuete, codificate ma originali. Tre pannelli a grate, dei finestroni ingabbiati, come unico elemento scenografico che diventano, nel retro, lavagne cartacee in cui Perrotta tratteggia a carboncino. E rappresenta paesaggi (ambientazioni), personaggi, visioni d’una mente diversamente abile. Ricerca e sperimentazione. Padronanza attoriale e fisicità versatile a prodursi in elemento scenico. Assenza di sintesi e verticalismo pronunciato. Consuetudine dei lavori scritti e interpretati, la regia è postuma alle esigenze di attori e costruzione di scene. Che nel troncone finale dello spettacolo, assumono forme più familiari di narrazione e dialoghi con doppi indivisibili. Un leggero riverbero di caratterizzazione eguale a se stesso macchia leggermente la prova: l’incertezza della prima, il timore precedentemente accennato. Un moderno innestato a trame consolidate, emerso con la spettacolarizzazione del prodotto visivo. Il palco diventa camera oscura, in alcune scene, dove sono proiettate, a luce fantasmagorica, paesaggi, disegni, volti. Fantasmagorie, come attorno a uno scemo del villaggio. Artista. Bandito e ammirato. In eterno conflitto tra il fuori e il dentro. Ma senza maschere d’ordinanza. Se ne evince non un’attenzione epica su un accaduto, una biografia, nemmeno un tentativo catartico nell’osservare qualcosa per cui provare pietà e espiare. Piuttosto uno specchiarsi riaffiorando in superficie, da noi, da dentro, quella parte di follia stipata accuratamente sottovuoto.

Roberto Latini - foto di Angelo Maggio

Roberto Latini – foto di Angelo Maggio

Latini è un poeta del gesto. Scevro dal lirismo. Padrone in scena, del suo corpo e della sua voce. Padrone non egoista né autoreferenziale. Ma pasto per pubblico e oggetto di voyeurismo impalpabile. Di trasmissioni non immediate. Su cui tornare, con la riflessione, da diverse angolazioni di vista, di analisi. Il teatro che apre la mente. Di un linguaggio non intellegibile, diretto o esplicativo. Metaforico, ermetico, simbolico, immaginifico. Dopo Noosfera Lucignolo e Noosfera Titanic, il terzo movimento del progetto, Noosfera Museum, si propone suggerimento della semantica testuale, come esposizione di mutazioni fisiche e essenziali effetto del «disagio dell’attesa di un futuro che si è dimesso dalla nostre aspirazioni». Voci da rifugi, da corazze (o prigioni) di solitudini. In uno spazio (d’azione scenica) ipertecnologico e naturale (luci, effetti sonori, fumo artificiale, alberi e terra, sangue, vino), Latini incarna la gelatina umana ammassata come in una fossa comune di anonimati, di dispersione. Ambendo al calco della bellezza tenuta in serbo «dalla platea che l’ha custodita». Cinquanta minuti di mutismi materializzati visivamente; l’intromissione della parola sgranata dagli amplificatori (in fuori campo) poi modulata dalle corde vocali dell’attore. Senza troppo cenno d’impostazione, cruda, dal profondo, precisa e scandita, confidenziale. Museum, esposizione di corpi e interiorità in gabbia e in processione sistematica. Contrapposizione a sintassi dogmatizzata. Urgenza sensibile tradotta in linguaggi altri, liberi. Liberi dal confezionamento per cerimonie, liberi dagli unici sguardi possibili, da prospettive banali. Liberi come dovremmo essere dalla standardizzazione di ambizioni, volontà, atteggiamenti. Per partiture prese a sacrificio attoriale dell’espressione accurata. Per tensione teatrale tenuta chirurgicamente a ritmo costante e un talento, cibo per uditori non ipocriti.

Visto a Primavera dei Teatri, Castrovillari 

Emilio Nigro

 

Al via Primavera dei Teatri: tra Malosti e Maniaci d’Amore

Dalla XIV edizione del Festival Primavera dei Teatri, il nostro corrispondente Emilio Nigro ci manderà alcune pagine di diario, raccontandoci l’atmosfera che distingue il festival calabro diretto da Scena Verticale e alcuni spettacoli che lo animano.

