Al Limite Festival

Cani senza padroni oggi

foto di Diego Beltramo

Sono passati quasi otto anni da quando lo spettacolo di Motus Come un cane senza padrone ha debuttato all’interno dell’ex complesso Italsider di Bagnoli, nella periferia di Napoli. Un lavoro innovativo che mostrava la modernità del gruppo riminese nella forte connotazione cinematografica aggiunta a quel loro viaggio teatrale iniziato negli Anni ’90. Dopo la fascinazione per Fassbinder, Genet e De Lillo, Motus abbracciava per la prima volta un autore a noi molto più vicino, un personaggio scomodo che ha fatto molto parlare di sé negli anni ’70 e che continua come un fantasma ad essere presente e contemporaneo ancora oggi: Pier Paolo Pasolini. 2003-2011: a Venezia per il Festival Al Limite – curato e organizzato all’interno del S.a.L.E. Docks– si è avuta l’occasione di vedere una piccola perla di uno dei gruppi di ricerca teatrale più importante a livello nazionale e che poco gira in terra veneta. Come un cane senza padrone è uno spettacolo che non dimostra la sua età, è sempre attuale e graffiante; e soprattutto l’esperienza di Motus si adatta come un guanto alla situazione ricreata da Al Limite: uno spazio alternativo completamente autogestito per dare voce a ciò che sta al margine e che proprio per questa sua caratteristica ha un valore aggiunto. Il margine e, più propriamente parlando, la periferia sono protagoniste in questo lavoro che intreccia differenti proiezioni video alla lettura di alcuni frammenti tratti da Petrolio, il romanzo incompleto scritto da Pasolini. La voce profonda di Emanuela Villagrossi racconta un momento rivelatorio dell’esistenza di Carlo, un dipendente dell’Eni abituato a una vita borghese, che si ritrova immerso in un’esperienza di estrema rottura: l’incontro sessuale con Carmelo, un “ragazzo di vita”.

estratto dal video di Simona Diacci

Contemporaneamente alla calda tonalità dell’attrice uno schermo proietta le immagini sfocate di un film – realizzato da Simona Diacci proprio per questo spettacolo – in cui Carlo, interpretato da Danny Greggio, e Carmelo, un disinvolto Franck Provvedi, vivono la loro breve ma intensa storia. Intensa solo per lo stesso Carlo: se per Carmelo l‘incontro con uomini altolocati rappresenta un modo di sostentamento danaroso, il protagonista di Petrolio, abituato a una vita borghese e priva di stimoli, solamente con questa esperienza, che unisce incredulità, violenza e una lacerante vitalità, comprende il vuoto che lo abita. E questo vuoto diventa un grido urlato nel proprio silenzio, in un deserto in cui ci si ritrova nudi e soli con se stessi, metafora di un Io interiore privo di significato. È in questa zona arida che Carlo capisce di essere stato per tutta la vita circondato da un “pieno”, da un mondo in cui il centro non era altro che una falsa illusione; è la periferia, la zona dimenticata da tutti che in Petrolio, e soprattutto in Come un cane senza padrone acquista una bellezza ritrovata, dimenticata e boicottata in cambio di quella vita borghese in cui Carlo “dormiva il sonno del suo corpo”. Oltre la lettura della Villagrossi e lo schermo in cui il film sulla storia di Carlo e Carmelo è proiettato, su tre pannelli scorrono le immagini di strade, di baracche, carcasse di automobili: zone periferiche in cui Pasolini si ritrovava a vagare con la sua macchina e che hanno ispirato tutto il lavoro di Motus. L’immagine della periferia – estesa su un campo visivo che presenta tre diverse inquadrature sincronizzate – acquista il fascino dei vecchi ciclorama e aiuta lo spettatore ad entrare in un viaggio di pura poesia. Questa esperienza inizia ma non ci si sente accompagnati; piuttosto si è soli di fronte a ciò che terrorizza e non si conosce, e che d’altra parte invita a essere incontrato. Come Carlo prova una pulsione mai sperimentata prima verso Carmelo, si prova la stessa fascinazione nell’entrare in una zona che sembra deserta ma che forse ha molto più da offrire rispetto ad un’altra affollata e più nota. In periferia si possono incontrare dei cani che vagano senza padroni: sono abbandonati, sono soli; cercano ciò che li soddisfi immediatamente, senza essere fedeli a nessuno, neppure a loro stessi. Semplicemente vivono di eccessi: ecco Carlo che, attraverso quell’angelo impuro personificato in Carmelo, vive una frattura interna sentendosi “come una cagna senza padrone”. Comprendere il deserto della propria esistenza risulta sempre attuale, oggi come ieri: Pasolini continua a essere a noi contemporaneo.

