antonio latella

Una Santa Estasi del teatro

Santa Estasi, percorso di alta formazione diretto da Antonio Latella per ERT e sviluppato insieme a Federico Bellini e Linda Dalisi, è diventato un grande progetto di spettacolo suddiviso in 8 messinscene cui hanno preso parte – vale assolutamente la pena nominarli tutti – i drammaturghi Riccardo Baudino, Martina Folena, Matteo Luoni, Camilla Mattiuzzo, Francesca Merli, Silvia Rigon, Pablo Solari e gli attori Alessandro Bay Rossi, Barbara Chichiarelli, Marta Cortellazzo Wiel, Ludovico Fededegni, Mariasilvia Greco, Christian La Rosa, Leonardo Lidi, Alexis Aliosha Massine, Barbara Mattavelli, Gianpaolo Pasqualino, Federica Rosellini, Andrea Sorrentino, Emanuele Turetta, Isacco Venturini, Ilaria Matilde Vigna, Giuliana Vigogna.

Regia e pedagogia, spettacolo e processi di lavoro si intrecciano sempre più profondamente nel percorso di Latella, che non a caso nel libro-intervista curato da Emanuele Tirelli La misura dell’errore (caracò, 2016) riflette: «la vera pedagogia sta negli spettacoli che hanno concluso il progetto».
E infatti Santa Estasi non sembra certo soltanto la presentazione, il punto di arrivo di un corso di perfezionamento teatrale nel senso convenzionale del termine, quanto piuttosto è una meraviglia straziante e travolgente di “gioco” del teatro (peccato non poter usare l’inglese “to play”) che ha divertito, commosso, spiazzato, fatto riflettere e stuzzicato per circa 15 ore di spettacolo, 2 giorni di maratona teatrale, gli spettatori giunti al Teatro delle Passioni di Modena per il festival Vie. Un “gioco” che attraversa innumerevoli generi di teatro, spaziando fra tragico e comico, lirico e epico, e temi forti e sempre d’attualità (dalla violenza sulle donne alla guerra dei vinti, dal populismo alla rivolta), situandosi − con la scelta stessa dell’Orestea − sul crinale di un tempo di grande cambiamento; ma al cui centro sta al di là di tutto, potente e viva su tutto, la figura dell’attore.

Ifigenia in Aulide (Leonardo Lidi e Ludovico Fededegni)

Ifigenia in Aulide (Leonardo Lidi e Ludovico Fededegni)

Atridi: ritratti di famiglia
Santa Estasi porta il sottotitolo Atridi: otto ritratti di famiglia. La saga, come è noto, ha origine almeno dall’orrendo delitto di Atreo, che uccide i figli del fratello Tieste e glieli offre in pasto. Questi, maledice lui e tutta la stirpe, ed è così che ci troviamo davanti ad altri tremendi omicidi: Ifigenia sacrificata dal padre Agamennone per agevolare la partenza dei Greci per Troia e aiutare così il fratello Menelao, re degli Achei, alla riconquista della moglie Elena, rapita da Paride; Agamennone ucciso per vendetta dalla propria moglie, Clitemnestra, e dall’amante di lei, Egisto − la prima per rendere giustizia del sacrificio della figlia prediletta, il secondo unico nipotino sopravvissuto dell’orrendo pasto preparato da Atreo. I due, entrambi, assassinati dai figli di Agamennone e Clitemnestra, per vendicare l’omicidio del padre: il compito spetta ad Oreste, guidato e sostenuto però dalla ritrovata sorella Elettra. Nei secoli, tanti ne hanno scritto e riscritto: dal mito omerico all’Orestea di Eschilo, agli “spin-off” greci e latini sui singoli personaggi (oltre Eschilo c’è molto, moltissimo Euripide nella maratona-spettacolo); dalla riscoperta rinascimentale al Settecento di Alfieri e Goethe, fino a tutti gli scrittori, pensatori, artisti che fra Otto e Novecento, dentro e fuori i teatri, hanno voluto tornare a confrontarsi con l’intreccio tragico per eccellenza della saga degli Atridi.

