intervista teatro sotterraneo

Daimon Project: intervista a Teatro Sotterraneo

Sara Bonaventura, Claudio Cirri e Daniele Villa: questa la nuova formazione di Teatro Sotterraneo, il collettivo formatosi nel 2004 a Firenze. Li abbiamo incontrati a MEIN HERZ, in scena al festival di Centrale Fies con i due nuovi lavori che costituiscono, per il momento, il Daimon Project: BE LEGEND! e BE NORMAL! (quest’ultimo presentato a Santarcangelo 13 e Drodesera XXXIII in forma di studio). La conversazione con Villa e Cirri ci ha consentito di approfondire il progetto e ha tracciato possibili orizzonti in dialogo sia con la riflessione su nuovi linguaggi artistici, che con le necessità determinate dalla ridefinizione del gruppo teatrale. Le cifre poetiche di Teatro Sotterraneo entrano in relazione con l’immediatezza dei bambini, dando vita ad affascinanti meccanismi scenici. Dopo aver presentato il terzo episodio di BE LEGEND! a ottobre a Contemporanea Festival (oltre Hamlet e Jeanne D’Arc è stato portato in scena anche Hitler), giovedì 21 novembre debutta lo spettacolo BE NORMAL! al Teatro Bolognini di Pistoia.

Be Normal! foto di Andrea Pizzalis

BE NORMAL! foto di Andrea Pizzalis

Come sono nati BE NORMAL e BE LEGEND?
Claudio Cirri: I due spettacoli fanno parte di Daimon Project, un progetto che vorremmo fosse almeno biennale; il discorso sul daimon si sviluppa di anno in anno e con esso le tensioni e le voglie. Quando abbiamo iniziato a parlare di cosa avevamo voglia di tornare a dire dopo un anno di non produzione teatrale (inclusa la pausa per la creazione dell’opera Il Signor Bruschino), abbiamo ristretto il campo al discorso del daimon. Ci premeva capire cosa si intendesse per vocazione: è stato come mettere un punto di riflessione per domandarsi “come sei finito a fare questo lavoro?”, “perché lo stai facendo?”. Dall’interrogativo specifico su noi stessi, la questione si è aperta al daimon in generale e si è declinata nella forma di BE LEGEND! – ovvero l’infanzia di personaggi famosi che hanno incarnato il proprio daimon –, e di BE NORMAL! – la vita quotidiana di persone che famose non lo diventeranno mai, alle prese con il proprio daimon che pulsa.
Vorremmo continuare a lavorare sia sullo schema della giornata costituita dalle 24 ore di BE NORMAL!, sia sugli episodi di BE LEGEND!, a cui si aggiunge ora l’infanzia di Hitler e successivamente (forse) altre figure. Trattandosi di episodi che si susseguono, dovremmo capire come può funzionare il progetto nella ripetizione del tema, cercando di conservare tanto la completezza nell’insieme quanto l’autonomia del lavoro singolo.
Uno dei possibili sviluppi del Daimon Project è legato all’incontro con gli adolescenti per capire come pulsa il demone in loro. L’idea è quella di creare una performance, alla fine di un percorso laboratoriale – ipoteticamente replicabile in altri luoghi – con un gruppo di adolescenti trovati in loco, che ripresentano il lavoro adattandolo sulla loro pelle: una sorta di format che possa essere replicato, con variazioni, nei luoghi che accoglieranno il progetto.

Come siete entrati in contatto con i bambini di BE LEGEND?
C.C.: Non c’è nessun tipo di selezione dei bambini per partecipare al progetto, se non la loro disponibilità e l’età. L’idea è quella di lavorare insieme al bambino che abbia caratteristiche del “bambino”: con le sue fragilità, la sua incertezza e l’evanescenza del suo stare in scena.

