biennale teatro 2012

Un bilancio del Laboratorio Internazionale del Teatro 2012

Intervista a Àlex Rigola

Ultimo giorno del Laboratorio Internazionale del Teatro 2012, che ha richiamato a Venezia per una settimana giovani artisti e aspiranti attori, registi, drammaturghi da diversi Paesi d’Europa. Incontriamo il direttore, Àlex Rigola, per un bilancio conclusivo e un confronto su quest’esperienza. Cominciamo l’intervista ponendo le domande che, lungo tutta la settimana, abbiamo rivolto agli allievi dei laboratori, per proseguire poi verso le idee e le spinte che da questo campus ormai alla fine, portano già verso gli orizzonti del festival 2013.

La prima domanda che abbiamo posto ai laboratoristi è: qual è lo spettacolo che le ha cambiato la vita?
I sette rami del fiume Ota
di Robert Lepage, Shopping & Fucking di Thomas Ostermeier, Je suis sang di Jan Fabre… che altro? Mi è piaciuto molto uno degli spettacoli che abbiamo portato in Biennale l’anno scorso: Isabella’s room di Jan Lauwers. Poi tutti i Dostoevskij di Frank Castorf con Martin Wuttke; il suo Maestro e Margherita e i Demoni, davvero un grandissimo spettacolo.
L’ultimo lavoro che mi ha colpito è un’altra versione del Maestro e Margherita, diretta da Simon McBurney.
Un artista che vorrei portare a Venezia è Sidi Larbi. Penso a Foi, un’opera danzata su musica medievale che mi è piaciuta davvero molto. Oppure a D’avant, che coinvolgeva il Ballet C de la B, assieme alla Schaubühne e alla compagnia di Sasha Waltz.
Sempre di Sasha Waltz ricordo Körper… ma anche la compagnia di Pina Bausch… Gli spettacoli che mi hanno cambiato sono così tanti che potrebbero non finire mai!

E, invece, il suo spettacolo che le ha cambiato la vita?
Il peggiore! Perché nel momento in cui tutto funziona alla perfezione non c’è mai molto da discutere; ma quando – dopo aver lavorato tanto, come cinque mesi dieci-dodici ore al giorno fino a notte fonda – qualcosa non va, c’è molto da ragionare.
A parte questo, lo spettacolo che mi è piaciuto di più fra quelli che ho diretto è sicuramente 2666, uno lavoro un po’ lungo – ben cinque ore di rappresentazione! – che in realtà si componeva di cinque pezzi diversi. Ognuno di essi si muoveva fra varie forme sceniche (dalla conferenza al cinema noir, dalla narrazione alla visualità), ciascuna delle quali rappresenta un frammento di quello che so fare sul palcoscenico.

La seconda domanda riguarda direttamente i laboratori di questa Biennale: fra “costi e ricavi”, chiediamo di fare un bilancio dell’edizione 2012.
Cos’ho guadagnato? Sicuramente la felicità. Ad esempio i due open doors di questa sera (dai laboratori di Gabriela Carrizo e Claudio Tolcachir, ndr) mi hanno reso molto felice: non tanto perché quello che hanno mostrato fosse bello o interessante – in effetti lo era – ma per il rapporto che hanno mantenuto con il percorso di lavoro che si è sviluppato in questi giorni. Perché abbiamo voluto presentare degli open doors alla fine dei workshop? Certo non per vedere degli spettacoli: queste dimostrazioni non erano come i 7 peccati, la serie di micro-show itinerante che ha concluso la Biennale 2011; piuttosto rappresentano, per gli altri allievi dei laboratori, la possibilità di conoscere altri modi di lavorare e pensare il teatro. Per fare un esempio legato alla serata di oggi: magari ci sono persone che lavorano nella danza e sanno poco di un teatro di parola o di personaggio come quello argentino di Claudio Tolcachir; o invece attori che frequentano quest’ultimo genere, forse, non conoscono bene il teatro-danza di Peeping Tom. Vedere come lavorano gli altri, incontrare idee e metodi diversi può aprire un nuovo cammino. Credo che questa trasversalità rappresenti una risorsa molto importante perché può scuotere le convinzioni e “aprirti la testa”.
Così mi chiedo: cosa succederebbe se, per un giorno alla settimana, potessimo cambiare i nostri maestri e provare qualcosa di totalmente diverso? Credo potrebbe essere un’esperienza fondante: una specie di “pausa” dal proprio lavoro, in cui il cervello si sposta per andare a incontrare un altro percorso e poi, il giorno successivo, torna rinnovato dal maestro e dal teatro che ha scelto. Credo che l’esperienza di oggi abbia saputo raccontare davvero molto bene quello che ho provato a fare qui con il Laboratorio di arte scenica della Biennale.