Più che politica o storia o teatro questa − come appare spesso in Santa Estasi − è innanzitutto una lacerante vicenda di famiglia: fratello contro fratello, genitori contro figli, mariti contro mogli, in una escalation di violenza che non risparmia nessuno e rispetto a cui − caso per caso − diventa davvero difficile prendere posizione, giudicare, distinguere il bene dal male, il giusto dall’ingiusto, la vendetta personale dal dovere sociale. Non a caso, le sfumature intime, personali, affettive rimangono preponderanti sia nelle scritture che nell’interpretazione attorica di questi “ritratti di famiglia”, mentre l’ambientazione scenografica cambia sì sensibilmente in ciascuno degli 8 spettacoli ma resta incentrata tutto sommato su un grande interno domestico, con tavoli, sedie, poltrone, divani, piatti, stoviglie e servizi da tè, mentre i personaggi spesso fra loro si chiamano “zio”, “mamma”, “papà”. E sono sempre in coppia, a due a due, l’uno specchio fedele e ambiguo dell’altro.
Le vediamo crescere, vacillare, debordare e crollare tutte queste relazioni nella lunga messinscena della maratona di Santa Estasi: nella storia, così come filologia vuole, ma soprattutto nelle modalità in cui gli attori coltivano il rapporto scenico l’uno con l’altro, come interpreti, persone e personaggi, quasi sempre dinnanzi agli occhi del pubblico per tutta la durata del lavoro, anche e soprattutto quando non sono al centro dell’azione che si svolge, primi spettatori partecipi e a vista di quello che sta accadendo in scena.

Agamennone (Coro)

Agamennone (Coro)

Il dominio degli oggetti e la parola che crea
Ogni “ritratto” ha un oggetto-chiave, a cui ruota intorno tutta la messinscena. È un grande cavallo di legno, quasi da giostra, per Elena che racconta la sua versione dei fatti di Troia (impetuoso e trascinante monologo di Barbara Chicchiarelli, in sempre pericolante bilico sulle staffe); una bicicletta per il messaggero che annuncia il ritorno del re in Agamennone; il copione in Oreste, con cui i protagonisti “provano” la scena; il telescopio in Ifigenia in Tauride, oggetto della disputa fra la principessa argiva poi sacerdotessa di Artemide (magnetica la presenza di Federica Rossellini a inizio e fine saga) e il re dei Tauri, Toante (Leonardo Lidi, che emblematicamente è anche Agamennone e prima ancora Atreo). Su tutti, proprio in tema familiare, il tavolo da pranzo: dal piccolo e spoglio desco nei pezzi centrali dedicati agli esuli figli di Agamennone e Clitemnestra (anche un’Elettra), al tavolo del banchetto imbandito e apparecchiato di tutto punto di Ifigenia in Aulide e in Crisotemi, che aprono e chiudono il lavoro e tutta la vicenda di Santa Estasi. Tutti gli oggetti si ritrovano insieme in Eumenidi, che è lo snodo centrale e senza ritorno dell’intera storia, dove arriva il momento per tutti di fare i conti coi propri fantasmi.

Dal singolo oggetto-emblema sembra irradiare lo sviluppo dei vari spettacoli, a livello del senso drammaturgico ma anche dal punto di vista dell’interpretazione, con i 16 bravissimi attori che “giocano” gli elementi scenici preparati da Graziella Pepe e da lì ricostruiscono nel corpo e nella voce la vicenda degli Atridi. C’è poco o nulla nel grande spazio vuoto del Teatro delle Passioni, ma ogni cosa, anche la più piccola, si trasforma in tutto quel che serve grazie all’azione appassionata, lucida e sapiente degli attori.

