coordinamento cresco

Cortocircuiti fra vite e teatro: lo stato dell’arte #4

Perché non prendersi il tempo per aprire il proprio laboratorio creativo e il proprio processo di pensiero allo sguardo di altri colleghi? Perché non affiancare ai molti spazi di discussione sulle politiche culturali, anche un confronto più strettamente artistico? Da queste suggestioni è nato “Lo stato dell’arte”, un progetto che Cresco ha avviato con l’obiettivo di illuminare non solo le dinamiche produttive in atto, ma anche la molteplicità delle poetiche che formano oggi la mappa del teatro italiano. Quattro incontri nel 2018 per raccontare progetti aperti, condividere dubbi, ambizioni, affinità e divergenze: Kilowatt Festival (luglio, Sansepolcro), Troia Teatro (agosto, Troia), Contemporanea (settembre, Prato), Wonderland (Brescia, novembre). Per questi primi appuntamenti il format prevede tre o quattro artisti coinvolti, un testimone interessato, una prima parte dei lavori a porte chiuse e un’apertura al pubblico.
Cresco ha invitato Altre Velocità con Stratagemmi e Tamburo di Kattrin a svolgere un ruolo di osservazione e testimonianza dei lavori, nell’auspicio che lo spazio di pensiero inaugurato da “Lo stato dell’arte” possa aprire echi di riflessione ampi e condivisi… Durante il Wonderland Festival, Renato Cuocolo, Enzo Cosimi e Licia Lanera, assieme all’artista e curatore Filippo Andreatta in qualità di “testimone interessato”, hanno dato vita all’ultima tappa del progetto che tentiamo di restituire qui sotto.

Nelle puntate precedenti:

Lo stato dell’arte #1 su Stratagemmi (con Simona Bertozzi, Marco Cavalcoli di Fanny & Alexander, Enrico Castellani di Babilonia Teatri)

Lo stato dell’arte #2 su Altre Velocità (con Kinkaleri, Motus, Antonio Tagliarini e Michele Sinisi, assieme a Franco D’Ippolito come “testimone interessato”)

Lo stato dell’arte #3 su Altre Velocità (con Annamaria Ajmone, Rita Frongia, Silvia Gribaudi, Sotterraneo assieme a Carlo Mangolini, Giuseppe Provinzano e Edoardo Donatini come “testimoni interessati”)

 

Renato Cuocolo e Roberta Bosetti

DAL PARTICOLARE ALL’UNIVERSALE

Cosa succede se il teatro esce dall’edificio che lo denota come tale per riversarsi in case private, in hotel, sulla strada o nelle metropolitane? Che effetto fa se lo spettatore è continuamente sottoposto a una situazione in bilico e non sa se ciò a cui sta assistendo è vita vera o pura invenzione? Gioca su equilibri al limite tra realtà e finzione, biografia e artificio, dentro e fuori, la compagnia Cuocolo/Bosetti che a Melbourne ha dato vita a un progetto dal respiro ampio, Interior Sites Project, che comprende a oggi più di 15 spettacoli.

Prima tappa, di quello che poi si è rivelato essere un vero e proprio percorso, è stata Secret room, che è in tournée ancora oggi ed è arrivata a più di 1700 repliche: all’interno di una casa dieci spettatori sono invitati a cenare con Roberta Bosetti per entrare a poco a poco nell’intimità di una persona che ha sofferto di anoressia e uscire, al termine dello spettacolo, senza sapere bene se la convivialità che si era creata e il racconto dell’attrice vercellese fossero reali o frutto di una costruzione drammaturgica. Da lì in poi Renato Cuocolo e Roberta Bosetti, coppia nella vita così come nell’arte, hanno creato diverse performance che si svolgono tutte fuori dall’edificio teatro, ognuna con un proprio titolo in inglese (per esempio Theatre on a line, Rooms for error) ma con un sottotitolo corrispondente in italiano che ne registra il suo essere tappa di un percorso più ampio ancora in fieri. E così ogni lavoro va a comporre una condizione legata alla figura dell’attrice-musa del regista/autore Renato Cuocolo: si ha quindi, per esempio, Roberta invita a cena, Roberta riceve una telefonata, Roberta ha voglia di dormire, Roberta va al cinema e così via. Come una specie di Cindy Sherman del teatro – l’incredibile artista visiva che ha fatto del camuffamento e della dicotomia finzione/biografia il suo cavallo di battaglia – il contesto ci restituisce un personaggio in continuo cambiamento, facendoci però rimanere ancorati alla persona reale Roberta.