L’ultima domanda che abbiamo posto in questi giorni agli allievi dei laboratori: che senso ha, secondo lei, fare teatro in questi tempi di crisi?
…che sia troppo tardi per iniziare una nuova carriera?! (ride)
Ora tutto è peggiorato, ma non penso di essere cambiato molto rispetto a due anni fa, sono sempre ugualmente critico. Penso che, facendo regia, il mio lavoro possa essere quello di indagare – anche se solo parzialmente – la psicologia umana e di vedere un po’ come va il mondo. Non ho soluzioni: non sono uno statista, un economista o un filosofo, posso solo raccontare quello che mi accade intorno ogni giorno.
Credo che nessun artista pensi al senso di quello che fa mentre lo fa: fa arte perché gli piace.
Tuttavia, mi è capitato spesso di pormi questa domanda e, pur credendo che non ci sia una risposta precisa o necessaria, sono giunto alla conclusione che facciamo teatro per sapere qualcosa in più su noi stessi. Penso sia questo il senso ultimo dell’arte scenica, anche dal punto di vista degli spettatori: andiamo a teatro per conoscere qualcosa in più sull’essere umano. Ma perché vogliamo sapere così tanto, e sempre di più, su noi stessi? Forse questa è la vera domanda. Risponderei che l’obiettivo è quello di migliorarci, ma non so se sia vero o no.
Torniamo alle dimostrazioni dei laboratori che abbiamo visto questa sera: il lavoro di Gabriela Carrizo e di Claudio Tolcachir sono molto diversi, così come lo sono state le due presentazioni. Ma, nonostante si sviluppassero a partire da percorsi profondamente differenti, c’era qualcosa in più che le metteva in comunicazione, qualcosa che non veniva spiegato o raccontato e l’immaginazione di ognuno di noi, su queste basi, ha potuto seguire ipotesi e percorsi completamente diversi. È la stessa ragione per cui, ad esempio, la drammaturgia shakespeariana funziona benissimo anche oggi, dopo secoli e secoli: non è una forma chiusa e nelle sue aperture credo risieda tutta la sua potenziale universalità. Ognuno può dare un proprio significato a ciò che vede, ma c’è sempre un background da condividere, che credo sia quello dell’indagine sulla condizione umana. E penso che ciò possa valere tanto per il teatro di testo – che in questi anni sta svolgendo un lavoro capace di andare ben oltre la parola – che per l’opera più astratta. In un modo o nell’altro, alla fine, stiamo sempre parlando di noi stessi… Siamo molto “egoisti”… Per questo penso e mi auguro che l’obiettivo sia quello di renderci un po’ migliori.

In questi giorni, alle prese con idee e modi di fare teatro così differenti, ci siamo interrogati molto sulle forme dell’arte scenica. Secondo lei, anche per quanto riguarda i metodi presentati dai maestri invitati in questi anni alla Biennale, cos’è tradizione e cosa invece significa sperimentare?
Non penso ci sia una regola fissa. Credo fermamente che il teatro lavori su una forma di comunicazione diretta e immediata, in cui non c’è la parola “domani” né esiste un “ieri”: è solo adesso, è oggi. Se con la pittura o con il cinema si creano opere che possono rimanere, in teatro invece la dimensione può essere soltanto quella diretta, viva. Le forme, poi, sono tante: c’è chi proviene da una tradizione specifica, ma sono molti gli artisti che magari non hanno alcun rapporto col teatro classico; ci sono spettacoli più vicini alle arti visive che alla tradizione teatrale, a Rothko più che a Goldoni.
E, allora, c’è bisogno della tradizione? È più importante la sperimentazione? Qualche volta si, qualche volta no – l’importante, in entrambi i casi, è non viverlo come un obbligo.

