contemporanea festival prato

Resistere all’urto del caso con Ménard e Sciarroni a Contemporanea Festival

Resistere all’urto del caso. Disporsi ad esso, imparare ad accettarlo ed essere pronti ad accoglierlo: l’incontro con l’arte e la performance potrebbe proprio partire da questo concetto per farci indagare dentro noi stessi e leggere la realtà che ci circonda. Grazie a Contemporanea Festival, arrivato quest’anno alla sua ventesima edizione, si è sviluppata una certa predisposizione a quell’urto frequente, soprattutto da quando negli ultimi anni si è interrogato intorno a una tematica eloquente, ossia al “vivere al tempo del crollo”. È come se si volesse fornire alla comunità che frequenta il festival gli strumenti per orientarsi nel presente sapendo parare i colpi che riserva il futuro. Sembra un gioco semplice ma poi, quando ci si trova di fronte a performance in cui la temporalità si annulla e la condizione di disagio in cui si è posti paralizza sulla sedia, ci si interroga cercando di capire cosa sia successo. Ci si chiede quali corde emotive un lavoro artistico sia andato a toccare: scatta una riflessione sul valore dell’opera vista e contemporaneamente si indagano le sensazioni interiori suscitate. Lo sguardo dello spettatore diventa così strabico (prendendo in prestito una suggestione di Licia Lanera): un occhio è rivolto verso l’esterno e l’altro verso se stessi. Davanti al crollo come comportarsi? Di fronte a una risata inquieta come reagire? E dinnanzi a una crepa temporale, cosa pensare?

Maison Mère ph Jean Luc Beaujault

A Contemporanea due spettacoli tra loro diversissimi eppure con forti punti di contatto hanno attraversato queste tematiche.

In Contes Immoraux – Partie 1: Maison Mère, la performer Phia Ménard costruisce per l’intero arco dello spettacolo una grande casa in cartone partendo proprio dalle fondamenta: elimina gli elementi superflui come se bonificasse il terreno per poi tirare su le pareti armata di nastro adesivo e apposite stampelle utilizzate per aiutarsi a tenere in continuo equilibrio una struttura precaria, sottile ma pesantissima. A spiccare sulla scena l’attrice vestita come una improbabile cyber guerriera, che richiama figure iconiche come Daryl Hannah in Blade runner, con la stessa mascherina nera disegnata sugli occhi e calze strappate sotto una giacca di pelle per incarnare un essere che travalica genere e tendenze; ma il richiamo forte è anche verso Klaus Kinski, tra la fisicità barbarica di Aguirre e la visionarietà folle da impresa eccezionale di Fitzcarraldo: dopotutto, la Ménard catapulta il pubblico in un’esperienza straniante, allucinante e unica.