Al via Primavera: tra Malosti e Maniaci d’Amore

castrovillariDopo del tempo al chiuso – una lunga stagione rigida piovosa e scura – riprendere la strada comporta una sorpresa continua. Come vedere per la prima volta le cose del mondo. Con lo stupore di un bambino curioso di tutto e cosciente di nulla. Le percezioni si dilatano, i sensi s’affinano; gesti, voci, volti, s’amplificano. Impressioni continue. Un groppo di ginestre su un colle sembra un’immagine dipinta. Un quartiere, medievale, che dice di dominazioni aragonesi, fatto e rifatto per giorni, mesi, anni, svela un dettaglio inedito, uno scorcio stucchevole, un dinamismo esotico. Un baretto d’un vicolo malandrino, sgrauso, con brutti cerri e l’atmosfera truce, assume contorni affascinanti. Suggestivi. Delle suggestioni che si avvertono nelle periferie criminali. Lo strano fascino del pericolo…

Bentornata Primavera. La fioritura è di stagione. L’habitat quello di sempre. A cui però non ci si abitua mai. E se ne ha sete e fame, quando tarda. Qui, in terra di Calabria, in una zona conservatasi testimonianza borbonica, tra le più intatte antropologicamente. Tra il Pollino e l’urbanizzazione del grosso centro di provincia, costumanze salvaguardate e innesti sociali digeriti appena. Dove sorrisi e maschere d’ordinanza, di convenzione, si acutizzano a un tale livello di finzione da sembrare sinceri. Dove si è poveri economicamente e culturalmente, arretrati e pieni di contraddizioni, ma ricchi d’integrità intellettiva e morale, di spirito, di senso, d’umanità. Quella ricchezza che il teatro dovrebbe diffondere, nelle varie trame in cui si dipana. Arrivando in sordina o di prepotenza, per metafora o realismo estremo. Una via di comunicazione ambigua, non necessariamente immediata, chiara, intellegibile. In ogni caso viva, senza possibilità di correzione subitanea, senza possibilità di replay. Un’azione collettiva. Che può diventare corale livellando comprensione e messaggio, ascolto e eseguito, gesto e visualizzato. Un gioco reciproco. Uno scambio diseguale ma uniforme. Incubatrice di emozioni.

foto di Angelo Maggio

foto di Angelo Maggio

Dovrebbe essere emozionante il teatro che vale. Al di là delle classificazioni o nomenclature di genere, tecnica, critica e resoconti di significato. E spiegare perché uno spettacolo lo è e un altro no. Facile a dirsi…
Emozionante lo è stato Lo stupro di Lucrezia di Valter Malosti. Shakespeare. La parola che incanta. L’incisività del verso che descrive moti, situazioni, congetture, a rimando, per metafora o allegoria, inarrivabile. E stupisce – dello stupore di un bimbo curioso di tutto e cosciente di nulla – da creare ipnosi.
Peccato che gli attori non sono stati sempre all’altezza, durante l’ora e mezza di spettacolo, di dare giusta grazia a questa dialettica celeste. Comprensibile, tuttavia, considerando la mole di lavoro fisico a cui sono sottoposti. Per vivificare lo stupro della moglie di Collatino, Lucrezia, l’allettante, la casta, la fedele. Una violenza di cui i due coniugi sono colpevoli, l’uno per aver fatto venire l’acquolina in bocca all’erotomane confidando virtù e virtuosismi dell’amata, l’altra rea di bellezza tentatrice. Giustificazioni per la superbia di Tarquinio carnefice e simbolo della cecità effetto della libidine, della presunzione indotta dal potere, dell’animalità dell’essere governati dall’istinto. Emblema primordiale, emblema del potere (il popolo romano insorge contro la monarchia portando il vessillo del suicidio di Lucrezia). E Lucrezia è vittima predestinata, ciò che in fenomenologia è indicato come movente, e nelle disquisizioni filosofiche astratte come episodio necessario al compimento del fato. Però Lucrezia è una donna. Una donna stuprata. Il palco diventa megafono del dolore. Dell’onore perduto. Della devastazione fisica e mentale. Malosti lo trasforma in un vuoto d’anima, con un parterre di luci a trasmettere (sensibilmente) un groviglio di angoscia e orrore, un duello di corpi nudi (padrone e sottoposto) sequenziale e crudo – l’asessualità, la mancanza di percezioni sensuali all’assistere a nudità sottoposte a violenza – un’estetica carica di semiotica audiovisiva e innesto di feticci contemporanei. Con il risultato, però, di non avere convinto il pubblico, poco soddisfatto da qualcosa ritenuta (ormai) di repertorio, di consumo, di codificabile e catalogabile. L’alterità del frigo, le postazioni microfonate, l’amplesso esplicito. Teatro moderno sintetizza un evolversi di tecniche o una ricerca raffinata nell’indagine della realtà, delle fonti, dell’eredità drammaturgica e teatrale?