Forse i tempi non rendono ancora possibile chiederle qualche anticipazione sulla prossima Biennale, ma possiamo almeno domandare se ha già qualche desiderio, speranza o augurio per l’edizione 2013?
Avere sempre più partecipanti! E, naturalmente, un festival più lungo. Mi auguro di non perdere il senso del campus di arte scenica, dell’incontro e della condivisione, così come l’abbiamo vissuto quest’anno.
Ma posso dare anche una piccola anticipazione: ci sarà un lavoro trasversale di carattere laboratoriale che, assieme ai diversi spettacoli, percorrerà tutto il festival e, come nel 2011, avrà un esito conclusivo unitario. Stiamo pensando a una tematica su cui si concentreranno, ognuno a proprio modo, diversi micro-show: il centro verso cui convergeranno sarà un diverso personaggio di un artista che, oggi come ieri, è sempre stato molto vicino a Venezia e al Veneto, William Shakespeare.

 

Voci dalla Biennale 2012

Il Laboratorio Internazionale del Teatro 2012 ha chiamato a raccolta tanti giovani artisti; danzatori, attori, registi e autori che per una settimana hanno preso parte ad uno dei workshop dei cinque maestri di questa edizione. Abbiamo incontrato alcuni di loro, veri protagonisti del “campus” veneziano.

Elena Vanni. 36 anni. Salò/Roma. Attrice, autrice e regista. Laboratorio di drammaturgia condotto da Neil LaBute

Qual è lo spettacolo che ti ha cambiato la vita?
Sicuramente 32 rue Vandenbranden di Peeping Tom! Quando ho inviato alla Biennale Teatro la richiesta di adesione ai laboratori, la mia preferenza era rivolta al lavoro di Gabriela Carrizo, seguita da Neil LaBute. Alla fine, sono stata selezionata per prendere parte al wokshop del drammaturgo americano e ne sono molto contenta, anche se inizialmente speravo di trovarmi qui, a Venezia, per partecipare al workshop di Carrizo.  Il ricordo di 32 rue Vandenbranden è comunque rimasto molto forte in me, tanto che mi è capitato anche di sognarlo. È un lavoro veramente bello sulla surrealtà, su ciò che ti immagini e su ciò che credi.

Costi /ricavi: un bilancio di questo laboratorio e in generale dei laboratori
Ho deciso di partecipare a questo laboratorio a Venezia perché era economico e non venivo da tanti anni in questa città. Non seguo più i seminari a pagamento, lo trovo assurdo, a meno che non siano esperienze a cui tengo molto. A un certo punto cambia la prospettiva e devi trovare la maniera di lavorare: se hai qualcosa da dire, da trasmettere, puoi decidere di condurre dei tuoi laboratori. A meno che non ci sia la possibilità di seguire un percorso continuativo con un maestro, un laboratorio di soli dieci giorni, persa la bellezza del vissuto, ti lascia un vuoto totale ed è difficilissimo prendere veramente del materiale da una simile esperienza.
C’è un’ulteriore, terribile, realtà da sottolineare: accade ultimamente che vengano organizzati dei seminari a pagamento in vista di una produzione. È una dicitura di sola facciata, alla fine verranno prese le solite persone: si tratta di una situazione che mi fa arrabbiare tantissimo. Serve solo per prendere delle idee dagli attori che lavorano gratuitamente, anzi, pagando! È ipocrisia. Mi sembra molto bello che un maestro trasmetta delle conoscenze a un allievo e che ci sia anche uno scambio lavorativo tra i due, ma se il laboratorio viene indicato come “seminario per nuova produzione”, questo diviene solo uno specchietto per allodole, un’operazione folle che si prende gioco della disperazione dell’attore disoccupato. Allo stesso tempo, è altrettanto folle chi sceglie di partecipare a quei workshop.

Che senso ha fare teatro in questi tempi di crisi?
Me lo sto chiedendo e in realtà questa domanda ha fortemente modificato anche il mio modo di lavorare, interrogandomi maggiormente sul pubblico. Penso all’ultimo lavoro fatto con la mia compagnia (A.R.E.M. Agenzia recupero eventi mancanti, ndr): qui abbiamo cercato di creare non uno spettacolo chiuso su se stesso ma piuttosto una scatola, un format che cambi a seconda del pubblico. Questo spettacolo ci ha fatto riflettere sulle persone che sarebbero venute a vederlo: il panorama teatrale offre un’infinità di titoli che nessuno ha visto o che vedrà, allora proviamo a proporre e presentare qualcosa di nuovo, magari di più interattivo.
Qual è il senso di tutto ciò? Me lo sto chiedendo e credo che la risposta venga dagli attori stessi e dal loro continuare a fare teatro.