Maison Mère ph Jean Luc Beaujault

Progetto commissionato da Documenta 14 di Kassel nel 2017, quando la famosa mostra d’arte si trasferì per l’inaugurazione ad Atene, culla della civiltà europea ed occidentale, Maison Mère richiama esplicitamente il Piano Marshall con cui si volevano ricostruire i territori distrutti del vecchio continente, devastato dalla seconda guerra mondiale, con edifici prefabbricati. Ma questo è solo il punto di partenza, dato che lo spettacolo, che attraversa diversi stili e linguaggi travalicando i confini tra danza, teatro, nouveau cirque e mimo, contiene in sé e nel suo divenire una stratificazione di possibili letture. È come se ci trovassimo di fronte a infiniti specchi su cui ogni spettatore può riflettere le proprie speranze, desideri, paure: la costruzione di una casa può esser metafora della realizzazione della vita di un singolo, ma anche lo sviluppo di una comunità e di una civiltà, soprattutto se quella casa in cartone, una volta terminata la sua edificazione, prende la forma del Partenone. Ma quanto tempo si impiega a costruire una casa, una vita, una civiltà? La temporalità nella performance implode: si passa dalla noia iniziale – assisteremo per novanta minuti alla realizzazione di una casa? – alla sospensione del tempo – come riesce quella parete di cartone a reggersi in bilico senza cadere? – e alla sua stupefacente accelerazione data dall’effetto sorpresa finale in cui una fitta pioggia si riversa sulla casa/Partenone appena edificata/o, facendo crollare tutto, lasciando pubblico e performer attoniti spettatori: sono bastati novanta minuti per vedere nascere e morire una casa, una vita, una civiltà. Come se Maison Mère fosse un potentissimo Kalachakra – ossia una “ruota del tempo” citando il documentario di Werner Herzog in cui si racconta della cerimonia d’iniziazione buddista della creazione di un mandala di sabbia che viene distrutto per favorire l’illuminazione dei credenti e visualizzare la meditazione interiore – in cui si vivono tutte le emozioni che l’uomo attraversa nel corso di un’esistenza in un’ora di spettacolo. Dalla noia allo stupore, ma anche dalla compassione – a tratti si vorrebbe aiutare la Ménard a sorreggere quella stampella che continuamente cade –, alla tristezza e rabbia che si prova sul finale nel vedere la distruzione di questa incredibile creazione. Le infinite letture, l’implosione del tempo, le molteplici emozioni si attraversano grazie all’impresa di un folle, come Herzog propone nei suoi film e come Phia Ménard ben rammenta. E lo spettacolo diventa allora quel grande kalachakra, quel rito propiziatorio che si consuma ogni volta che va in scena, che ci ricorda come tutto quello che si costruisce con grande dedizione potrebbe anche distruggersi all’improvviso, in un attimo.

Augusto ph Alice Brazzit

L’atemporalità e le varie emozioni che l’animo umano può attraversare davanti a una performance artistica sono presenti anche in un altro lavoro andato in scena a Contemporanea: Augusto di Alessandro Sciarroni. Appena insignito del Leone d’Oro alla Biennale di Venezia – sezione danza, l’artista marchigiano ha abituato il suo pubblico a spettacoli che travalicano i generi, utilizzando linguaggi che si piegano al progetto che gli interessa sviluppare in quel momento. E allora danza, teatro, ready made, circo, sport, canto e visual si mescolano per trasportare lo spettatore in mondi altri, in cui il “ben definito” viene meno per lasciare posto al possibile che prima non era stato ancora immaginato, o forse volutamente indagato. Con Augusto si va in un territorio poco esplorato, che si tende ad allontanare: la condizione di disagio. In un crescendo fisico ma soprattutto emotivo, i nove performer in scena camminano circolarmente come ci trovassimo di fronte a un orologio le cui lancette sono però inceppate e il tempo annullato; si guardano, ammiccano, si cercano, si toccano, si prendono per mano, si lasciano e si rincorrono iniziando a sorridere come se seguissero le regole di un gioco in cui il pubblico è chiamato a partecipare, a poco a poco, invitato dagli sguardi che gli attori/danzatori/cantanti lanciano in platea rompendo una circolarità dal difficile accesso. Difficile perché il divertimento che potrebbe suscitare l’espressione iniziale dei performer dura ben poco: il sorriso esplode in una risata convulsa e straniante, nelle cui pieghe si leggono dolore, rabbia, disperazione, violenza. Si assiste a una continua trasformazione emotiva e psicologica di questi nove performer che ci chiedono così di condividere il loro disagio, in cui il canto straziante di Monteverdi viene subito ricondotto a una risata quasi isterica, le lacrime versate in scena sono riconvertite in uno spasmo toracico che rimanda a un’ilarità forzata. L’eccezione non è ammessa, il gioco tremendo a cui si assiste contempla solo la risata: quella del clown, a cui rimanda il titolo dello spettacolo, quella di una società patinata che non ammette brutture, nasconde il malessere e promuove il divertimento facile, tentando di allontanare il disagio. Con questo spettacolo Sciarroni ha toccato (e anticipato?) un tema caldo del nostro presente visto che il Leone d’Oro alla Mostra del Cinema di Venezia è andato proprio a un film che fa del ghigno malato il suo cavallo di battaglia: guardando ad Augusto impossibile non pensare a quel Joker interpretato da un Joaquin Phoenix in stato di grazia, clown fallito con il disturbo patologico della risata. Forse è stato l’urto del caso a far ritrovare le tematiche di Augusto nel film di Todd Phillips di cui tutti parlano, o forse la condizione di disagio è insita nella nostra contemporaneità al punto di farci vivere e resistere al tempo del crollo.