Prima che Cuocolo/Bosetti diventassero un’unica unità – nello scrivere, nel creare, nel vivere, nel recitare – Renato Cuocolo ha fondato nel 1978 l’IRAA Theatre per poi emigrare in Australia e cambiare, nel 2000 con Roberta Bosetti, il centro della sua ricerca spostatasi dal corpo dell’attore a quello dello spettatore: ne ha studiato la posizione, costringendolo verso il movimento e verso un’esperienza che lo mettesse nella condizione di vedere qualcosa come fosse la prima volta.
Il lavoro della compagnia nasce sempre da dettagli autobiografici, da particolari che diventano, attraverso il lavoro della scrittura, universali; sono piccoli eventi che la vita ha presentato ai due artisti ma che potrebbero anche capitare a tutti, così che lo spettatore ci si possa riconoscere. Se al primo posto della composizione artistica c’è la stesura del testo, al secondo c’è la necessità di creare un rapporto con lo spazio: per esempio con Secret room l’idea era di indagare l’anoressia e il rapporto con la famiglia, cercando una certa domesticità che ha condotto la compagnia ad ambientare la performance dentro una casa che, tra l’altro, dettaglio di non poco conto, era veramente la loro.

La nuova creazione, dal titolo Underground – che vedrà il debutto al Festival delle Colline a Torino nel giugno 2019 – si svilupperà all’interno della metropolitana, in un percorso che parte dal teatro, come punto di ritrovo iniziale, e si sviluppa nella parte sotterranea della città che la ospita. Come le altre performance, anche questa idea si è generata da un’esperienza privata dei due artisti: la volontà di fare una gita a Treviri, casa natale di Karl Marx, è stata annullata dall’incombente malattia della madre di Renato Cuocolo che li ha costretti a prendere per un determinato periodo la metropolitana a Roma per andare a trovarla in ospedale; quando purtroppo non ce ne è stato più bisogno i due hanno continuato a prendere la metro e viaggiare, immaginando le corrispondenze con gli edifici della città eterna e sognando spazi forse esistenti, forse no. E così della primissima idea di far visita a Marx rimane oggi solo un desiderio inappagato che si può ritrovare, in Underground, nella persona che vuole restare sotto la città e non sopra, come rispecchiasse un desiderio di cambiamento e ribaltamento – indole propria del famoso pensatore tedesco; allo stesso tempo abitare la metro potrebbe essere metafora di aggirarsi nel regno dei morti, o ancora luogo in cui sia più facile immaginare dei sensi di direzione per chiedersi dove si sta andando.

Il teatro accade nella testa dello spettatore, guidato in un percorso sotterraneo tra treni e vagoni dalla voce di Roberta Bosetti che il pubblico in Underground segue e ascolta attraverso delle cuffie; la relazione che si instaura è sicuramente privilegiata ma sempre sospesa tra la reale casualità o la finta programmazione. Spostando il luogo dalla scatola di finzione per eccellenza che è il teatro, possono entrare nella performance delle variabili incontrollate come persone che prendono la metro: a quel punto il tentativo della Bosetti sarà quello di inglobare la vita reale agli spettatori che hanno accettato il patto di finzione partecipando allo spettacolo. La sfida diventa far entrare più vita nel teatro e più teatro nella vita per renderli entrambi parte di uno spaesamento comune.