Continua a leggere gli articoli del Laboratorio teorico/pratico di Critica teatrale a cura di Andrea Porcheddu sul sito della Biennale Teatro…

Atmosfere beckettiane al Conservatorio

prove di Swimming B – Conservatorio Benedetto Marcello

Tra i gruppi chiamati da Àlex Rigola a partecipare al progetto delle Residenze di questa edizione della Biennale Teatro, la compagnia costituita da Carlota Ferrer, Nicolas Wan Park, Francesca Tasini e Emmanuelle Moreau è ospitata nella luminosa Sala Prove del Conservatorio “Benedetto Marcello”. Abbiamo incontrato il gruppo (nato dal laboratorio di Jan Lauwers nel 2010), a Venezia per lavorare su un progetto liberamente ispirato a Beckett: Swimming B.

Incontro con Carlota Ferrer e Nicolas Wan Park

Come si è formato il gruppo e come avete lavorato finora?
Carlota: Abbiamo lavorato insieme due anni fa con Jan Lauwers e, nel corso del laboratorio, io e Nicolas ci siamo resi conto che avevamo molti interessi in comune, parlavamo già di Beckett. In quel momento abbiamo capito che ci sarebbe piaciuto, un giorno, formare una compagnia, a Parigi o in Spagna… L’opportunità è arrivata quando Àlex Rigola ha chiesto se qualche ex-laboratorista si fosse costituito in gruppo e io, coordinandomi con Nicolas, Francesca e Emmanuelle, gli ho inviato il progetto.

C’è un percorso di continuità tra l’esperienza fatta con Jan Lauwers e il progetto sul quale state lavorando?
Carlota: Credo che il progetto dei laboratori alla Biennale Teatro sia stupendo. Tutto il gruppo che ha lavorato con il maestro a Venezia è rimasto influenzato dal suo linguaggio. La modalità che seguiamo nella creazione di Swimming B si avvicina al modo di lavorare di Jan Lauwers: un continuo work-in-progress che si basa sulle proposte differenti degli attori.
Nicolas: Ognuno di noi era – ed è – attento a cercare nuovo materiale: dalla danza alla musica, fino alla scrittura e all’uso di testi. Con Lauwers abbiamo avuto l’opportunità di svolgere una ricerca personale, un’indagine sul materiale che sarebbe stato in seguito mostrato agli altri. Ciò che andava bene veniva utilizzato, il resto accantonato. Adesso facciamo lo stesso: ognuno presenta le proprie proposte e su quelle proviamo. Possono esserci cose sulle quali lavorare subito, altre da riprendere in un momento successivo.

State sviluppando questo tipo di ricerca anche al di fuori dell’esperienza veneziana?
Carlota: Sì: ho intrapreso questa ricerca a Madrid, con una regista che si chiama Ana Vallés (direttore del Matarile Teatro di Santiago de Compostela, ndr). È un modo di lavorare che mi piace molto e vorrei continuare a seguire questa direzione perché, nella mia esperienza in teatro e danza, non è stato sempre possibile portare in palcoscenico qualcosa di personale. È un percorso diverso in cui possono nascere proposte non limitate a testi shakespeariani, dove un regista dà indicazioni specifiche sul lavoro e dice come muoverti o che intonazione dare.
Nicolas: Anche io sto portando avanti questa ricerca con un’altra compagnia, con degli amici a Parigi. È forse per la condivisione di queste vibrazioni e gusti che, io e Carlota, ci siamo incontrati nel percorso laboratoriale. Ognuno ha una propria competenza, la mette a disposizione degli altri e ne scaturiscono nuove idee. Carlota ha cento idee al minuto! Lo stesso vale per Francesca e Emmanuelle. È molto interessante questo processo perché vengono messe in gioco tante energie differenti. Allo stesso tempo ci sono anche difficoltà; accade a volte che non si riesca a trovare facilmente un punto d’incontro, ma anche il non essere sempre sulla stessa vibrazione è interessante.