Carlotta Tringali

Glossolalie e respiri a Contemporanea Festival 16

Una piazza che si anima di arte, che vive della performatività degli artisti che per una sera coabitano uno spazio pubblico, in cui le voci dei bambini si sommano e accostano alla gestualità dei danzatori. Dalle piazze ai musei, dalle chiese agli edifici in disuso (o ex industriali), la messa in discussione dello spazio teatrale e dell’osservatore ideale è divenuta per la performance una questione assodata che vibra tuttavia di una necessità e di una prospettiva che permane tanto nel lavoro di un artista, quanto nelle proposte culturali di un paese. Si è aperto così Contemporanea Festival 16.

Danse de nuit di Boris Charmatz - ph. Simone Ridi

Dance de nuit di Boris Charmatz – foto Simone Ridi

Lo scorso 23 settembre, Piazza Santa Maria delle Carceri a Prato ha ospitato Danse de nuit del coreografo francese Boris Charmatz, già noto in Italia nonché presente in quest’occasione grazie al network Finestate Festival. Impegnato da anni in un’indagine che ridefinisce la relazione tra luogo, arte e pubblico – la cui massima sintesi è rappresentata dal Musée de la danse – Centre chorégraphique national de Rennes et de Bretagne di cui è direttore artistico – Charmatz ha presentato al festival un lavoro appositamente ideato per spazi urbani.
Sei danzatori con partiture autonome richiamano il pubblico in stazioni disegnate dalla loro presenza. Il tappeto sonoro creato dalle loro voci appare inizialmente confuso, sovrapposto, mixato, fino a farsi ritmo, composizione ed elemento d’unione, per una drammaturgia composta da pensieri riconducibili alla contemporaneità, in una “glossolalia improvvisata dai danzatori”, come si legge nelle note di regia. È così che il primo concetto che raggiunge il pubblico in maniera più nitida riguarda Charlie Hebdo e il disegnatore Charb, ma emergono anche estratti da Starfucker di Tim Etchells in cui star hollywoodiane vengono immaginate impegnate in scene inusuali e slegate dalla loro celebrità. Frasi come lampi di pensiero che trovano corrispondenza nella veloce dinamica gestuale. Parole sovrapposte, intermittenti, a volte sfuggevoli, spinte fino all’incomprensibile, enunciate da corpi i cui gesti conservano piena vitalità per tutta la rappresentazione.

Il movimento del pubblico segue lo sviluppo del lavoro divenendo esso stesso corpo fluttuante, ricettore di un ipotetico disegno che, pensato a volo d’uccello, traccia nella piazza cerchi e ellissi che si dissolvono continuamente per lasciare posto a nuove figure. A illuminare la “danza di notte” di Charmatz, luci viventi, fari portati a spalla da alcuni interpreti che si muovono tra pubblico e performer, creando un ulteriore elemento di connessione nella complessa struttura che, pur lasciando piena conduzione alla danza, non accetta lo sguardo unidirezionale e passivo dello spettatore e intende il palcoscenico come superficie da coabitare. Una questione su cui gli spettacoli ospitati al festival affondano con ulteriore precisione nel secondo fine settimana (Contemporanea Festival 2016 a Prato: Spettatori/Attori di Roberta Ferraresi).

