Recensione a Banquo e Fiordipisello – di Accademia degli Artefatti
Tutti conosciamo Amleto, Giulio Cesare, Romeo e il monologo della rosa, la follia di Riccardo III e quella di Re Lear. Ma chi si è accorto della balia di Giulietta, di Polonio, delle fatine che popolano il mondo incantato di Sogno di una notte di mezza estate? O di cosa ne pensavano personaggi non poi tanto secondari, ma non certo protagonisti, come il Fool di Lear, Banquo, Mercuzio o Calibano? Queste sono storie minori, tagliate, a volte di servizio; ma non per questo meno importanti, senza dover per forza scomodare quel mugnaio Menocchio che ha portato l’italiana microstoria di Ginzburg e Levi alla ribalta del dibattito internazionale.
C’ha pensato Tim Crouch, autore-attore di punta della scena britannica contemporanea, a dare voce a chi, nell’opera shakespeariana, non ce l’ha avuta: nella pentalogia – forse destinata a crescere – I, Shakespeare i protagonisti sono proprio quelli che mai avremmo immaginato di seguire, dal mostro della Tempesta al poeta Cinna, da Malvolio a Banquo, irriducibile compagno di Macbeth, a Fiordipisello, uno dei magici servi di Titania, la regina del Sogno. Quell’I, “io”, del titolo, davanti al nome del personaggio, suona infatti quasi come una rivendicazione, per un minore o comprimario che per la prima volta nella storia sale sul palco a dire la sua, una propria versione dei fatti. È un taglio stimolante rispetto alla grande tradizione delle riscritture shakespeariane – sulla scia di grandi apripista come Tom Stoppard e Greenaway, ma anche, restando più nei paraggi, nei confronti dell’approccio spesso dimenticato del grandattore italiano, per cui Il mercante di Venezia, nella versione di Ermete Novelli, diventava semplicemente Shylock – e diventa particolarmente interessante in quest’anno di forti riallestimenti, da Bob Wilson a Barberio Corsetti, da De Rosa alla Compagnia della Fortezza di Armando Punzo (che proprio negli ultimi anni sta lavorando sui personaggi minori del Bardo), fino alla prossima Biennale Teatro di Àlex Rigola, che riunirà a Venezia dall’1 all’11 agosto, tanti maestri della scena internazionale sotto il segno di Shakespeare. Punti di vista quantomeno insoliti, in certi passaggi inaspettati o addirittura illuminanti, che riescono ad avvicinare la grande opera shakespeariana anche a chi ne sa poco o nulla.
Come? Ognuno a suo modo, com’è possibile vedere dalle varie tonalità che assumono i diversi esiti – due per il momento: Banquo e una prima lettura di Fiordipisello, mentre Calibano sarà presentato in forma di studio proprio alla Biennale di Venezia – del progetto scenico messo in opera dall’Accademia degli Artefatti di Fabrizio Arcuri sui testi di Crouch: Banquo (Enrico Campanati), ormai fantasma dopo l’assassinio per mano del suo migliore amico, torna a fare i conti con la profezia che apre il Macbeth, e dunque coi rapporti fra realtà e fantasia, con il potere dell’immaginazione; solo in una scena bianchissima, accompagnato dal tecnico che all’occasione assume le vesti del figlio Fleance (Matteo Selis), ripercorre tutta la storia fin dall’inizio, illuminando qua e là i passaggi ulteriori di uno sprofondamento sempre più irresistibile verso la concretizzazione dei desideri più oscuri e imbrattando di sangue visibilmente finto tutto il candore del palcoscenico. Fiordipisello (Matteo Angius), invece, si risveglia, con vistosi postumi, dopo le triple nozze dei protagonisti che coronano il finale e ributta sul palco il labirinto di vicende del Sogno, per frammenti, analogie, ricordi, senza ordine né sequenza, accompagnato in scena dal regista stesso, nelle veci di un tecnico a vista. La grande storia e il mito che vi si è creato intorno vengono restituiti all’interno di un proprio, seppure immaginario, contesto, rivisti in un approccio che ne umanizza tempi, modi e protagonisti: «non ci sono, non devo sapere le battute e sono un folletto: questo non è il mio spettacolo», ricorda Fiordipisello.
Ma se, nella scrittura di Crouch, l’opportunità è quella, attraverso un punto di vista alternativo, di decostruire e ricomporre le storie seguendo altri fili, nel rapporto ormai pluriennale che vi ha instaurato il lavoro degli Artefatti, l’esito è anche quello della decostruzione del teatro e del lavoro dell’attore. I semi drammaturgici sono quelli che abbiamo imparato a conoscere fin dal suo primo testo, My arm – pezzo forte della compagnia romana che, nei suoi ormai sei anni di vita, ha battuto i palcoscenici di tutta Italia e non a caso è stato posto a inaugurazione di Tim Crouch a pezzi, rassegna nella rassegna al Teatro Belli di Roma per Trend di Rodolfo di Giammarco all’interno di cui sono stati presentati entrambi i lavori –, dal mescolamento di alto e basso al gusto per la parodia e l’ironia, dal racconto per frammenti al recupero del soggetto – tutti elementi ormai tradizionali della cultura postmoderna, in teatro ribattezzata “postdrammatica” da Hans-Thies Lehmann –, fino alla predilezione per un punto di vista insolito e alla centralità della presenza del pubblico. Insomma, l’interrogazione dei limiti consueti fra realtà e finzione, della tradizionale sospensione dell’incredulità e dei processi di immedesimazione. In breve, dello statuto attuale della rappresentazione. Ma, come vedremo, l’intervento autoriale di Fabrizio Arcuri e dei suoi attori permette di intravvedere un passo ulteriore, che sposta ancora più in là l’ormai consolidato canone delle relazioni fra finzione e realtà (la finzione è realtà, e viceversa) che ci provengono in eredità dritti dal cuore della società dello spettacolo.