Se il pubblico vive la dicotomia reale/finto, per Roberta Bosetti la questione è ancora più spinosa: l’attraversamento per lo spettatore è anche un attraversamento per la performer perché l’esplosione di senso e significato e la condivisione di esperienze avvengono da entrambe le parti. Utilizzando momenti che appartengono alla propria biografia, Cuocolo e Bosetti decidono di mantenere sempre vivo l’aspetto emotivo e quindi lo spettacolo rappresenta perennemente una possibile trappola anche per la stessa attrice, in bilico tra routine performativa e attraversamento personale, sospesa tra il dolore del ricordo e il mettersi in gioco. Ma in fondo l’arte non è vita? E la vita non interagisce con la perdita?

 

Enzo Cosimi – foto di Daniela Zedda

LA POTENZIALITÀ DEI CORPI, IL POTERE DELLE IMMAGINI

Come l’essere umano abbia in sé un potenziale di bellezza da esprimere lo spiega Enzo Cosimi, coreografo, artista o semplicemente un visionario: nella sua carriera ha sempre lavorato su due piani, affrontando la creazione artistica con una compagnia di professionisti (ne è un esempio la recente Trilogia sulle passioni) e con non professionisti (come l’appena conclusa trilogia Ode alla bellezza). Una qualità, quest’ultima, che Cosimi cerca in mondi in cui i limiti, o i confini di ciò che si conosce, sono continuamente spostati per far scoprire territori inesplorati. Il primo capitolo di Ode alla bellezza, dal titolo La bellezza ti stupirà accomuna due soggetti agli antipodi come gli homeless e la moda, proponendo una vera e propria sfilata: persone senza casa, in collaborazione con la Caritas, partecipano a un lavoro sul ritmo rimanendo in eterno equilibrio tra la commozione e l’astrazione, al punto da far diventare l’opera quasi una messa laica. Il secondo capitolo Corpus Hominis indaga una omosessualità anziana in cui il corpo di un settantacinquenne viene affiancato da quello statuario del danzatore Matteo Sedda, in modo da evidenziare una diversità tra decadenza e ferinità. Ma è l’ultimo capitolo quello su cui si è concentrato Cosimi e che ha appena debuttato: I love my sister dove protagonista è una transizione nascosta che ha portato una donna a diventare un uomo. Con Egon (questo il nome del protagonista del lavoro) il coreografo ha lavorato sulla biografia di una persona dal vissuto intenso costruendoci insieme una drammaturgia gestuale e testuale in cui c’è una continua sottrazione: ci si trova quasi in un set fotografico in cui video, persona e immagini si alternano per lasciare spazio a una realtà  possibile, pur restando nella finzione, per arrivare a una catarsi del teatro, attraverso strade scivolose e impervie, ma affascinanti e significanti.

Se il primo approccio a qualsiasi lavoro di Cosimi parte da un’irrazionalità e un’intuizione in cui c’è posto per la sua visionarietà, è nel corpo queer che finisce sempre la sua indagine, anche in maniera inconscia. Nel non-definito, nel non-etichettabile; si rimane sempre sulla soglia: è lì che la danza e il teatro possono aprirci a infinite possibilità di visione, basta attraversarle e lasciarsi stupire, emozionare. I love my sister è talmente potente che è sufficiente il trailer per indicare quale territorio stia attraversando Cosimi con il suo lavoro: il primo piano di Egon, dietro uno schermo attraversato da gocce insistenti di pioggia, e in sottofondo la voce della mamma che ne parla come di una persona che non è più né maschio né femmina, ci trasforma in dei voyeur, ci incuriosisce, ci intenerisce. Il risultato è allo stesso tempo struggente e politico: l’accettazione della mamma di Egon, che parla della figlia/figlio come di “quella cosa indefinibile” sforzandosi di capire quali sono state le ragioni che l’hanno portata/o a compiere quella scelta, sono di una forza deflagrante che parla di un’umanità che travalica i confini abbracciando l’essenza, oltre il corpo, oltre il linguaggio, oltre il conosciuto. È la rappresentazione non didascalica dell’uomo con il diverso, del rapporto con l’altro da sé, dell’essere contemporaneamente donna e uomo. Parla di accettazione dell’altro senza la necessità di comprenderlo fino in fondo. Parla di rispetto. E il lavoro a questo punto diventa, pur non per esplicita volontà, politico.