The Forgetting of Air di Francesca Grilli – foto Simone Ridi

Dall’uso della voce al respiro, dalla necessità di seguire fisicamente il continuo ricostituirsi della scena nel lavoro di Charmatz, fino al gravoso fluttuare del pensiero in The Forgetting of Air di Francesca Grilli. Quest’ultima performance ha debuttato al MAXXI di Roma lo scorso 11 ottobre, ma è stata presentata in anteprima al festival di Terni e a Contemporanea. Le silenziose stanze dell’Istituto Culturale Lazzarini di Prato hanno accolto i quattro performer per una drammaturgia del respiro, divenendo luogo di un candore asfittico.
The Forgetting of Air è un ulteriore tassello della ricerca sulla voce che Francesca Grilli sta sviluppando da tempo (solo per citare alcune opere, Enduring Midnight; Palco; Fe2O3, Ossido ferrico), raggiungendo ora un delicato bilanciamento tra la forza poetica e politica che, se alla 55a Biennale Arte di Venezia dialogava e “corrodeva” la materia inanimata del ferro, mira ora, con grande incisività, all’anima dello spettatore.
La tragedia della migrazione contemporanea, con i suoi sbarchi, le sue morti e i suoi sopravvissuti, viene privata di retorica e moralismi. Lo fa lasciando emergere dalla nebbia i corpi neri degli interpreti, che reiterano – con piccoli spostamenti nello spazio – un’unica azione: respirare all’interno di un megafono. È questo uno strumento artigianale e allo stesso tempo magico, che richiama per forma e materia l’uomo di latta di Alice nel Paese delle Meraviglie, ed è l’unico elemento della scenografia assieme al basilare tubo che attraversa a terra la stanza e lascia fuoriuscire aria emettendo – a tratti – un rumore meccanico della macchina.

ph. Simone Ridi

foto Simone Ridi

Un ritmo casuale sembra dettare la presenza dei performer, in cui sono praticamente assenti momenti di incontro. Non vi è alcun punto di vista predefinito, gli spettatori possono muoversi o stanziare, accerchiando la scena, fino ad accorgersi che, seppure protetti e con le spalle ben puntate al muro, nessuna posizione potrà negare la responsabilità di una presenza. E anche questo avviene senza alcuna violenza: un semplice avvicinarsi del performer che per una piccola pausa può sedersi tra il pubblico, aspettare un segnale invisibile (forse dettato solo da un sentire personale), appoggiarsi alla parete guardando ciò che sta accadendo e continuare a respirare senza l’amplificazione del mezzo scenico, valorizzando quel gesto vitale compiuto da ogni presente.
Il rimando teorico di Francesca Grilli guarda al pensiero di Luce Irigaray, alla concezione del respiro come primo gesto di autonomia del vivente, “respirare senza dipendere dal respiro altrui”. The Forgetting of Air pone in evidenza come ciò che dovrebbe corrispondere alla libertà di un individuo viene costantemente dimenticato o oppresso, una libertà che viene ridotta fino a invalidare la dignità e i diritti dell’essere umano.

e gli occhi non videro, non videro la luce
non videro la messe, che altri non l’avesse
e il cielo fece nero, e urló la nube al cielo
e s’affamó d’abisso, che tutti ci prendesse […]
S.S. dei Naufragati, Vinicio Capossela

Il contrasto buio/luce (nero/bianco) è un elemento importante nell’impianto visivo della performance ideata da Francesca Grilli: la piccola stanza, con le pareti chiare e satura di vapore, lascia immaginare all’orizzonte quella “pozzanghera” di mare che non cessa di essere al centro di un dibattito politico che arranca nel trovare soluzioni e sostegno per far fronte alle tragiche morti del Mar Mediterraneo. Ma il respiro affannato che risuona al suo interno, non è quello della politica che in The Forgetting of Air tace. L’artista scarnifica la parola e si affida al silenzio del respiro e allo sguardo, “all’abilità di vedere nell’oscurità ciò che, nonostante tutto, appare”. Ed è forse questo che emerge con maggior forza, e che trova corrispondenza nella possibilità del singolo spettatore di stabilire la durata della performance: un lento prevalere della prossimità tra pubblico e performer sull’iniziale e gravoso fluttuare del pensiero nell’abisso del mare, un mare al quale non possiamo delegare alcuna responsabilità sulla vita di coloro a cui non riusciamo a garantire la sopravvivenza. Né il respiro.