Elena interpretata dalle diverse attrici

Elena interpretata dalle diverse attrici

C’è poco o nulla oltre la parola: è lei al centro dell’intera saga presentata da Santa Estasi, che drammaturgicamente si potrebbe pensare – semplificando al massimo – come un riuscitissimo tentativo di portare l’epica in teatro. Tutto, infatti, è soprattutto detto, ricordato e raccontato. Fra pochi e significativi oggetti di scena, qualche efficace scelta sonora e puntuali, essenziali azioni e accadimenti, gli 8 “ritratti” sono costruiti per il pubblico soprattutto tramite un fiume ribollente, impetuoso, inarrestabile di testo che – variamente detto e interpretato – fa prendere forma davanti agli occhi del pubblico la piana in Aulide e il palazzo di Argo, templi, stanze e isole, fino agli incontri, scontri, sfide e temibili avventure che popolano la vicenda degli Atridi nelle sue diverse riscritture. Ma non è teatro di testo nel senso tradizionale del termine quello che si fruisce in Santa Estasi e quello cui ci hanno abituato negli anni le regie di Antonio Latella: è una parola viva, una parola-carne, che viene performata nelle diverse tonalità vocali degli attori, sbozzata nelle loro gole, polmoni e pance, plasmata nel corpo che la dice. Fra gli esempi più chiari: le modulazioni acute di Atena nelle Eumenidi (Barbara Mattavelli, anche Cassandra); la trasformazione dell’Oreste di Christian La Rosa, dall’iniziale concerto di glossolalie infantili all’aringa al pubblico al delirio colpevole dopo il matricidio; il vibrante coro delle “Elene” (tutte le 7 attrici di sesso femminile) sul divano di Proteo, una voce unica e molteplice, seducente e rotta, diretta e frantumata in più versioni di sé. Ed è così che il linguaggio scenico di Santa Estasi, nel complesso, è estremamente performativo, per un teatro sì di parola ma che – proprio tramite la sua pronuncia, anche quando non è accompagnata da azione – arriva a sfiorare dinamiche si potrebbe dire da body art. È l’azione creatrice della parola, nient’altro: sul palco, con pochi altri sostegni, nel corpo vivo dell’attore, che materializza, trasforma e riplasma possibilità di immaginazione per lo spettatore.

Sarà questo il senso del titolo, “santa estasi”? O sarà forse da cercare nel tempo lungo, ineguagliabile della maratona, che riunisce di fatto, nel senso più letterale del termine, attori e spettatori, esseri umani, insieme intorno a un’unica esperienza (trasformativa per forza di tempo), che è quella del teatro.

crisotemi

Crisotemi

La vita del teatro
“Da dov’è iniziato tutto?” si chiede Agamennone nel primo spettacolo, Ifigenia in Aulide, fra il Tieste di Seneca e la tragedia di Euripide, come a domandarsi se la responsabilità vada realmente alla maledizione originaria o al suo compimento perpetrato in seguito col sacrificio di Ifigenia: era possibile sottrarsi al destino, spezzare − come dice Clitemnestra − la catena? o le colpe dei padri continueranno a ricadere sui figli? Dove comincia la responsabilità individuale e dove finisce la predestinazione, fino a dove arriva l’influenza del contesto, il volere degli altri?
La verità, lo scopriamo alla fine, è che sono tutti morti, già prima che cominci la storia, che inizi lo spettacolo, che venga scagliata la maledizione degli Atridi. È Crisotemi in qualche modo a rivelarlo: citata ma mai approfondita, dimenticata tanto dagli autori e dai suoi familiari, è l’ultima figlia di Agamennone e Clitemnestra. La ritroviamo alla fine, raffinata padrona di casa di un pranzo andato deserto: al centro di un tavolone ricomposto, apparecchiato e imbandito − lo stesso di Atreo e Tieste − il cerchio si chiude con la più piccola Atride che accoglie ospiti immaginari, conversa coi genitori perduti, si appella ai fratelli che l’hanno abbandonata, racconta la sua versione dei fatti, seguita, origliata e sbirciata da dentro un armadio in cui ha passato tutta la storia.
Sono tutti morti da sempre, fin dall’inizio. Eppure gli attori che hanno dato vita a questi personaggi, intrecci e storie sono parsi presenti, vivi, vivissimi. Sarà stato come dice a un certo punto Oreste: in un’epoca in cui tutto sta cadendo a pezzi e c’è bisogno di inventarsi nuove regole che sostituiscano le vecchie, occorre grande coraggio e − oggi come allora − di immaginare cose grazie al racconto, azione che spronerebbe a trasformare la propria realtà. “Cosa può fare” si chiede il principe argivo “una stanza piena di persone che immaginano cose che non esistono?”, come accade − proprio in quel momento − in teatro, sia in scena che in platea. Può capitare addirittura di immaginarsi tutta la storia di Troia e di Argo, di nobili e dei, fanciulle sacrificate e fanciulle ribelli, amori e odii perpetui, battaglie, conquiste e vendette vecchie di 2000 anni. Può capitare alla fine di credere ancora al senso e alla potenza del teatro. Ma nulla sarebbe stato possibile senza il supporto magnificamente generoso, travolgente, intimo e aperto del lavoro degli attori di Santa Estasi, che sono il protagonista vero e ultimo, come persone e come soggetti drammatici, dell’intero lavoro di messinscena.