Per arrivare a questo risultato Cosimi ha intervistato Egon e gli ha chiesto di scrivere delle lettere, così da creare un materiale biografico e testuale da cui partire per affrontare il lavoro. C’è tanto dolore e sofferenza nel modo in cui il protagonista parla di Gloria, il corpo della donna che lo ospitava prima, quella specie di sorella che, nel momento in cui è stata presa la decisione di iniziare la transizione F to M, ha smesso piano piano di esistere. Egon scrive ogni giorno delle lettere a Gloria, per ringraziarla per ciò che gli ha regalato perché lo ha salvato, lo ha alimentato: il suo allontanamento ha provocato la necessità di una rielaborazione del lutto, di un vero funerale. Non è l’unica difficoltà che Egon ha dovuto affrontare nella sua vita: un altro scoglio è stato rappresentato dalla lotta antispecista e dalla comunità  che porta avanti questa lotta, in cui Egon aveva trovato una casa grazie al suo amore smodato per i cavalli. Nel momento in cui ha iniziato ad assumere il testosterone – per cui si utilizzano materiali animali – Egon è stato allontanato da quella che era la sua nuova famiglia: diventare uomo significava accettare un patto, rinnegare le proprie origini e quello in cui credeva. Costi enormi da pagare.
Oltre all’autobiografia di Egon, già potente e densa di significato, Cosimi ha utilizzato anche testi e influenze dell’attivista e scrittore Paul B. Preciado o di Judith Butler per costruire una drammaturgia che non vuole risultare documentaristica: al coreografo interessa lavorare su un testo scritto e portarlo alla spontaneità, in cui alcuni elementi della vita reale (come i capelli di Gloria) si inseriscono in un artificio scenico che li trasforma, portando la storia a diventare una favola nera, una sorta di Alice nel paese delle meraviglie dal sapore lynchano.

L’atto primo della creazione in Cosimi è infatti il suo stato mentale: non parte dal corpo o gesto, ma da uno stato da indagare, da un viaggio da compiere verso un mondo intrigante e soprattutto sconosciuto. «Non giudicare sbagliato ciò che non conosci, prendi l’occasione per comprendere» sosteneva Pablo Picasso; e attraverso l’arte scenica queste occasioni non mancano.

 