di Elena Conti

Per approfondire
> Intervista a Francesca Grilli di Piersandra Di Matteo (Artribune)
> Intervista a Francesca Grilli di Giuseppe Di Lorenzo (dal laboratorio “Per uno spettatore critico” curato dalla redazione di Altre Velocità)

Contemporanea Festival 16 su Il tamburo di Kattrin
> Tamam Schud: l’irrisolto di Nicoletta Lupia
> Contemporanea festival 2016 a Prato: Spettatori/Attori di Roberta Ferraresi

Contemporanea tra arte e performance al Pecci di Prato

Il primo weekend di Contemporanea Festival, appuntamento toscano a cavallo tra settembre e ottobre, ha visto incontrarsi il mondo dell’arte visiva e quello performativo che non sempre dialogano in maniera costruttiva, anzi spesso si chiudono in compartimenti stagni occupandosi dei propri settori. Ci sono esempi virtuosi in cui questi si incrociano e i risultati sono da osservare con attenzione (si pensi per esempio a Live Works o a Martelive) ma rimangono casi ancora sparuti o belle rarità nel nostro Paese.

It's time to move al Centro Pecci - ph Ilaria Costanzo

Time to move al Centro Pecci – ph Ilaria Costanzo

A Contemporanea quindi si deve riconoscere un fatto: il Forum dell’arte contemporanea italiana – svoltosi a Prato tra il 25 e il 27 settembre e promosso dal comitato composto da Ilaria Bonacossa, Anna Daneri, Cesare Pietroiusti, Pier Luigi Sacco e il neodirettore del “Centro per l’arte contemporanea Luigi Pecci” Fabio Cavallucci – è stato ospitato, oltre che alla Monash University e a Palazzo Banci Buonamici, proprio all’interno del Teatro Metastasio, struttura e ente che negli stessi giorni ha avviato il festival dedicato ai linguaggi della ricerca teatrale, che richiama tanti appassionati del settore e un bel pubblico attento ormai da diversi anni.

It's time to move - ph Ilaria Costanzo

Time to move – ph Ilaria Costanzo

L’operazione intelligente, che il direttore artistico Edoardo Donatini è riuscito a fare, è stata quella di mettere in dialogo obbligato questi due mondi, organizzando una maratona danzata negli spazi espositivi vuoti del nuovo Centro per l’arte contemporanea Luigi Pecci che pare riaprirà a settembre 2016 in occasione del prossimo Forum dell’arte, come ha promesso il sindaco Matteo Biffoni. (Il museo è infatti chiuso da diverso tempo per i lavori di ampliamento dell’edificio postmoderno, progettato negli anni  ’80 dall’architetto fiorentino Italo Gamberini a cui ora si è aggiunto un avveniristico anello firmato dallo studio Maurice Nio / NIO architecten di Rotterdam). Mossa acuta e lungimirante che, innanzitutto, ha aperto per una sera un luogo incredibile alla città; ha dato modo ai danzatori di confrontarsi con uno spazio molto diverso da quello teatrale e ha messo uno di fronte all’altro due settori che hanno fortemente bisogno di guardarsi per aprirsi ulteriormente e comprendere come necessitino l’uno dell’altro per crescere in termini di qualità, pubblico, occasioni di visibilità; in modo da stimolare le proposte culturali e trovare nuove energie vitali che dialoghino insieme nel campo dell’arte, a tutto tondo. Lo stesso Fabio Cavallucci – nominato direttore del Pecci nel marzo 2014 –, in un’intervista rilasciata a Artribune, dichiarava che la prima colonna portante del suo lavoro doveva essere «la mescolanza tra le arti, l’idea che il Pecci non sia solo un “Centro per l’Arte Contemporanea” ma per le arti contemporanee. Credo che l’ambito più fertile per l’evoluzione dell’arte sia quello in cui le arti visive incontrano il teatro, la danza, il cinema, la musica… Siamo in un’epoca in cui tutto diventa performativo, dalla politica all’imprenditoria, per cui il nostro agire artistico non può essere relegato alla staticità». Detto, fatto.
I tantissimi partecipanti al Forum – da artisti a intellettuali, passando per operatori e giornalisti – si sono infatti imbattuti nel festival e incuriositi vi hanno partecipato numerosi, facendo registrare un bel sold out all’evento del Pecci. L’immersione in Time to move – questo il titolo della serata che ha visto uno di seguito all’altro (anche se con alcune sovrapposizioni) i lavori di Virgilio Sieni, Letizia Renzini/Marina Giovannini, Kinkaleri, Silvia Costa, Jacopo Jenna, Claudia Catarzi e MK – ha registrato una fruizione diversa dell’opera performativa da parte del pubblico.