foto di Angelo Maggio

foto di Angelo Maggio

Fertile e prorompente l’impronta registica allo spettacolo: fedeltà al verbo Scespiriano e costruzione sulle meccaniche attoriali, sul rappresentare altro da ciò che si vede e l’occhio legge a primo assorbimento, sul disegno visivo d’arte, sull’impostazione vocale adottata per il narratore. Umorale la prova d’attore, flebili nell’ attacco – probabilmente destabilizzati dall’ “ansia da prestazione” – più padroni nella seconda parte, con un punto a favore di Alice Spisa, sottotono Jacopo Squizzato, immaturo. Complessivamente, il suffragio del pubblico, è discorde. Per il rigore di movimenti troppo precisi, per un calo di climax delle scene successive all’amplesso violento, per un ipnotismo testuale distratto da inefficaci trasposti vocali; Per un disegno scenografico da cornice, poco sfruttato nella speculazione totale dello spazio; Spettacolo emozionante, avvertito, sudato, ma ancora distante, plastico.

Di diversa pasta lo spettacolo in seconda serata. Nella location inedita del Castello Aragonese. Il primo, si è visto al Teatro Sibarys.

foto di Angelo Maggio

foto di Angelo Maggio

Fresca la sera incorniciata dallo scenario naturale del Castello. Muri e facciate lasciate all’identità austera del passaggio del tempo. Fresca l’esecuzione sul palco de Il nostro amore schifo del duo Maniaci d’Amore (Francesco D’amore, Luciana Maniàci). Meridionali approdati al teatro da strade di formazione altre (Scuola Holde – Torino) per cui evidente il tratto letterario nella partitura drammaturgica e l’intenzione scenica di veicolare il testo, la trovata prosaica, il gioco di parole. Perfetta dizione lui, naturalistica lei, con l’inflessione messinese e l’apertura vocale negli innumerevoli “per sempre” reiterati a totem di caratterizzazione. I “per sempre” di quell’amore pensato prima che vissuto. Adolescenziale. Intollerante nei confronti del qui e ora universale, matrice del lineare funzionamento delle manifestazioni vitali. Cliché di coppia, non stagionata per “verginità” anagrafica, ma mossa da normative di codificazione comune, dogmatica. Come s’avesse un libretto d’istruzioni per movimenti di sentimento. E fuori dai resoconti concettuali, il lavoro dei due – un frutto verde con pezzetti di rossa maturità – convince per la frizzantezza dell’approccio e della dimestichezza con le pratiche di messa in scena. Per la padronanza nell’intervenire chirurgicamente con la sicurezza del professionista, nonostante la poca esperienza. E le strutture troppo in vista (quelle di pianificazione, le idee adottate nella costruzione, gli ingranaggi dialogici) come in un cantiere con uno scheletro d’edificio, il lavoro attoriale ingenuo e semplicistico, l’autenticità spinta all’eccesso, sono piccoli nei su pelle candida, setosa. Stupore per i coup de theatre (ripetuti) nel finale. Intelligenti, di uno spettacolo intelligente.

Dal Festival Primavera dei Teatri, Castrovillari

Emilio Nigro

 

 

Ultimo giorno a B.Motion 2011…

foto di Simone Nebbia

Com’è bella l’acqua di un fiume, corre lungo una direzione che nessuno sguardo saprà mai contrastare: si potrà guardare controcorrente, ma lei continuerà a scorrere via; così bella è l’acqua del fiume, così bella che non te ne accorgi nemmeno di quanto la sua esistenza sia sempre intimamente connaturata alle terre che divide, ma senza mai dividerle davvero. Con Tommaso l’abbiamo percorse entrambe, correndo accanto a quell’acqua dal primo fino all’ultimo giorno di questo B.Motion 2011, abbiamo graffiato di passi e di parole la traccia sconnessa di lungofiume, abbiamo immaginato mondi calcandone altri,intrecciato tensioni ed ebbrezze che la scena ci consegnava a questo groviglio della natura, come se quel che accadeva in teatro dovessimo cercarlo altrove, negli spazi consegnati dalla bassa sotto il Monte Grappa, per davvero sentirli veri.