Nella presentazione di Swimming B si parla di a no-place place. Che vuol dire arrivare a Venezia e lavorare nella Sala Prove del Conservatorio?
Nicolas: L’anno scorso abbiamo lavorato con Jan Lauwers alla Sala Concerti; è bellissima ma è molto “pesante”. La Sala Prove è più neutrale e anche un po’ beckettiana: è accaduto che, mentre stavamo provando, dalla finestra abbiamo visto una nave passare. È surreale!
Carlota: Nella sinossi si legge no-lugar lugar perché in tutte le opere di Beckett è presente un luogo in cui non c’è paradiso e inferno; i personaggi sono chiusi in un piccolo spazio in cui non succede niente. La performance è ambientata in una stazione ferroviaria in cui però non arrivano, non si fermano e non partono treni. In questo senso i soggetti sono chiusi in uno spazio che è reale e irreale allo stesso tempo; è questo il contrasto a cui stiamo lavorando.
Nicolas: La co-presenza di illusione e realtà in una stazione…
Carlota: Non sai se i personaggi sono vivi o morti, o se sono vivi in una stazione morta. È come se gli attori fossero destinati a fare la stessa cosa ogni giorno, recitando la solita parte.
Nicolas: Nel lavoro c’è una circolarità, si ricomincia ogni volta, senza fine.
Carlota: In Swimming B. non ci sono testi di Beckett: sono presenti solo quattro o cinque battute, pronunciate da Nicolas. Beckett è una suggestione per noi, abbiamo colto alcune cose dalle sue opere, come da Not I e da Waiting for Godot, ma Nicolas non è né Vladimir né Estragon. Abbiamo preso alcuni elementi dall’universo dei suoi personaggi, ma non è più Beckett, ovviamente.
In questo momento il testo non è la cosa più importante del lavoro perché non abbiamo avuto tempo di soffermarci su questo, considerando inoltre che comunichiamo in quattro lingue differenti (inglese, spagnolo, francese, italiano, ndr). Ma nello sviluppo della performance ci piacerebbe chiamare qualcuno a curare la drammaturgia.

Trovate positivo il fatto che ci sia una presentazione pubblica al termine di questa residenza?
Nicolas: Sì, questo è molto importante perché ci restituisce come un’impronta, un’impressione del lavoro.
Carlota: Solitamente, dopo una sola settimana di lavoro, si ha molta paura dell’incontro con il pubblico, ma credo che in questo caso sia importante capire qual è il feeling che si instaura. Gli spettatori sanno che non è uno spettacolo, conoscono la situazione ed è straordinario sentire la loro risposta rispetto a quello che è un work-in-progress.

 

 

Riscaldamento e improvvisazione: il secondo giorno di workshop di Gabriela Carrizo

Laboratorio di Gabriela Carrizo, Padiglione delle Capriate, Fondazione Cini

Al Padiglione delle Capriate, in Fondazione Cini, c’è un piacevole silenzio arricchito dalla luce intensa e calda che penetra dalle grandi finestre. È ancora mattina e ogni azione è rallentata.
Gabriela Carrizo, al secondo giorno di laboratorio alla Biennale Teatro, lascia che ognuno degli allievi si prenda il tempo per risvegliare il proprio corpo e non solo. Anche se potrebbe dirsi indefinibile l’attimo in cui il riscaldamento può dichiararsi concluso, per Carrizo non sembra valere lo stesso, segue il suo stato fisico ma ascolta – e osserva – attentamente anche le necessità dei presenti.
«Not fast», ricorda la coreografa ai ragazzi; è importante avere stabilità e estensione del corpo prima di sviluppare un gesto. Dalle azioni indagate nel corso del riscaldamento, Carrizo chiede di sceglierne una e portarla avanti in tre variazioni ma senza limitarsi al conosciuto: «provare, forzare il limite». Questo è il modo per entrare dentro a un movimento, dove una piccola cosa può trasformarsi in una danza.
Il passaggio dal riscaldamento all’improvvisazione è uno dei nodi fondamentali per comprendere l’evoluzione di un workshop. È l’approccio utilizzato frequentemente da un regista con i laboratoristi, variabile in base alla durata della specifica situazione. Ciò che affascina di tale processo è il portato esperienziale che i singoli mettono in condivisione, a volte anche in esibizione, e che verrà elaborato nel tempo. Riguarda molte realtà formative, e ogni volta è interessante osservare come il maestro sceglierà di interagire – e inserirsi – rispetto al percorso artistico del giovane professionista.
«Quando si improvvisa – dice Carrizo – tante cose vengono messe in gioco, ma qualche volta bisogna prenderne una e esplorarla, essere aperti». Gli esercizi sui quali la coreografa fa lavorare i ragazzi lasciano che l’incontro tra la poetica di Peeping Tom (il gruppo da lei co-fondato assieme a Franck Chartier) e la formazione del giovane, si verifichi naturalmente, senza forzare le conclusioni. È così che il lavoro sul rallenti e sulla pausa, presentato fin da ieri, viene reinterpretato dal singolo partecipante.