Ciò che fa riflettere infatti è che, incontrandosi, questi due mondi hanno creato un modo diverso di fruire l’opera performativa, o forse l’hanno solo portato indietro di diversi anni – e penso agli anni ‘50 o ’60, ai primi happening in cui il pubblico si muoveva liberamente nello spazio vivendo differentemente le performance a cui assisteva. E al Pecci infatti se l’abituato pubblico di teatro sedeva in religioso silenzio davanti allo spettacolo di danza in corso, gli spettatori del Forum sembravano invece trovarsi davanti a un’opera d’arte a tutto tondo e quindi entravano e uscivano dallo spazio dedicato, vi giravano intorno, guardavano e si distraevano, proprio nello stesso modo in cui si può fruire un’opera d’arte visiva. Tirando le fila, potremmo forse dire di aver assistito a una vera e propria festa performativa, perché vivere in maniera così diversa i lavori artistici, far incontrare pubblici differenti, sguardi molteplici e curiosità altre ha creato una nuova energia, fresca, bella, curiosa e stimolante.

Nido di luce - ph Ilaria Costanzo

Nido di luce – ph Ilaria Costanzo

Se questa sensazione liquida la si poteva percepire all’esterno – e quindi tra il pubblico – le stesse pulsazioni vitali si sono potute vedere anche all’interno, ossia in alcuni spettacoli. È questo il caso di Nido di luce di Virgilio Sieni in cui quattro ragazze – dai 13 ai 16 anni, frequentatrici dell’esperienza dell’Accademia sull’Arte del Gesto – hanno mostrato un’incredibile capacità e bravura nell’assorbire la lezione di Sieni: nonostante la giovane età le eleganti farfalle (Butterfly Corner è il nome della compagnia nata nel 2013 in collaborazione con Sieni e l’Accademia) hanno inglobato e restituito il vocabolario coreografico del maestro così come riescono a farlo i corpi adulti della Compagnia Virgilio Sieni. Impeccabili, le quattro danzatrici emanavano un’aura luminosa e hanno regalato stupore a quanti non potevano credere alle emozionanti vibrazioni dei corpi che si schiudevano dal loro nido, suggerendo grande speranza (per il futuro della danza, per una poetica ormai affermata che meravigliosamente si può vedere affidata anche alle più giovani forze) e linee coreutiche di grande classe.