Licia Lanera

LA VEGGENZA DEL TEATRO

La potenza del teatro è tale che può contenere passato, presente e futuro: gli autori che si sono succeduti nelle varie epoche, le parole scritte e le azioni narrate nella grande letteratura offrono una gamma di emozioni e di questioni umane che possono descrivere l’individuo di ieri e di domani e tutte le dinamiche in cui egli si potrebbe trovare. Ne è convinta l’attrice e regista Licia Lanera che, dopo aver terminato l’esperienza decennale con Fibre Parallele, ha fondato la propria e omonima Compagnia con una particolare attenzione ad alcuni grandi intellettuali, le cui parole contengono forse una speciale forma di veggenza per capire la vita. Dopo aver lavorato per anni in simbiosi con Riccardo Spagnulo – cofondatore insieme a Licia di Fibre Parallele – creando spettacoli che indagavano la polis, il rapporto di coppia, il Sud, i demoni privati e in fondo collettivi, Lanera si è ritrovata a dover affrontare il teatro in solitaria. È da quella rottura che sono nate nuove possibilità e tentativi di attraversamenti.
Dopo la drammaturgia scomposta e onirica del pasoliniano Orgia in cui vi è la descrizione della perdita della parola – metaforica e allo stesso tempo reale – la Lanera ha iniziato a scrivere in maniera debordante ed è arrivata a mettere in scena l’ipnotico The Black’s Tales Tour. Il rapporto con la scrittura è sempre stato fondamentale nel suo lavoro: con Fibre Parallele ha portato in scena testi originali di Spagnulo, in cui il punto di partenza iniziale era spesso autobiografico. È stato poi l’incontro con il regista Luca Ronconi ad accendere una luce nuova nel suo percorso: dal grande maestro ha appreso come appropriarsi dei testi, come ricercare e andare a fondo nelle cose per cambiare così il dispositivo scenico. Da qui l’artista pugliese ha compreso davvero come si possa riscrivere un testo e tradurlo: se lo si perfora non lo si tradisce ma ce se ne appropria. La voglia di mettere in scena Eduardo De Filippo e allo stesso tempo il rifiuto dei diritti per poterlo fare da parte degli eredi, il riscoprire la potenza dei classici e la necessità impellente di cercare una forma di catarsi nel grande teatro della vita, hanno portato Licia Lanera al desiderio di comporre la speciale trilogia Guarda come nevica, il teatro è gelo. Tre testi in tre anni, tre spettacoli sulla neve, tre autori russi e tre generi letterari: un lavoro complesso iniziato con Cuore di Cane di Mikhail Bulgakov, che proseguirà con Il gabbiano di Anton Čechov e terminerà con le poesie di Vladimir Majakovskij.

Con Bulgakov Licia Lanera ha avuto la necessità di una riscrittura per affinare il dispositivo scenico: tutte le voci dei vari personaggi sono affidate all’attrice che sperimenta le varie possibilità delle sue corde vocali, dando vita all’essere cane, uomo e donna; ad accompagnarla in scena solamente la musica elettronica e i suoni di Tommaso Qzerty Danisi, una maschera in volto che la rende anziana e una nevicata lenta che a poco a poco si trasforma in bufera. La neve, vero e proprio filo conduttore nella trilogia, diventerà poi fortemente presente ne Il gabbiano e trasformerà lo spazio in un luogo ghiacciato nell’ultima tappa dell’opera che prevede un linguaggio poetico e danzato in cui sono le parole di Majakovskij a bruciare. Freddo e caldo sono condizioni che possono coesistere negli spettacoli di Licia Lanera, come lo sono il paradosso, il grottesco, il riso e il pianto. Le sfumature emozionali si attraversano tutte.
II lavoro a tavolino della regista non si concentra solo sui singoli testi: lo studio per realizzare le messinscene si basa anche sui carteggi privati di questi autori come le lettere a Stalin scritte da Bulgakov, la corrispondenza epistolare tra Čechov e Olga Knipper, i pensieri di Majakovskji affidati ai propri cari. Ma a questi si somma la condizione privata dell’artista: cosa significa fare teatro oggi? A quale prezzo? Piccoli elementi sotterranei corrono negli spettacoli come in Cuore di cane in cui, ancora a sipario chiuso, si ode la voce di Vincent Longuemare – storico light designer della Lanera – che pronuncia la frase “anche una belva può stancarsi” che ambiguamente potrebbe riferirsi all’opera di Bulgakov così come a chi ogni giorno lotta per continuare a fare questo lavoro o, più semplicemente, ad attraversare la vita.

La letteratura e la vita sono gli strumenti fondamentali dell’arte di Licia: sommati a uno studio maniacale diventano tasselli di un teatro che si fa rito, si imbeve del presente, lo guarda e lo critica facendosi atto politico: all’artista non serve far comizi, basta utilizzare la propria arte. E allora scegliere di mettere in scena Bulgakov, un autore che è stato fortemente osteggiato e censurato per essere sempre in conflitto con il proprio tempo, diventa proprio un gesto politico; soprattutto se nel suo Cuore di cane il protagonista è un uomo piccolo che parla a vuoto su argomenti che non conosce, analizzando vizi, difetti e sclerosi della società di ieri così come quella di oggi.