Laboratorio di Gabriela Carrizo, Padiglione delle Capriate, Fondazione Cini

Di questa dimensione di condivisione e di scambio portata da Carrizo al laboratorio veneziano, aveva già velatamente parlato la coreografa nel corso dell’incontro tenuto a Ca’Giustinian: «a volte a suggerire il personaggio è il danzatore stesso che si presenta all’audizione». Una predisposizione che si coglie anche dai suoi occhi, profondi e concentrati sui singoli partecipanti al workshop, pronti a catturare le specificità di ognuno, fin dal momento del riscaldamento.
La presenza di piccole e sussurrate indicazioni come «go in / go out / more people…» le consentono di arricchire le improvvisazioni con un ritmo scenico e lasciano fantasticare sull’evoluzione del lavoro, fino al giorno in cui le porte dalla sala si apriranno per una presentazione pubblica di fine laboratorio.

di Elena Conti

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Le sale del Conservatorio “Benedetto Marcello” si aprono ai progetti di giovani compagnie

prove di “Swimming B.”

Lo ricordava Declan Donnellan all’incontro che ha tenuto a Ca’ Giustinian: è molto importante essere curiosi, prima della «creatività viene la curiosità».
Mi approprio di questo pensiero del maestro inglese – rivolto a giovani attori, ma estendibile a tutti – per tentare di avvicinarmi, con prudenza e un briciolo di leggerezza, alle Residenze della Biennale Teatro, che si stanno sviluppando in concomitanza ai laboratori.
Venezia ospita infatti quattro giovani formazioni provenienti dai workshop delle precedenti edizioni: gruppi nati per affinità di interessi e di poetica, volti alla condivisione di un percorso e, più nello specifico, di un progetto artistico. Parlo di curiosità per l’interesse che questa realtà fa scaturire, relegando al connubio tra prudenza e “leggerezza” la rintracciabilità di un’influenza artistica – una sorta di lascito – del maestro a questi gruppi.
Mentre due compagnie stanno lavorando negli spazi del Teatro Junghans, incontro le altre due formazioni ospitate nella Sala Prove e nella Sala Concerti del Conservatorio “Benedetto Marcello”: sono The Moors of Venice alle prese con Propaganda; e il gruppo coordinato da Carlota Ferrer impegnato in Swimming B.
Trascorro alcune ore – poche, quanto la brevità di quest’esperienza – in sala prove con gli artisti, cercando di non essere una presenza inopportuna e inserendomi quasi in “punta di piedi” in un processo così delicato di creazione.

prove di “Propaganda” di The Moors of Venice

Se svanisce da un lato l’idea che legava e restringeva il percorso personale di questi ragazzi al nome del regista del laboratorio, come alla ricerca di segni distintivi di un “superficiale” passaggio di testimone da maestro a allievo, resta saldo l’interesse rispetto al processo e alla sperimentazione che questi giovani autori possono apportare al contemporaneo panorama performativo. Ad ognuno di loro è lasciata la libertà di organizzare a proprio modo il lavoro di questi giorni di residenza: così se da un lato The Moors of Venice, il gruppo guidato da Fèlix Pons si approccia alla messinscena di Propaganda in maniera più consueta, strutturando inoltre il progetto in più parti – ovvero proposte specifiche partite da singoli individui – è un vero e proprio work-in-progress Swimming B. L’approccio alla creazione messa in gioco da Carlota Ferrer, Emmanuelle Moreau, Nicolas Wan Park e Francesca Tasini è indicativo di una predisposizione alla condivisione, la medesima che può aver portato alla formazione del gruppo; un bagaglio di singole esperienze, emozioni e specificità intese come punto di partenza per un lavoro collettivo.
L’interrogazione diffusa che sorge sulla durata di quest’esperienza, forse limitata nel tempo rispetto alle necessità di una continuità creativa, riguarda intrinsecamente anche tutti i laboratori e certe pratiche di formazione. Ma osservare il lavoro di questi ragazzi, e cogliere dalle loro parole il riconoscimento dell’opportunità che la direzione artistica di Àlex Rigola sta loro offrendo, lascia sperare che simili percorsi formativi possano comunque essere momenti significativi nel sostegno alla giovane creatività.

di Elena Conti

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La residenza di The Moors of Venice: The Revolution Project

prove di Propaganda – The Moors of Venice

Abbiamo incontrato The Moors of Venice, formazione nata nel 2010 anche grazie al laboratorio diretto da Thomas Ostermeier alla Biennale di Venezia. Il gruppo è composto da Fèlix Pons, Cristiane Mudra, Valeria Almerighi, Valentina Fago, Nina Greta Salomé, Fortunato Leccese e Kostin Kallivretakis, ed è tornato in laguna per lavorare su Propaganda, la prima parte di un progetto più ampio, chiamato The Revolution Project.