Continua a leggere su Teatro e Critica…

La corruzione dall’inizio alla “Fine”

Recensione a Fine – scritto e diretto da Rosario Mastrota; a Il paese delle ombre – di Maria Teresa Berardelli, regia di Antonio Tintis

Fine di Rosario Mastrota

Applausi, saluti e acclamazioni. Sembrerebbe un bel finale di spettacolo, un grande successo se solo non fosse per lo strascico di finzione con il quale si manifesta. A dichiararlo sono gli applausi registrati di un pubblico assente; è la voce fuoricampo di un attore che non riesce più ad ascoltare i commenti della gente e a sostenere l’ipocrisia di un teatro “di facciata”. La corruzione che logora il mondo dello spettacolo piomba sul palcoscenico della Sala 14 del Protoconvento di Castrovillari con Fine, un monologo di Gino – uomo, 38 anni, napoletano, attore di professione, interpretato da Luigi Iacuzio. Con un forte atto di denuncia, Rosario Mastrota, autore e regista del lavoro, racconta le vicende di una carriera teatrale caratterizzata da compromessi e fallimenti, alimentati da quel meccanismo “all’italiana” che cela il più possibile il suo marcio e non consente alle persone di prenderne consapevolezza, al di là di coloro che appartengono allo stesso sistema. A un’arte che non dà da vivere, a un lavoro portabandiera della precarietà, Gino si arrende. Parla davanti ad una telecamera, lancia la sua denuncia, narra la sua vita per poterla finalmente abbandonare prendendone, per una volta, le redini e scegliendone il finale. Una telecamera, un computer e un fondale da proiezione sono gli unici oggetti che compongono la scena: pochi elementi tecnologici che tuttavia, data l’attenzione riposta su di essi, si accostano a parole già fortemente indicative dell’azione e rischiano di rendere il lavoro didascalico. Lui, uomo più che attore, rinuncia ad un’esistenza precaria, non si riconosce più e rifiuta il suo essere merce di un mercato della cultura che porta a cedere il proprio corpo in cambio (forse) di una particina nello spettacolo. Ma c’è un altro tipo di corruzione che non riguarda unicamente il vendere se stessi. Il marcio che sta corrodendo il mondo teatrale si fonda anche su “buone” conoscenze e mediazioni che annullano il valore di quest’arte. Fine affronta un problema serio al quale è giusto dare rilevanza fino a farlo approdare sul palcoscenico, in un’operazione teatrale che non deve essere scambiata per autoreferenziale ma piuttosto, come dichiara l’autore, un “metateatro critico”. Ma ciò che nel lavoro di Mastrota non è stato ancora raggiunto è lo scarto che questo male possiede rispetto a scandali televisivi come vallettopoli o simili che semplificano erroneamente la questione e la deviano su altre strade confondendo il raggio d’azione su cui dovremmo costantemente intervenire, non rinunciando mai a lottare per cambiare le cose.

Il paese delle ombre - foto di Angelo Maggio

La serata del 03 giugno di Primavera dei Teatri ha visto rappresentati altri due lavori, entrambi in anteprima nazionale: il primo è stato Crack Machine di e con i bravissimi Lino Musella e Paolo Mazzarelli (leggi la recensione) mentre, a chiudere la serata, Antonio Tintis ha presentato Il paese delle ombre di Maria Teresa Berardelli, giovane autrice già riconosciuta e premiata per il suo talento. Il testo trae spunto da un’indagine giornalistica sulle vicende di un orfanotrofio che fu scenario di orrori: Elisa Gallucci interpreta una scrittrice “venuta dal Nord” che, giunta nel paese, genera da subito scompiglio e antipatia per il suo desiderio di riportare in luce i maltrattamenti e gli omicidi commessi nell’orfanotrofio, crimini che gli abitanti del paese hanno tentato finora di rimuovere dalla loro memoria. Un cerchio – il cui perimetro a terra è tracciato da fogli di carta che valgono come documenti e testimonianze dei fatti –, distingue due situazioni sceniche e drammaturgiche. Al suo interno si colloca lo spazio della luce, l’affermazione di una verità con i suoi diretti responsabili; mentre all’esterno domina l’oscurità con quei personaggi ombre di se stessi e di un passato difficile da cancellare. La messa in scena di Tintis è curata e interessante, ma la recitazione degli attori tende ad appiattire le parole dell’autrice; il lavoro viene caricato fin da principio di  un’enfasi attoriale che allontana lo spettatore da una vicenda che lo vedrebbe, invece, umanamente coinvolto. Lo spettacolo, che ha coinciso con il debutto di Tintis nella regia, merita di essere ancora approfondito ed elaborato; ne attendiamo gli sviluppi.