Tre spettacoli nella neve, tre forme letterarie diverse, tre questioni brucianti: personale, politica, teatrale.
Secondo Licia Lanera il teatro è l’arte per eccellenza che lavora sulla collettività, è aggregante: a teatro non si può andare veloci e si deve attendere, non si può usare il telefono e si sta insieme; è l’uomo con l’uomo che guarda un altro uomo e parla di uomini. E se scende la neve può calare il silenzio e insieme lo si può contemplare.
Forse leggere e rileggere la parola di grandi del passato aiuta a capire il presente e ad affrontare meglio, speriamo, il futuro.

Carlotta Tringali

Note intorno un coordinamento della scena contemporanea

Note intorno al cambiamento del sistema produttivo
L’allontanamento produttivo dai teatri, che era già iniziato con l’avanguardia, negli ultimi anni si è consolidato e la cosiddetta scena contemporanea  ha trovato nuovi avamposti creativi nell’ambito di festival e residenze. Sono nati molti spazi autonomi e alcune strutture (come Armunia e Centrale Fies) offrono sale prova, durante tutto l’arco dell’anno, per dare spazio alle compagnie che altrimenti non avrebbero luoghi per concentrarsi sulla produzione. Un improvviso ricambio generazionale ha stimolato un drastico mutamento delle poetiche che si è ripercosso sui formati delle opere prodotte: studi e opere in più fasi hanno preso piede popolando le rassegne di tutta Italia. Forti contraddizioni vedono un panorama creativo, sempre più fertile e movimentato, crescere sulle basi di un sistema produttivo altrettanto fecondo ma al contempo instabile: il ricco proliferare dei festival (quasi 30 negli ultimi 2 anni) non ha trovato sostegno nelle politiche di finanziamento che – avendo ridotto drasticamente i fondi agli enti locali – hanno messo alle corde molte manifestazioni.
La frammentarietà delle poetiche artistiche rispecchia pienamente le problematiche di un sistema produttivo che si vede procedere a singhiozzo, sempre costretto ad avanzare per passi e a produrre opere mai complete e sempre spezzate. Logiche di mercato – alle quali spesso le stesse compagnie sono obbligate a ricorrere – che nel migliore dei casi vengono elogiate per ricalcare lo stile del serial televisivo, nel peggiore sembrano voler riproporre il metodo work-in-progress solo per vendere una prima al festival di turno. Equilibri precari e dinamiche che configurano una realtà difficile da identificare, decisamente variegata ed eterogenea, in rapido sviluppo ma sempre più in crisi e a rischio di declino. Proprio per questa sua natura particolare e non identificata, la scena contemporanea rientra a fatica nel sistema di finanziamenti nazionale, difficilmente le viene riconosciuta una natura indipendente e proprio per questo resta ancora sotto la dicitura di “altro”.

La necessità di un’autodefinizione e di un riconoscimento (prima di tutto interno) ha fatto sì che nell’ultimo anno, a partire dal Convegno di Sansepolcro, si mobilitassero delle energie volte all’istituzione di un movimento per la scena contemporanea. In seguito a quell’incontro – che ebbe forte risonanza a livello nazionale con la presenza di un centinaio di operatori da tutta Italia – una quindicina di volontari portò avanti un lavoro volto alla messa in pratica di proposte concrete nate dalle istanze esplicitate nel documento finale di Sansepolcro.