Come si è formato il gruppo e come avete lavorato finora?
Cristiane:
L’idea di creare questo gruppo è nata da uno scherzo. Andavamo molto d’accordo e pensavamo che sarebbe stato bello creare una compagnia internazionale. Così, abbiamo organizzato un incontro a Berlino, nell’agosto 2011. Ognuno ha proposto un progetto che avesse a che fare con il titolo Rivoluzione. Ognuno ha portato una propria idea e su quelle abbiamo iniziato a lavorare.
Nina: Facciamo una piccola premessa: agosto 2011 era il periodo immediatamente successivo alle manifestazioni in Spagna e alle rivoluzioni in Maghreb e Mashreq. Era dunque un tema importante da affrontare: eravamo un gruppo principalmente europeo, con persone di provenienza diversa e quindi ci sembrava attuale ridiscutere il teatro da quella prospettiva.
Fèlix: Ci sono state molte ipotesi di lavoro. Ora stiamo lavorando sul progetto InSIGHT, elaborato da Cristiane sulla Siria, e sul progetto Propaganda: un lavoro sulla rivoluzione per capire quando la rivoluzione perde il proprio significato e diventa solo un’idea antiquata.

C’è un percorso di continuità in questo progetto e nel lavoro fatto a Berlino rispetto all’esperienza con Thomas Ostermeier?
Kostis: A Thomas piaceva l’idea e durante il laboratorio ha proposto di formare il gruppo. Ma non ha mai avuto intenzione di incidere su questa scelta.
Fèlix: Con Ostermeier abbiamo affrontato Hamlet: e, nel mio caso, quello che mi è servito molto del workshop con Thomas è stata la modalità di lavoro sull’opera, molto stimolante. Era un approccio ludico, con una struttura molto semplice. Questo mi ha fatto anche capire che si poteva fare un lavoro creativo in un tempo così limitato. Poi voleva parlare dell’ETA, il gruppo indipendestista basco: mi chiedevo come poteva essere possibile che un gruppo armato esistesse ancora nell’Europa del 2011. Quando abbiamo iniziato a lavorare l’ETA era ancora attiva, anche se poi ha cessato la lotta armata. Nel nostro progetto, poi, è importante anche il rapporto della rivoluzione con l’utopia. Quello che è utopico, associato alla rivoluzione, diventa una distopia. Questo è stato il punto d’inizio, e volevo lavorare a questo soggetto con umorismo.
Kostis: Stiamo cercando di capire cosa accadrà a questa formazione, che non è tradizionale, e stiamo riflettendo sulle modalità di lavoro. L’invito che ci ha fatto la Biennale è stato molto utile non tanto per mostrare un lavoro o le influenze del workshop di Thomas Ostermeier: piuttosto quest’occasione, nella difficoltà di trovarci a lavorare tutti insieme, è stata un’opportunità di incontro. Insistiamo su questo, perché sentiamo qualcosa nel lavorare insieme e speriamo, con il tempo, di trovare il modo di sviluppare i nostri progetti.

Quale sarà la prossima tappa di The Revolution Project?
Cristiane: Sarà InSIGHT. L’idea è nata da un mio viaggio in Siria. Non avevo pianificato di andarci durante la rivoluzione, ma è successo e sono andata. È stato spaventoso notare la distanza tra la realtà del luogo e del momento e la sua rappresentazione mediatica. Il lavoro è iniziato con una improvvisazione originata dalle esperienze che ho vissuto in Siria e che mi hanno colpito. Ho fatto ricerche su testi e, rispetto alla mia esperienza, è stato impressionante scoprire quanti paesi e interessi fossero coinvolti. Il testo della performance è composto da documenti ma è costruito in forma di dialogo: un testo che spinge verso differenti direzioni e con differenti risorse, per dare l’impressione di confusione ma che crea, allo stesso tempo, un racconto sulla Siria.

 

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