Il primo weekend di Contemporanea Festival, appuntamento toscano a cavallo tra settembre e ottobre, ha visto incontrarsi il mondo dell’arte visiva e quello performativo che non sempre dialogano in maniera costruttiva, anzi spesso si chiudono in compartimenti stagni occupandosi dei propri settori. Ci sono esempi virtuosi in cui questi si incrociano e i risultati sono da osservare con attenzione (si pensi per esempio a Live Works o a Martelive) ma rimangono casi ancora sparuti o belle rarità nel nostro Paese.
A Contemporanea quindi si deve riconoscere un fatto: il Forum dell’arte contemporanea italiana – svoltosi a Prato tra il 25 e il 27 settembre e promosso dal comitato composto da Ilaria Bonacossa, Anna Daneri, Cesare Pietroiusti, Pier Luigi Sacco e il neodirettore del “Centro per l’arte contemporanea Luigi Pecci” Fabio Cavallucci – è stato ospitato, oltre che alla Monash University e a Palazzo Banci Buonamici, proprio all’interno del Teatro Metastasio, struttura e ente che negli stessi giorni ha avviato il festival dedicato ai linguaggi della ricerca teatrale, che richiama tanti appassionati del settore e un bel pubblico attento ormai da diversi anni.
L’operazione intelligente, che il direttore artistico Edoardo Donatini è riuscito a fare, è stata quella di mettere in dialogo obbligato questi due mondi, organizzando una maratona danzata negli spazi espositivi vuoti del nuovo Centro per l’arte contemporanea Luigi Pecci che pare riaprirà a settembre 2016 in occasione del prossimo Forum dell’arte, come ha promesso il sindaco Matteo Biffoni. (Il museo è infatti chiuso da diverso tempo per i lavori di ampliamento dell’edificio postmoderno, progettato negli anni ’80 dall’architetto fiorentino Italo Gamberini a cui ora si è aggiunto un avveniristico anello firmato dallo studio Maurice Nio / NIO architecten di Rotterdam). Mossa acuta e lungimirante che, innanzitutto, ha aperto per una sera un luogo incredibile alla città; ha dato modo ai danzatori di confrontarsi con uno spazio molto diverso da quello teatrale e ha messo uno di fronte all’altro due settori che hanno fortemente bisogno di guardarsi per aprirsi ulteriormente e comprendere come necessitino l’uno dell’altro per crescere in termini di qualità, pubblico, occasioni di visibilità; in modo da stimolare le proposte culturali e trovare nuove energie vitali che dialoghino insieme nel campo dell’arte, a tutto tondo. Lo stesso Fabio Cavallucci – nominato direttore del Pecci nel marzo 2014 –, in un’intervista rilasciata a Artribune, dichiarava che la prima colonna portante del suo lavoro doveva essere «la mescolanza tra le arti, l’idea che il Pecci non sia solo un “Centro per l’Arte Contemporanea” ma per le arti contemporanee. Credo che l’ambito più fertile per l’evoluzione dell’arte sia quello in cui le arti visive incontrano il teatro, la danza, il cinema, la musica… Siamo in un’epoca in cui tutto diventa performativo, dalla politica all’imprenditoria, per cui il nostro agire artistico non può essere relegato alla staticità». Detto, fatto.
I tantissimi partecipanti al Forum – da artisti a intellettuali, passando per operatori e giornalisti – si sono infatti imbattuti nel festival e incuriositi vi hanno partecipato numerosi, facendo registrare un bel sold out all’evento del Pecci. L’immersione in Time to move – questo il titolo della serata che ha visto uno di seguito all’altro (anche se con alcune sovrapposizioni) i lavori di Virgilio Sieni, Letizia Renzini/Marina Giovannini, Kinkaleri, Silvia Costa, Jacopo Jenna, Claudia Catarzi e MK – ha registrato una fruizione diversa dell’opera performativa da parte del pubblico.
Ciò che fa riflettere infatti è che, incontrandosi, questi due mondi hanno creato un modo diverso di fruire l’opera performativa, o forse l’hanno solo portato indietro di diversi anni – e penso agli anni ‘50 o ’60, ai primi happening in cui il pubblico si muoveva liberamente nello spazio vivendo differentemente le performance a cui assisteva. E al Pecci infatti se l’abituato pubblico di teatro sedeva in religioso silenzio davanti allo spettacolo di danza in corso, gli spettatori del Forum sembravano invece trovarsi davanti a un’opera d’arte a tutto tondo e quindi entravano e uscivano dallo spazio dedicato, vi giravano intorno, guardavano e si distraevano, proprio nello stesso modo in cui si può fruire un’opera d’arte visiva. Tirando le fila, potremmo forse dire di aver assistito a una vera e propria festa performativa, perché vivere in maniera così diversa i lavori artistici, far incontrare pubblici differenti, sguardi molteplici e curiosità altre ha creato una nuova energia, fresca, bella, curiosa e stimolante.