Visto al Teatro delle Passioni, Modena

Roberta Ferraresi

Tutte le foto sono di Brunella Giolivo

Da Eduardo al teatro, e ritorno. Incontro pubblico con Antonio Latella

Il 3 dicembre ha debuttato al Teatro Argentina Natale in casa Cupiello, uno spettacolo prodotto dal Teatro di Roma che vede la regia di Antonio Latella confrontarsi col celebre testo di Eduardo De Filippo (in scena fino al 3 gennaio). Il giorno seguente, giovedì 4 dicembre, dopo la replica pomeridiana dello spettacolo, il regista incontra il pubblico nella Sala Squarzina dell’Argentina, con l’introduzione del direttore del Teatro di Roma, Antonio Calbi, e l’accompagnamento di Roberta Ferraresi.
Riportiamo sul Tamburo le parole di quella conversazione pubblica, per avvicinare l’ultima opera di Antonio Latella e, attraverso questa, il suo teatro.

foto di Brunella Giolivo

foto di Brunella Giolivo

Uno dei maggiori artisti del teatro italiano, spesso al lavoro anche sulle scene internazionali, Latella è autore di spettacoli radicali, che non si sottraggono – come in questo caso – al confronto con i grandi classici del teatro. Portatore di un pensiero teatrale di ampio respiro che si esprime – oltre che negli spettacoli – in un’operatività culturale a tutto tondo: dopo aver diretto il Nuovo Teatro Nuovo di Napoli nella stagione 2010/2011, il regista ha fondato una compagnia indipendente, stabilemobile. I caratteri e le linee di forza di questo progetto si possono forse descrivere propriamente attraverso il nome: è un ensemble costruito su forme di collaborazione stabili, di lunga durata e articolazione, ma che rivendica l’opportunità della mobilità, organizzandosi secondo le esigenze specifiche dei progetti che via via si vanno ad attivare.
L’occasione, nell’incontro pubblico all’Argentina, è quella di compiere un percorso a partire dal recente incontro con Eduardo De Filippo e dal suo Natale in casa Cupiello, per provare a scoprire il modo di lavorare e di fare regia di Latella e, infine, più in generale, il suo approccio al teatro.

In numerose interviste che hanno preceduto il debutto, ha dichiarato che si è avvicinato a Eduardo “come a uno sconosciuto”, mentre nel libretto di sala dello spettacolo, Linda Dalisi, la sua drammaturga, descrive il metodo di lavoro come prossimo a quello del detective, come un’investigazione a caccia di indizi fra la vita e l’opera dell’artista. Come funziona questa prima fase di ricerca drammaturgica? E che cosa avete scoperto?

Francesco Manetti (Luca Cupiello) e Monica Piseddu (sua moglie Concetta) - foto di Brunella Giolivo

Francesco Manetti (Luca Cupiello) e Monica Piseddu (sua moglie Concetta) – foto di Brunella Giolivo

Ho iniziato a studiare Eduardo come se mi stessi avvicinando a qualcuno che conosco, facendo finta in quel momento di non conoscerlo affatto… penso che solo così sia possibile mettersi nella condizione di conoscere qualcuno veramente.
La scorsa estate, alla Biennale di Venezia, mi è capitata una questione che mi ha suggerito come lavorare: si parlava spesso di “uccidere i propri padri”. Così mi sono chiesto: uccidi qualcuno che conosci veramente o non lo conosci affatto? E perché occorre uccidere un padre? Le strade che si aprono sono molte: pensare di uccidere il proprio padre è qualcosa di orribile, però allo stesso tempo può capitare che sia il padre ad uccidere il figlio, per aiutarlo ad andare; ed è vero anche il contrario: si uccide il proprio padre magari per troppo amore, per liberarlo dall’ossessione del quotidiano e del presente, da questa finta famiglia, per lasciarlo andare in altri luoghi. Liberando il padre, si libera anche se stessi – e questo, secondo me, è un gesto fertile.