I risultati di un anno di lavoro sono stati esposti nel convegno che si è tenuto a Bassano dal 2 al 4 settembre: il gruppo guidato da Luca Ricci (Kilowatt Festival) ha presentato in tre giorni gli intenti e i versanti di studio e d’azione del nascente C.Re.S.Co., comitato per il Coordinamento delle Realtà della Scena Contemporanea. Un movimento che si apre a situazioni eterogenee, diverse per linguaggi e problematiche, che si muovono su panorami distanti ma che si possono ancora definire comuni. Quella di Bassano più che una ricerca d’adesioni, è stata una chiamata a raccolta, un appello lanciato a molte delle realtà – operatori ed enti – che praticano quotidianamente la battaglia per il contemporaneo (qualunque forma esso abbia). Una ricerca di condivisione e confronto su tematiche che condizionano profondamente la sopravvivenza delle realtà produttive del teatro d’oggi: dalla proposta di aggiornamento del sistema dei finanziamenti nazionali e regionali al «riconoscimento normativo della natura atipica del lavoratore dello spettacolo». I partecipanti sono stati chiamati ad un dialogo attivo, favorito dalla divisione in gruppi di lavoro, che ha permesso a tutti di condividere la propria esperienza, di riconoscersi e di catalizzare nuove energie e proposte ridiscusse poi in assemblea plenaria.

Tra gli ambiti di confronto che hanno movimentato le giornate bassanesi: innanzitutto il sistema di finanziamento («profondamente ingessato») e le modalità in cui si possa attuare un sostegno capillare e diffuso. L’argomento affrontato da Davide D’Antonio (Teatro Inverso) e Gianni Berardino (Festival Voci di Fonte) è complesso e stratificato. Alcune proposte (accolte come utopie) prevedono la defiscalizzazione e la deducibilità di spese tangibili come i service, le autostrade, etc. Inoltre sono state individuate alcune istanze fondamentali per il rinnovamento quali la trasparenza normativa dei parametri d’accesso ai fondi e la necessità di amplificare l’attività degli Osservatori per migliorarne l’efficacia. Tra le proposte vi è anche quella di una divisione netta tra teatri stabili pubblici e teatri privati, un avvicinamento al sistema francese che renderebbe quello italiano più dinamico e agevole, agendo su due fronti totalmente separati (i teatri stabili dipenderebbero direttamente ed esclusivamente dal ministero, mentre tutto il resto sarebbe da considerarsi privato). Altro tema scottante riguarda il lavoratore dello spettacolo, una figura che fino ad oggi non è quasi stata presa in considerazione dalla legislazione e che necessita di una struttura diversa che comprenda forme contrattuali più agevoli e tutelate.

Per ogni tema trattato (di cui non si vuole fare un resoconto esaustivo) il nucleo base di C.Re.S.Co. ha elaborato specifiche azioni concrete attraverso le quali si potrà, in futuro, arrivare ad una messa in pratica degli ideali esposti. Proprio su questo fronte si muoverà Ugo Bacchella insieme alla Fondazione Fitzcarraldo – di cui è presidente – che si è resa disponibile ad effettuare una ricerca reale rispetto alla posizione del lavoratore dello spettacolo; dati che, si pensa, saranno molto diversi da quelli dichiarati all’Enpals e che non serviranno ad un confronto diretto con le istituzioni, bensì a stilare uno studio di settore che porti alla configurazione di profili e contratti più realistici rispetto alla situazione attuale.

L’impresa sembra decisamente ardua ma i presupposti sono ottimi, a partire da un’assunzione di responsabilità da parte di tutte le persone ed enti aderenti al C.Re.S.Co., le quali si impegnano a seguire un codice deontologico che agisca sulla base di un “patto tra generazioni”, il cui obiettivo è quello di attuare dialettiche di scambio e partecipazione attraverso politiche di trasparenza e confronto. Molti i dubbi sulla possibilità di riuscire ad aderire pienamente al codice, soprattutto finché la situazione resta quella attuale. Quello che è emerso, dal confronto tra diverse realtà, è che il cambiamento non deve essere lasciato in mano ai giovani (sui quali si sta scommettendo fin troppo) perché sono le dinamiche attuali che hanno portato ad un sistema, ad una generazione, destinati all’estinzione. Se non si procede subito alla salvaguardia di questo fermento – che da tre anni a questa parte si sta facendo sempre più vivo – arrivando a soluzioni concrete, assumendosi la responsabilità di mettere le basi per un reale cambiamento del sistema, stilando delle buone pratiche che non restino inattuate, tutto ciò che conosciamo come contemporaneo potrebbe sparire.