Visto a Primavera dei Teatri, Castrovillari

Elena Conti

10 Domande a… Leonardo Gambardella


Incontriamo i registi presenti al festival Primavera dei Teatri per rivolgere le nostre “10 Domande a…”. Uno scambio di battute brevi ma prettamente significative per conoscerli meglio. Risponde Leonardo Gambardella presente a Primavera dei Teatri con Un italiano a Macondo.

 

 

 

 

1. Come definirebbe il suo teatro?
Un teatro di ricerca intesa anche a ritrovare le radici della storia. Un teatro a servizio del racconto

2. Che cos’è il teatro di ricerca?
È un’avventura in cui bisogna avere il coraggio di partire senza sapere dove si va a parare. Bisogna avere il coraggio di liberarsi da tutte le convenzioni, le sovrastrutture.

3. Come lo spiegherebbe ad un profano?
È un teatro molto interessante, molto curioso, a cui bisogna approcciarsi con una grande disponibilità

4. Un Italiano a Macondo in una frase.
La ricerca di questo luogo dell’anima che è dentro ognuno di noi

5. Che cos’è per lei Primavera dei Teatri?
È una festa bellissima dove ritrovare tanti amici. Ormai sono 4 anni che vengo qui e ne sono contentissimo

6. Se la sua vita fosse uno spettacolo teatrale chi sarebbe il regista?
Sarei io il mio regista

7. Lo spettacolo che le ha cambiato la vita?
I giganti della montagna di Strehler

8. Uno scrittore che metterebbe in scena o a cui chiederebbe di scrivere una drammaturgia per lei?
Luigi Malerba

9. Potendo scegliere: teatro come sede della compagnia o nomadismo?
Teatro come sede della compagnia

10. Quali sono le possibilità che il teatro possiede e che lo fa essere un’arte fondamentale?
La libertà di poter far vedere qualsiasi cosa, di poter raccontare qualsiasi storia; è una libertà infinita che coltiviamo e che va coltivata, che lo rende affascinante

 

Biografia di Leonardo Gambardella
Dopo essersi diplomato all’Accademia Nazionale d’Arte Drammatica “Silvio D’Amico” di Roma, ha completato la formazione studiando a Londra (Actor’s Centre) e a New York (The Linklater Center for Voice and Language). Lavora come attore di prosa alternando esperienze di teatro classico e spettacoli di ricerca nei “teatri off” romani dove ha lavorato con i registi: Fortunato Cerlino, Alessandro Fabrizi, Massimiliano Civica. Nel 2004 ha vinto il premio “originalità ed efficacia” con il monologo Fotografia assoluta. Dal 2006 presenta Duke Duet, prodotto dal Peperoncino Jazz Festival, incontro tra teatro e musica jazz, per raccontare il genio di Duke Ellington dal punto di vista di un italo-americano che torna al suo paese in Calabria. (Biografia gentilmente concessa da primaveradeiteatri.it)

Commenti su La brocca rotta a Ferramonti di Nicolini e Suriano

05/06/2011 Castrovillari, Festival Primavera dei Teatri. I commenti a caldo del pubblico su La brocca rotta a Ferramonti di Nicolini e Suriano.

[media id=260 width=210 height=20]

[media id=261 width=210 height=20]

[media id=262  width=210 height=20]

[media id=263  width=210 height=20]

[media id=264  width=210 height=20]

[media id=266  width=210 height=20]

[media id=265  width=210 height=20]

[media id=267  width=210 height=20]

 

Commenti su Grimmless di ricci/forte

05/06/2011 Castrovillari, Festival Primavera dei Teatri. I commenti a caldo del pubblico su Grimmless di ricci/forte

[media id=257 width=210 height=20]

[media id=256 width=210 height=20]

[media id=255 width=210 height=20]

[media id=254 width=210 height=20]

[media id=253 width=210 height=20]

[media id=252 width=210 height=20]

[media id=251 width=210 height=20]