È stata Linda Dalisi ad inventare la figura del detective. Non potevamo non tracciare un legame fra questo testo e la biografia di Eduardo, perché Natale in casa Cupiello riguarda troppo da vicino la sua famiglia. Ogni giorno incontravamo qualcosa di nuovo della sua vita, eravamo felici ad ogni scoperta, man mano che le cose cominciavano a tornare. Questo, ci ha permesso come di entrare in una famiglia e, così, gli attori hanno potuto costruire dei rapporti senza doverli inventare, ma appoggiandosi a qualcosa di concreto… era come guardare le fotografie di un album di famiglia e, grazie ad esse, trovare un punto di ispirazione per il proprio lavoro.

Ad ogni incontro con un nuovo autore, cambia il modo di lavorare, non può essere lo stesso. Ciò crea le condizioni per aprire la propria testa e anche, eventualmente, per perdersi. Ma questa possibilità si realizza solo quando hai una squadra che ti rende sicuro: è un “grande tuffo” che si può fare soltanto se sai che c’è qualcuno che ti aiuterà a “tornare a galla”. Così, devo ringraziare stabilemobile – il gruppo che mi accompagna –, ma anche gli attori di questo spettacolo, che – devo dire – sono un ensemble davvero straordinario.

Monica Piseddu (Concetta Cupiello) - foto di Brunella Giolivo

Monica Piseddu (Concetta Cupiello) – foto di Brunella Giolivo

Un elemento cardine del suo lavoro in teatro si può forse trovare nel rapporto con la tradizione, come abbiamo visto con Goldoni o Shakespeare. Per descrivere il suo approccio a Eduardo, però, ha preferito in diverse occasioni usare piuttosto il termine “eredità”. Qual è, a suo avviso, l’eredità che ci ha lasciato De Filippo?
L’eredità è qualcosa di diverso dalla tradizione.
Quando si sente parlare tanto di tornare al teatro tradizionale, credo ci sia un equivoco: come dice Eduardo, la tradizione è un trampolino per andare verso il domani, si tratta di utilizzarla per andare verso il futuro, non per rifare qualcosa che è già stato fatto, come spesso capita. C’è da dire, fra l’altro, che spesso è già stato fatto meglio: non potrei mai fare uno spettacolo come Eduardo, perché l’ha già fatto talmente bene lui, la sua voce è ancora presente, così come la sua capacità di impegnarsi sulle parole, di perdersi… è tutto lì, dietro l’angolo – e sarebbe assurdo cercare di farne una “cartolina”.

Senza dubbio, la tradizione è qualcosa di cui si dovrebbe andare fieri. Ma l’eredità, secondo me, è qualcosa di diverso. Anche perché stiamo parlando di autori – Eduardo De Filippo, ma non solo – che hanno rischiato continuamente per mantenere vivo il teatro e il senso di fare teatro. Al loro tempo, non erano tradizione, ma contemporanei; e credo che questo dato della contemporaneità sia importantissimo per affrontarli.

Studiando Eduardo, ho sentito che aveva un incredibile coraggio, nel senso – lo chiamerei – del “punto e basta”: metto un punto e vado a capo, e ricomincio. L’ha fatto con il teatro napoletano: ha messo un punto alla sceneggiata, a un modo di fare teatro, per trovarne un altro, uno nuovo. E lo racconta. In questo testo, vuole fare un presepe nuovo, con le casette del Novecento o l’acqua che scorre, un presepe che parli di noi. È ovviamente una metafora del teatro, e lo è soprattutto alla luce del rapporto padre-figlio. C’è un figlio a cui il presepe non piace, che lo rifiuta; ma il padre, di fronte a questa negazione, trova ogni anno un modo per rendere il presepe più contemporaneo (appunto, dall’aggiungere l’acqua “vera” alle marionette), per cercare di stare di più dalla parte del figlio. Ma, alla fine, nel momento in cui questi dirà “sì, mi piace il presepe”, ucciderà il padre; o, meglio, lo libererà dal compito di trovare un suo testimone, il suo erede. E allora il figlio è pronto per cominciare a fare il proprio presepe.

foto di Brunella Giolivo

foto di Brunella Giolivo

Natale in casa Cupiello è un testo che si è sviluppato tramite una genesi particolare: Eduardo ha scritto una prima parte (quella che oggi corrisponde al secondo atto) nel ’31, per poi aggiungere il primo atto nel ’32 e, diversi anni dopo, la terza e ultima parte. I tre atti, nello spettacolo, utilizzano registri e linguaggi molto diversi. Queste differenze possono in qualche modo coincidere con la vicenda artistica e biografica dell’artista, visto che avete lavorato molto su questo piano?
Credo di sì, ma questo è il punto di domanda meraviglioso per affrontare questo autore e questo testo. Quando scrisse il secondo atto, nel ’31, ci si trovava in quel particolare momento storico in cui il teatro si faceva dopo un film: dopo la proiezione, il pubblico rimaneva in sala, si alzava lo schermo e gli attori rappresentavano un pezzo di teatro. Quindi bisognava essere bravi, seduttivi, ironici; era molto varietà, perché soprattutto bisognava “tenere” il pubblico.