Visto a Al Limite Festival, S.a.L.E. Docks, Venezia

Carlotta Tringali

Vitalità e controsensi della metropoli nell’ultimo lavoro di Garten

Recensione a Time for talk is over – di Garten

foto di Federico Ambrosi

Terzo appuntamento di Al Limite, festival di S.a.L.E. Docks alla sua prima edizione, Time for talk is over di Garten intercetta a pieno i propositi e gli interrogativi posti dalla rassegna stessa sui rapporti fra teatro e dimensione urbana, fra la creazione e il contesto in cui nasce e si sviluppa. L’ultimo lavoro del collettivo milanese che fa capo a Giorgia Maretta (coreografa e performer) e Andrea Cavallari (regista e video-maker) racconta con lucidità e leggerezza, spietato ma scorrevole, la storia della città contemporanea, dalle sue origini ai suoi eccessi, fino al suo esito post-industriale. Fuori da ogni intento didattico o documentaristico, con uno slancio politico che strizza l’occhio alle ultime sperimentazioni post-pop, Garten porta in scena la costruzione stessa della realtà metropolitana, come in una sorta di pianificazione urbanistica aperta al pubblico, in cui due performer (Andrea Rimoldi e Corrado Tagliabue) sono impegnati a posizionare grattacieli e abitazioni, strade e servizi in un plastico architettonico ricco di piccole sorprese che invade man mano tutto il palcoscenico. All’inizio i palazzi (semplici parallelepipedi in pvc auto-illuminati) sono due o tre, mentre qualche carta accartocciata a pavimento – il verde pubblico – funge da cuore pulsante del neonato agglomerato urbano. Timidamente la città cresce, i grattacieli aumentano e cominciano a essere popolati di abitanti, lavoratori, utenti (disegnati live dai due attori), assediando progressivamente il centro; si costruisce un ponte su cui scorrono sempre più veloci tante biglie scure, mentre il resto della scena si affolla di una crescente quantità di contenitori d’alluminio rovesciati – fabbriche o baracche che siano, invadono ogni spazio disponibile, intralciando anche i movimenti dei performer. Sei bottiglie sono appese a rappresentare le risorse (energetiche, spirituali?) che portano la vita in ogni angolo della metropoli, attraverso una fitta rete di tubicini percorsi da un liquido rosso.