Jacopo Jenna - ph Ilaria Costanzo

Jacopo Jenna – ph Ilaria Costanzo

Altra performance che si sposava benissimo con l’ambiente circostante è stata quella proposta da Jacopo Jenna. Il suo Choreographing rappers è un lavoro anomalo, basato su una drammaturgia sonora composta dalle musiche di famosi rappers che si alternano in una battaglia di parole sciorinate a grande velocità per un progetto sonoro realizzato da Francesco Casciaro. Se il suono riporta subito la nostra mente alla strada dei sobborghi americani e alcune delle frasi dure e crude cantate dai rappers vengono proiettate sul muro alle spalle di Jenna, l’immaginario danzato che accompagna questa musica non trova il suo corrispettivo relativo, anzi si blocca di fronte ai movimenti tutt’altro che fluidi di Jenna. Le singole articolazioni del suo corpo pulsano, spezzano e frammentano le linee del danceflow attraverso dei dettagli incongrui rispetto alla musica, che guardano più al movimento nervoso che non a quello muscolare. La sua è una danza con della punteggiatura, delle pause che aprono crepe tra quello che ascoltiamo e quello che ci aspetteremmo di vedere. Il coreografo crea una contrapposizione semantica molto forte che si amplifica di fronte a una platea in movimento: quando dietro di lui appare proiettata la scritta “this is my incomprehensible dance / i just want to dance like a ghost / this is my shit /don’t kill my vibes” Jenna lancia la sua sfida al pubblico, come ci trovassimo in una vera e propria battle stradale fatta di significati che si sovrappongono e rialzano la posta in gioco anche solo con una diversa fruizione della performance.

Anche Kinkaleri ha portato il proprio vocabolario coreografico al Pecci, instaurando un vero e proprio dialogo che ha divertito e affascinato gli spettatori: ormai impegnati da anni con il progetto che ha fatto creare alla compagnia un personale alfabeto gestuale, con Everyone gets lighter | ALL! Marco Mazzoni compie un vero e proprio percorso di trasmissione, condividendo il suo linguaggio (o meglio, il linguaggio della compagnia) con la platea. In un gioco, a tratti divertente e a tratti poetico, che mette insieme pratica e contemplazione, il danzatore mostra come nella lingua di Kinkaleri a ogni gesto corrisponda una lettera. Ognuno di noi può dar vita a un modo di essere e di parlare, di esprimersi creando un proprio stile unico, inconfondibile. Con questa dimostrazione pratica il movimento fisico di Kinkaleri diventa riconoscibile e riconosciuto, una sorta di lezione per profani, uno spettacolo perfetto per chi tra la platea non mastica il linguaggio danzato e chi cerca una spiegazione per giustificare la creazione e il senso del gesto. (Leggi la recensione di Gun No Fake For You / All! – di Kinkaleri visto a Prato nel 2012)

Giuda - MK

Giuda di MK – ph Ilaria Costanzo

Ha regalato momenti di allucinata poesia Giuda di MK coreografato da Michele Di Stefano con in scena Biagio Caravano. Il flusso che scorreva negli altri spettacoli tra performer e pubblico qui è interrotto per via della sua particolare fruizione: ogni spettatore, cuffie alle orecchie, è posto in una condizione di solitudine pur rimanendo fisicamente seduto nella moltitudine. Ed è proprio questa la posizione del performer in scena, un uomo solo di fronte al suo destino, pre-destinato a compiere una pre-determinata azione (che è la condizione dello stesso artista prima di uno spettacolo, di uno sportivo prima di una partita/gara, di una rockstar prima di un concerto). Sa quello che avverrà, sa che ci sono degli appuntamenti fissi, ma l’istinto creativo potrebbe cambiare le carte in tavola. A scandire questo tempo a cui non si può sfuggire un timer in scena che segna degli appuntamenti per Caravano ma anche per noi spettatori: al minuto 11’58” (ci sono degli orari scritti a penna sul suo braccio), sappiamo che c’è un appuntamento ma non con cosa. MK ci fa vivere la performance in religioso silenzio, in un vorticoso accadere che dovrebbe essere sempre lo stesso, ma che in fondo, il teatro insegna con l’arte dello stupore, non lo è mai perché l’imprevisto è sempre dietro l’angolo.

Visto al Festival Contemporanea 15, Centro per l’Arte Contemporanea Luigi Pecci – Prato

Carlotta Tringali