Qui c’è la spinta che mi ha mosso verso questo testo: perché un autore ha sentito il bisogno di continuare a scrivere qualcosa che funzionava ed era già in sé compiuto? Perché, negli anni, ha avuto la necessità di aggiungere la prima parte e, poi, molto tempo dopo di scrivere quella finale? Questa ossessione l’ho trovata qualcosa di meraviglioso. È come se volesse prendere le distanze da quel secondo atto, per dichiarare che era nato in un certo contesto storico, in cui per lui c’erano alcuni obiettivi di primaria importanza, ma per dire anche che è altro da quello, che è un autore diverso. Questo cercarsi fra il primo e il terzo atto, per me, è stata una spinta di curiosità, nell’affrontare Natale in casa Cupiello.

Nel suo lavoro, l’incontro con i classici è qualcosa che ritorna e, anche qui con Eduardo, ci troviamo di fronte a un’operazione drammaturgico-registica rigorosissima, che lascia piuttosto intatta la dimensione testuale e però allo stesso tempo sembra riscriverla completamente, dal punto di vista attoriale, visivo, scenico. Che rapporto c’è, secondo lei, fra testo e immagine? E come lo costruisce, come ci lavorate?
Anche in questo caso, spesso lo suggerisce lo studio dell’autore: mentre studi, arrivano delle immagini, perché magari lui parla di musica o di pittura, e allora riesci ad entrare nel suo grande immaginario. Questa è una delle possibilità, altre volte non è così. Per me, la riscrittura scenica è fondamentale e l’ossessione per la regia qualcosa di davvero importante: non è difficile fare regia, quello che è difficile è continuare a studiarla, mettendosi nella condizione di indagarla, farti lo sgambetto, per scoprire cosa ti muove oltre te e non rifare sempre la stessa cosa. È come fare il presepe: cerchi di farlo in modo diverso, non per essere alternativo per forza, ma per scoprire qualcosa di nuovo di te. E questo ti fa sentire vivo, stabile e mobile allo stesso tempo: in movimento continuo nella stabilità della tua ricerca.

Chi conosce il mio lavoro sa che non amo il realismo. Credo che oggi – come ha detto Heiner Müller, maestro che ha cambiato il teatro del Novecento europeo – non abbia senso vedere una stanza finta su un palcoscenico. Forse ha più senso tornare a Shakespeare, che dice chiaramente “siamo in una stanza finta”, e tutti ci crediamo. Questa è la magia del teatro, è la possibilità del teatro.
Tolto dal realismo, questo testo diventa epico, si trasforma in qualcosa che riguarda veramente tutti, si mostra come la famiglia di tutti.

foto di Brunella Giolivo

foto di Brunella Giolivo

Questo tipo di approccio ai grandi classici del teatro occidentale ha dato vita a spettacoli che hanno avuto un certo impatto sul pubblico. Qual è la sua idea di rapporto con lo spettatore? Cosa vuole che arrivi, cosa desidera che accada in platea?
Sono un regista che pensa molto al pubblico: mentre lavoro non smetto mai di pensare che ci sarà lo spettatore, ed è qualcosa che in qualche modo velato dico anche all’attore. Considero il pubblico la possibilità performativa del teatro, perché è la sua presenza che cambia ogni volta, ogni sera il teatro.
Quello che oggi mi interessa a riguardo – e mi piacerebbe interessasse anche i direttori artistici – è che bisognerebbe avere il coraggio di mettere il pubblico nella condizione di potersi schierare: non dire se un lavoro è bello o brutto, ma se sto da questa parte o non ci sto, se sto insieme ai nuovi linguaggi o preferisco rimanere vicino a quelli che conosco; mettere lo spettatore a confronto con quei nuovi linguaggi, anche per poter dire “no, non mi interessano”. Questo significa prendere una posizione. Penso a un pubblico che si schiera, nel bene e nel male – anche un pubblico che va via, chapeau, perché prende posizione rispetto a quello che vede. Per fare questo, però, un direttore deve avere il coraggio di rischiare di perdere qualche abbonato e però magari essere contento di trovare un nuovo pubblico.

