Recensione a Exit – di Fausto Paravidino
Lui, lei, l’altra. E poi anche un malcapitato altro, che non poteva mancare in una commedia sentimentale come Exit, il nuovo lavoro di Fausto Paravidino, autore e regista. Come si chiamino non è dato saperlo: silhouettes bidimensionali in un infinito interno pastello (anche quando le scene sono ambientate in strada o gelateria), non si presentano per nome, scarnificati anch’essi dal processo di rappresentazione/messinscena che investe anche le ambientazioni – non-luoghi, è proprio il caso di dirlo, suggeriti da frammenti evocativi, simboli recisi riconoscibilissimi, estratti dal contesto di provenienza, che indicano: “bar”, “pizzeria”, il logo della Feltrinelli per la libreria e la lampada rossa per il ristorante cinese) – e i dialoghi.
Una storia d’amore che finisce e non si sa perché; allora, assieme alla coppia (Sara Bertelà e Nicola Pannelli), si va a ritroso a riperscarne punti di rottura e ragioni credibili, senza trovare mai soddisfazione: la politica e la gelosia, il sesso e l’avere/non avere figli… il punto di non ritorno, quasi refrain di tutta la prima parte dello spettacolo, è quello “dei calzini” (a righe colorate, che la donna ha regalato all’uomo per un compleanno). Microscene per microragioni che non possono, né da sole né tutte insieme, spiegare – come del resto accade nella vita reale – i motivi profondi del deterioramento dei rapporti umani. Qui le strade si biforcano, nel momento in cui i due decidono di lasciarsi: lui, docente universitario, intraprende una relazione con una giovane studentessa (Angelica Leo), mentre lei, seguendo la guida di un manuale in tot punti su come sopravvivere alla distruzione del proprio rapporto di coppia, incontra un altro (Davide Lorino), boyscout un po’ vecchia maniera, con cui nasce una tenera amicizia. Ognuno va per la sua strada fino a che le due storie si incontrano, si sovrappongono, cortocircuitano. Come va a finire non è dato saperlo. Come nella miglior tradizione postmoderna è il ciclo e riciclo a farla da padrone: il finale è sospeso e rimandato; si riparte dal via, con la leggera poesia del non-finito e l’impossibilità di scegliere e accollarsi una conclusione qualsiasi, lasciata forse alla presunta coautorialità del pubblico che può immaginare il proseguimento della storia.
Dunque, dramma borghese fino a un certo punto, visto che al giorno d’oggi sembra di vedere l’ultimo orizzonte della classe sociale che ha rifondato il capitalismo in senso moderno e che, infatti, la vicenda non procede secondo percorsi tradizionali e lineari, ma attinge a piene mani alle mille e una seduzioni del montaggio (cinematografico, filosofico, letterario…). Tutto accade a vista, come prevede il canone decostruzionista che, imperversando ormai sui palcoscenici nostrani, desidera svelare e mostrare i propri trucchi e finzioni per potenziare, mettendola a nudo, la “magia” artigianale. Dopo flashback e repentini cambi scena, altalene fra immedesimazione e straniamento, “cartelli” al neon – Brecht dopo Bruce Nauman e Naomi Klein –, l’apice, esemplare in questo senso, è il cortocircuito fra le due linee drammaturgiche, che vede assieme in scena, sul lato sinistro la (ex)coppia protagonista della vicenda impegnata in un faticoso quanto dolce ritrovo e, a destra, la studentessa incinta che viene aiutata con le borse della spesa dal “fidanzato” dell’altra, capitato casualmente nella sua vita.
La scrittura di Paravidino tenta un equilibrio audace, certo non inedito, fra una delle trame canoniche della commedia sentimentale e un dispositivo drammaturgico decostruzionista, fra modernismo e postmoderno, fra la tradizione delle grandi narrazioni e la loro frantumazione alla “fine della storia”. L’esito è quello di un realismo cangiante, a volte manierato in forme d’espressionismo soft o post-pop patinato, che ricordano più i debordanti cliché dei serial tv più riusciti che i profili inquietanti di Ensor o Kirchner o la lucidità di Roy Lichtenstein.
In Exit è tutto vero e tutto finto allo stesso tempo. E nei suoi frammenti leggeri – che, va detto, strappano spesso risolini e risatine, soprattutto giocando con insistenza sulla quarta parete – c’è spazio per un po’ di tutto: iperealismo e fiction, dal teatro dell’assurdo al dramma borghese, dai serial tv ai fotoromanzi, poi, arte contemporanea al post-capitalismo, per non parlare del cinema di Woody Allen di qualche tempo fa; ma, viene da chiedersi, tolto tutto questo, levati i riferimenti intelligenti, gli assemblaggi di citazioni che possono anche essere interessanti, i cortocircuiti d’immaginario edulcorati dai toni pastello che omogeneizzano tutto, cosa resta?
La deformazione (dell’umano, delle relazioni) è affidata esclusivamente alle evoluzioni e acrobazie drammaturgiche, in un raffinato e preciso, quanto lungo e in certi punti gratuito, esercizio di stile, che certo permette di valorizzare il talento dei bravi interpreti in scena, ma spesso insinua il sospetto di una vocazione più espositiva e ostensiva, che narrativa o performativa; sembra che i personaggi (e le persone: gli attori che li interpretano e il pubblico che li segue) restino fuori da tutto questo gioco estremamente bien fait. A fare che, francamente, non si sa.
Visto al Teatro dell’Elfo, Milano
Roberta Ferraresi