In Banquo e Fiordipisello tutto questo è portato all’estremo: la prospettiva alternativa si esercita sui canoni stessi della cultura occidentale – la scrittura shakespeariana, che, immaginiamo, in Gran Bretagna possa essere come Dante da noi –, mentre la presenza dello spettatore è sempre sottolineata, invocata, determinante. Infatti, se la storia è narrata da un punto di vista minore, è lecito chiedersi: che fine hanno fatto Macbeth e la sua Lady? E Titania, Oberon, Puck, con la loro selva di inganni? La risposta di Crouch è che stanno fra il pubblico, perché, in questo come in altri suoi pezzi, lo scopo è quello di attivarlo; non a caso anche Carlo Ginzburg ha sottolineato più volte che il suo approccio microstorico – una scrittura più romanzesca che analitica, volta a seguire le vicende minori, quotidiane, perdute – si incastonava in un più ampio progetto di attivazione del lettore.
Così, volta per volta, l’attore chiama e coinvolge gli spettatori, a identificare questo o l’altro protagonista – seminando il terrore, in grande coerenza con la pièce, nell’esplosione di sangue di Banquo, con maggior delicatezza nell’interpretazione di Fiordipisello.
L’approccio all’attore e alla messinscena che distingue il lavoro più che ventennale dell’Accademia degli Artefatti è capace di virare tutto questo materiale drammaturgico verso la scomposizione del dispositivo teatrale stesso. Ne abbiamo visto gli esiti, in un lungo percorso di ricerca che si è mosso fra la nuova drammaturgia britannica e Pirandello, arrivando negli ultimi anni fino a Brecht, seguendo il fil rouge della legittimità stessa del teatro, della possibilità della rappresentazione al giorno d’oggi, dello status dell’attore in scena. Scoperchiando dispositivi scenici, scavando l’identità performativa fra attore, personaggio e persona, chiamando lo spettatore, ben al di là del discorso co-autoriale, a partecipare alla costruzione stessa della finzione. In quest’ultima linea progettuale legata a Tim Crouch, sembra possibile osservare un passo ulteriore – certo saldamente presente in nuce nei lavori precedenti – nella ricerca che la compagnia romana ha sviluppato, negli anni, intorno alla rappresentazione.
Tradizionalmente, l’immissione di frammenti di realtà all’interno della scena – un trucco svelato, un cambio a vista, un personaggio che si “scopre” attore – si svolge nei termini di un’incrinatura dell’universo fictional creato sul palcoscenico. Niente di nuovo: è una strategia dialettica del teatrale che va dal coro greco alla body art, passando per il meta-teatro e lo straniamento brechtiano, ma anche per la nebulosa del cabaret e dell’avanspettacolo, vivaio e laboratorio della lunga tradizione dell’attore-autore italiano che ha formato artisti come Petrolini, Totò e Dario Fo. E poi lo svelamento della realtà della finzione ha rappresentato la chiave di volta della grande rivolta delle neoavanguardie, ripreso a canone del pensiero e dell’estetica postmoderne. Ma che succede se, parallelamente, si cominciano a innestare semi di finzione nella realtà? L’approccio dell’Accademia degli Artefatti sembra oggi carezzare questa doppia strada; non solo quella dello svelamento della realtà al di sotto dei dispositivi di rappresentazione: il cortocircuito fra reale e immaginario, fra interpretazione e immedesimazione qui va ben oltre le colonne d’Ercole della performatività come l’abbiamo sperimentata finora.
Facciamo un esempio. In entrambi gli spettacoli – a maggior ragione Fiordipisello, che è una prima lettura scenica – coesistono sul palco l’attore e il personaggio cui dà voce. Non crediamo – nessuno l’ha mai creduto, neanche negli allestimenti più mimetici e naturalistici – che Macbeth uccida davvero Banquo o che Bottom si trasformi in un asino, così come che Matteo Angius sia un folletto o Enrico Campanati un fantasma; eppure in parte lo sono, in virtù di quel sottile e prezioso legame che intreccia persona, attore e personaggio. Sono tutt’e tre le cose contemporaneamente, l’Accademia degli Artefatti ce l’ha dimostrato più volte. Ma è un meccanismo che, spesso, resta incorniciato dal proscenio, rischiando di incepparsi e rivelarsi come ultimo ricostituito confine del fictional, soltanto spostato un poco più in là; che succede, invece, quando un dispositivo del genere si applica anche allo spettatore? È ovvio che, una volta chiamati da Fiordipisello-Angius a vestire i panni di Titania, la spettatrice in questione non crederà mai di essere la regina delle fate o Lady Macbeth, se additata da Campanati; eppure il “terrore” seminato in platea in Banquo è palpabile, autentico, così come la possibilità di diventare, seppure per un momento, il folle re shakespeariano; ovvero di esperire la seduzione del potere e la potenza dell’immaginazione, che – è Shakespeare a dirlo, in fondo – può riguardare l’uomo qualunque, ognuno di noi. E non solo in teatro, è chiaro.
Quello che pare emergere – paradossalmente, attraverso una rivalorizzazione del fictional, anche con un’evidenziazione senza scrupoli degli elementi di scena, come il sangue finto o le alucce luccicanti da folletto – è il doppio filo che tiene insieme immedesimazione e straniamento, realtà e rappresentazione, come due facce irriducibili della stessa medaglia, ovvero la molteplicità dei flussi che si muovono e qui sono tenuti assieme fra l’uno e l’altro polo del teatro. E, a questo punto è il caso di dirlo, della realtà.
Roberta Ferraresi
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