Recensione a Don Giovanni, a cenar teco – Compagnia stabile/mobile Antonio Latella
Each man kills the thing he loves cantava una struggente Jean Moreau in Querelle de Brest di Fassbinder. Un motivo che torna come un monito nel Don Giovanni, a cenar teco, spettacolo diretto da Antonio Latella, per ricordarci che in fondo, questa cruda frase, interpretata con voce roca e spezzata da un’attrice-specchio della Moreau, rappresenta la verità. Don Giovanni è l’uomo-archetipo che vive d’amore, rincorre la passione travolgente, la cerca e una volta ottenuta ne fugge; un uomo che semina cuori spezzati, amori interrotti che trascinano alla pazzia, alla cecità, spingendo le donne a una vita lasciva o addirittura alla morte.
Antonio Latella e Linda Dalisi scrivono una drammaturgia originale che passa da Molière e arriva a Max Frisch, attraversando Fassbinder. Un testo dove Don Giovanni si strugge dalla noia e persegue l’amore per affermare la vita, mentre al contempo cerca la statua del commendatore per poter asserire la presenza di dio e riempire di senso la sua vita. Don Giovanni, a cenar teco è un teorema matematico, fatto di calcoli per conquistare una donna e per dimostrare l’esistenza di Dio; ma la matematica può dimostrare ciò che è rarefatto e astratto come i sentimenti? La prima si basa su forme geometriche, l’altra su labili sensazioni che sfuggono. I conti non tornano mai.
Latella, che firma anche la regia, scardina un’ingessatura del teatro, inteso nel senso più classico: ci mostra un protagonista-bambino che gioca con dinosauri di plastica e, con questi, ci racconta la storia pregressa, che muove come un filo tutta la trama seguente. Tutto è fortemente attaccato alla realtà, non ci sono presenze ultraterrene; non ci sono morti che dall’aldilà inghiottiscono Giovanni per la sua colpa, per il suo libertinaggio, per la sua miscredenza.
Durante tutto lo spettacolo il protagonista vorrebbe andare a cena – forse vorrebbe morire? –, cena che sa essere l’appuntamento ultimo con la vita; ma l’atto finale, tanto anelato, arriva solo quando Giovanni è ormai invecchiato e i suoi vestiti si sono fatti setteceschi, in una scena fatta di pura poesia.
Interpretato da Daniele Fior, Giovanni è umanissimo nei suoi dubbi e vive soprattutto di luce riflessa, di proiezioni che le donne costruiscono su di lui: per la maggior parte del tempo il protagonista non c’è, ma tutti ne parlano. Alla base dello spettacolo, un gioco fatto di continui svelamenti, come quando tutte le donne si riuniscono per parlare del loro amato, sfogandosi mentre le luci della platea si accendono, rivelando l’ipocrisia di quest’uomo, il suo essere truffatore: la natura di Giovanni viene così mostrata. Il proiettore si muove a vista, i personaggi si vestono e si svestono di fronte agli spettatori, un solo piccolo lembo di tessuto appeso rimanda al ‘700: ma è destinato a cadere come un macigno sopra Charlotte, interpretata da Caterina Carpio, poiché il suo corpo non regge la finzione dell’amore e quindi la povera donna muore, inadatta all’artificio.
Con Don Giovanni – realizzato nel 2010 –, Antonio Latella, con la sua compagnia Stabile/Mobile, ha compiuto un passaggio importante che lo ha poi portato sempre più verso uno sradicamento del meccanismo teatrale che ha visto il suo apice ne Un tram che si chiama desiderio. Il proiettore che segue i personaggi facendo luce su momenti oscuri, assieme il mix di prosa, poesia, lirica, danza, karaoke ci introducono in uno stile che affastella materiale per uscire dai canoni fissi del teatro, rompendo i confini in cui spesso è relegata la prosa; e mettendo così il proprio pubblico di fronte a domande a cui deve provare a rispondere, una volta tornato a casa.
Visto al Teatro Annibal Caro, Civitanova Marche
Carlotta Tringali