Oltre al confronto coi classici, il suo lavoro di recente si è concentrato più ampiamente sui canoni stessi della nostra cultura e società – dalla nascita degli Stati Uniti con Via col vento (un romanzo e un film), all’American Dream del boom, fino all’ultimo percorso all’interno dei totalitarismi europei (da A.H. alle Benevole, romanzo di Jonathan Littell). Come si inserisce l’incontro con Eduardo in questo contesto?
Forse Eduardo apre un nuovo percorso, credo di averlo scoperto in questo periodo: quello del rapporto con l’eredità e quindi della relazione padre-figlio. Penso che in futuro lavorerò su questo, su testi che trattano questo argomento.

Veniamo quindi al tema della famiglia. Il testo sembra lavorare piuttosto esplicitamente su alcuni mutamenti epocali in corso nei tempi in cui è stato scritto: il passaggio da una società e da un modello di famiglia patriarcale, contadina, autoritaria, alla modernità urbana in cui i figli si ribellano ai propri padri. A suo avviso, che rapporto c’è fra teatro e realtà? Si tratta di rispecchiamento, testimonianza, oppure l’arte può incidere sul mondo che la circonda?

foto di Brunella Giolivo

foto di Brunella Giolivo

I nostri padri parlano molto di noi, della nostra realtà. Così, credo che forse, oggi, noi stiamo parlando di quella dei nostri figli. C’è uno spostamento. Spesso, i testi teatrali che parlano dell’oggi spesso perdono la potenza classica e quindi non hanno questa forza. Per esempio, ogni volta che leggo un nuovo testo, mi chiedo come sarà fra cinquant’anni e capisco se il testo funziona o no, se è giusto per questo momento o se avrà una storia anche domani o dopodomani. C’è una differenza. E questa differenza è la classicità, un parola che ci fa tanta paura, ma è la potenza di un testo, anche quando è contemporaneo: essere classico, cioè avere la capacità di affrontare argomenti che ci toccheranno comunque e sempre. Questo credo abbia a che fare con la realtà.

In questa conversazione abbiamo potuto cogliere alcuni indizi di un modo di approcciarsi al teatro e di lavorare, di un’idea e di una pratica della scena che si lega alla creazione degli spettacoli, ma si sviluppa anche in direzioni più ampie. Ha diretto un teatro e ha fondato poi una compagnia indipendente, per cui vorrei infine chiederle quale ruolo, a suo avviso, ha o potrebbe avere il teatro nella nostra società, cosa potrebbe fare un teatro nel nostro tempo.
Tante cose. Questa domanda apre a molte risposte possibili. Probabilmente, quello che in Germania si definisce Volksbühne: ridare il teatro al popolo, ma in tutti i sensi, non solo a una fetta di popolo. Il teatro dovrebbe essere una vera piazza d’incontro, perché è l’unica possibilità che abbiamo. Andare a teatro significa fare una scelta: scelgo, pago un biglietto e vado a vedere qualcosa e a sentire delle parole, mi regalo del tempo. Per questo motivo, bisogna avere rispetto di tutto il popolo, anche di chi non va a teatro, e metterlo in condizione di capire che lì ci sarebbe un posto anche per lui, se ci volesse provare.

Incontro pubblico e trascrizione a cura di Roberta Ferraresi

Per approfondimenti sul teatro di Antonio Latella:

Intervista ad Antonio Latella, da MEIN HERZ, edizione 2013 di Drodesera, dove ha debuttato A.H. (di Elena Conti e Roberta Ferraresi) >>>leggi l’intervista>>>

Francamente me ne infischio di Latella, o dell’euforia infelice
 >>> leggi la recensione di Nicoletta Lupia>>>

Tra Molière e Frisch c’è Latella (una recensione di Don Giovanni, a cenar teco di Carlotta Tringali) >>> leggi l’articolo>>>

Il Tram di Latella: realtà, finzione e America >>> leggi la recensione di Roberta Ferraresi >>>

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