Se questa sensazione liquida la si poteva percepire all’esterno – e quindi tra il pubblico – le stesse pulsazioni vitali si sono potute vedere anche all’interno, ossia in alcuni spettacoli. È questo il caso di Nido di luce di Virgilio Sieni in cui quattro ragazze – dai 13 ai 16 anni, frequentatrici dell’esperienza dell’Accademia sull’Arte del Gesto – hanno mostrato un’incredibile capacità e bravura nell’assorbire la lezione di Sieni: nonostante la giovane età le eleganti farfalle (Butterfly Corner è il nome della compagnia nata nel 2013 in collaborazione con Sieni e l’Accademia) hanno inglobato e restituito il vocabolario coreografico del maestro così come riescono a farlo i corpi adulti della Compagnia Virgilio Sieni. Impeccabili, le quattro danzatrici emanavano un’aura luminosa e hanno regalato stupore a quanti non potevano credere alle emozionanti vibrazioni dei corpi che si schiudevano dal loro nido, suggerendo grande speranza (per il futuro della danza, per una poetica ormai affermata che meravigliosamente si può vedere affidata anche alle più giovani forze) e linee coreutiche di grande classe.
Altra performance che si sposava benissimo con l’ambiente circostante è stata quella proposta da Jacopo Jenna. Il suo Choreographing rappers è un lavoro anomalo, basato su una drammaturgia sonora composta dalle musiche di famosi rappers che si alternano in una battaglia di parole sciorinate a grande velocità per un progetto sonoro realizzato da Francesco Casciaro. Se il suono riporta subito la nostra mente alla strada dei sobborghi americani e alcune delle frasi dure e crude cantate dai rappers vengono proiettate sul muro alle spalle di Jenna, l’immaginario danzato che accompagna questa musica non trova il suo corrispettivo relativo, anzi si blocca di fronte ai movimenti tutt’altro che fluidi di Jenna. Le singole articolazioni del suo corpo pulsano, spezzano e frammentano le linee del danceflow attraverso dei dettagli incongrui rispetto alla musica, che guardano più al movimento nervoso che non a quello muscolare. La sua è una danza con della punteggiatura, delle pause che aprono crepe tra quello che ascoltiamo e quello che ci aspetteremmo di vedere. Il coreografo crea una contrapposizione semantica molto forte che si amplifica di fronte a una platea in movimento: quando dietro di lui appare proiettata la scritta “this is my incomprehensible dance / i just want to dance like a ghost / this is my shit /don’t kill my vibes” Jenna lancia la sua sfida al pubblico, come ci trovassimo in una vera e propria battle stradale fatta di significati che si sovrappongono e rialzano la posta in gioco anche solo con una diversa fruizione della performance.
Anche Kinkaleri ha portato il proprio vocabolario coreografico al Pecci, instaurando un vero e proprio dialogo che ha divertito e affascinato gli spettatori: ormai impegnati da anni con il progetto che ha fatto creare alla compagnia un personale alfabeto gestuale, con Everyone gets lighter | ALL! Marco Mazzoni compie un vero e proprio percorso di trasmissione, condividendo il suo linguaggio (o meglio, il linguaggio della compagnia) con la platea. In un gioco, a tratti divertente e a tratti poetico, che mette insieme pratica e contemplazione, il danzatore mostra come nella lingua di Kinkaleri a ogni gesto corrisponda una lettera. Ognuno di noi può dar vita a un modo di essere e di parlare, di esprimersi creando un proprio stile unico, inconfondibile. Con questa dimostrazione pratica il movimento fisico di Kinkaleri diventa riconoscibile e riconosciuto, una sorta di lezione per profani, uno spettacolo perfetto per chi tra la platea non mastica il linguaggio danzato e chi cerca una spiegazione per giustificare la creazione e il senso del gesto. (Leggi la recensione di Gun No Fake For You / All! – di Kinkaleri visto a Prato nel 2012)
Ha regalato momenti di allucinata poesia Giuda di MK coreografato da Michele Di Stefano con in scena Biagio Caravano. Il flusso che scorreva negli altri spettacoli tra performer e pubblico qui è interrotto per via della sua particolare fruizione: ogni spettatore, cuffie alle orecchie, è posto in una condizione di solitudine pur rimanendo fisicamente seduto nella moltitudine. Ed è proprio questa la posizione del performer in scena, un uomo solo di fronte al suo destino, pre-destinato a compiere una pre-determinata azione (che è la condizione dello stesso artista prima di uno spettacolo, di uno sportivo prima di una partita/gara, di una rockstar prima di un concerto). Sa quello che avverrà, sa che ci sono degli appuntamenti fissi, ma l’istinto creativo potrebbe cambiare le carte in tavola. A scandire questo tempo a cui non si può sfuggire un timer in scena che segna degli appuntamenti per Caravano ma anche per noi spettatori: al minuto 11’58” (ci sono degli orari scritti a penna sul suo braccio), sappiamo che c’è un appuntamento ma non con cosa. MK ci fa vivere la performance in religioso silenzio, in un vorticoso accadere che dovrebbe essere sempre lo stesso, ma che in fondo, il teatro insegna con l’arte dello stupore, non lo è mai perché l’imprevisto è sempre dietro l’angolo.
Visto al Festival Contemporanea 15, Centro per l’Arte Contemporanea Luigi Pecci – Prato
Carlotta Tringali