foto di Federico Ambrosi

La città di Garten, sospesa fra mitologia metropolitana e critica diretta, slancio immaginativo e iperrealismo sintetico, cresce attraverso una partitura di movimenti che danno vita a una specie di sottilissima coreografia di sottofondo, costituita da gesti minimi e curati, fra la costruzione materiale dell’habitat urbano e il suo popolamento attraverso sovrapposizioni di disegni – scelta estetica capace di mettere in comunicazione alcuni spunti dell’avanguardia teatrale con i più recenti slanci della street-culture, con la sua grafica lo-fi e soluzioni di design che riassemblano elegantemente materiali di recupero. Trovate sceniche minimali ed estrema cura dei movimenti, un gran lavorio live di soundscape e di scenotecnica, insieme a una consistente delega alla fantasia dello spettatore – tutti tratti già accarezzati nel precedente I will survive, ma che trovano qui ulteriori sviluppi in linee di creazione ed esposizione ben più efficaci – fanno di Time for talk is over un esperimento performativo divertente ed intelligente. Esperimento che si può considerare anche prossimo al tentativo di reinserire le potenzialità un po’ datate del teatro politico all’interno della società, della cultura e della scena contemporanee. Capace di illuminare di una prospettiva d’ampio respiro l’intera ricerca del gruppo neo-finalista al Premio Scenario e forte della sua provenienza in parte extra-teatrale, lo spettacolo si dimostra un curioso impasto – ben calibrato ma esposto unicamente per frammenti – fra dimensione etica e ricerca scenica. Se alcuni elementi si possono ricondurre a tratti ormai ben accertati del nuovo teatro italiano, come il tentativo di recupero (e di revisione) della “piccola magia” legata all’artigianato teatrale (qui riproposto in chiave post-industriale) o la sovra-esposizione del processo creativo, altri vanno segnalati come spunti di lavoro originali – fra questi ultimi indubbiamente il consistente accento sulla dimensione ludica della rappresentazione.

Intanto quella che ormai è una metropoli cresce a dismisura, sotto gli occhi allo stesso tempo sereni e fatali dei suoi stessi silenziosi creatori. Ma la svolta post-industriale è alle porte: con il fumo denso che invade la scena, il rimbalzo delle biglie sempre più incalzante rimodellato live da Paolo Calzavara, il sovraffollamento che soffoca ogni via di scampo, la città smette di respirare e la sua linfa, nei piccoli tubicini che la percorrono, assume un’inquietante colorazione nero petrolio. Cataclismi di ogni genere si abbattono sulla metropoli ormai impotente – mostri creati dall’uomo stesso, ribellioni realistiche o immaginarie di una natura oppressa – fino al punto di non ritorno che dichiara: the end. Una fine secca, affidata a un cartello dal retrogusto brechtiano ma privato di ogni orientamento interpretativo, che non sa dire se la conclusione vada intesa in senso apocalittico o rigenerante. Sta evidentemente al pubblico deciderlo, all’apice di un gioco teatrale che gli richiede un gran lavoro di immaginazione e ne stuzzica sapientemente le aspettative per tutta la durata dello spettacolo. Tuttavia rimane il rischio implicito in tutte le deleghe così radicali alla co-autorialità spettatoriale: proprio come i due performer restano a fare da sfondo alla creazione della città, sospesi fra predestinazione e gioco, la dimensione ludica, in assenza di un’assunzione di prospettiva schierata e dichiarata, rischia di travolgere la critica politica, con la minaccia di rimanere intrappolata nella magia del gioco teatrale e di riuscire a incidere poco sull’immaginario dello spettatore, impegnato com’è ad aspettare la prossima trovata, la sorpresa successiva, il raccordo mancante.

Visto a Al Limite Festival, S.a.L.E. Docks, Venezia

Roberta Ferraresi

Gli elementi scenici sono, come nel precedente I will survive, al centro della drammaturgia, sostanziali protagonisti dell’azione. Ma nonostante tale dichiarata e ricercata centralità, la presenza performativa, nella ricerca di Garten, sembra essere assunta in una dimensione radicale: nascosti per tutta la durata dello spettacolo, ad animare la vitalità di costruzioni di scatoloni sempre in divenire, in I will survive, in questo nuovo lavoro i performer sono oltremodo esposti allo sguardo del pubblico, in una costellazione di atteggiamenti e movenze che manifestano una riflessione di rilievo sulla figura interpretativa. Spettatori qualunque che qualunque non sono, si staccano dalla platea al calare del buio in sala per salire sul palco e dare vita all’azione. Due uomini in abiti consueti, che con delicatezza e una precisissima cura……………   fewjfjelkfelwjflefj