Com’è lavorare con i bambini?
Daniele Villa: Molto divertente! Hanno una qualità rispetto a tutti i soggetti che ci è capitato di dirigere (da attori e cantanti lirici): molto del nostro lavoro è fatto di passaggi alogici, perché è il meccanismo scenico che ci interessa e il bambino questo lo coglie, non ha bisogno di filtri e domande interiori; il bambino coglie l’immediatezza dell’azione e la fa sua, la pratica. Se all’inizio ci preoccupavamo che potesse incamerare solo alcuni degli appuntamenti mnemonici che ci sono nel lavoro, in realtà lui li ferma subito e ha anche la prontezza nell’eseguirli. Capisce che è un gioco e che non vige la regola causa-effetto, ma ne coglie l’efficacia e gioca. I bambini ci trasmettono molta energia e molti stimoli: sarebbe potuto risultare faticoso ogni volta rimettere in prova uno spettacolo in una sola giornata di lavoro con il bambino; invece questa fatica viene ogni volta totalmente superata dal divertimento nel trovare in lui il dispositivo che noi abbiamo pensato e la specificità con cui lo fa. Questo è impressionante perché il tuo stesso spettacolo, ogni volta che viene ripresentato, si riforma, si reinventa.

Come è avvenuta la scelta dei personaggi degli episodi di BE LEGEND?
D.V.: Abbiamo fatto una lista di tutti i personaggi fictionali e reali che ritenevamo più potenti dell’immaginario e valutato i più interessanti. Ne è uscita una graduatoria che ha visto vincitori Giovanna D’Arco e Hitler, poi Amleto, il quale è scalato di posizione in virtù di un rapporto di sana committenza: il Teatro Franco Parenti ha presentato un progetto titolato 13 variazioni su Amleto dalla scena under40 e il primo episodio è diventato di conseguenza Amleto. Per noi è stato tuttavia molto utile dal punto di vista dell’approccio al progetto perché stiamo reinventando le infanzie e avere come soggetto un personaggio che l’infanzia non l’ha avuta, ci ha mostrato un contrasto molto chiaro.

Altri personaggi dopo Giovanna D’Arco, Hitler e Amleto?
D.V.: Abbiamo una hit parade attiva, con un Che Guevara in ottima posizione e altri personaggi, da Andy Warhol a Mahatma Gandhi! Probabilmente quando guarderemo a posteriori ai primi tre episodi sviluppati, capiremo – negli equilibri – qual è il personaggio che ci chiama. Finora abbiamo affrontato tre figure sanguinarie, questo potrebbe essere un elemento su cui riflettere prima di scegliere il prossimo personaggio.

Nel vostro percorso, non avete mai lavorato con gli adolescenti?
D.V.: Sì, abbiamo fatto spesso dei laboratori con gli adolescenti ma ci piacerebbe riavvicinarci a loro per il Daimon Project perché tutte le volte che ci abbiamo lavorato – da Firenze, a Scampia e Trento – abbiamo recepito una potenza talmente informe che cerca dei canali per esprimersi e rappresentarsi – che è proprio una cosa di cui i bambini hanno bisogno – con la quale vorremmo confrontarci. Ma per il momento rimane solo un’idea progettuale, non c’è ancora nulla di programmato a livello produttivo.

Nel progetto laboratoriale si creerebbe lo slittamento da un solo bambino a una molteplicità di ragazzi in scena?
D.V.: Per quanto riguarda gli adolescenti, sicuramente ci piacerebbe lavorare sulla massa; mentre per BE LEGEND! continuerà a esistere il rapporto tra un bambino e un episodio, perché si tratta di conoscere un mito cristallizzato, riapplicarne delle tracce al bambino che rendano riconoscibile il suo destino futuro e in tutto questo vi è un principio di solitudine che non è perdibile… Anche se ogni tanto scherziamo sul fare un episodio sui Beatles e avere quattro bambini in scena! Abbiamo riflettuto sulle entità costituite da più personaggi, ma vi ritorneremo perché è questo un progetto che cresce nel tempo e le prossime tappe emergeranno anche in relazione alla vita.

foto di Andrea Pizzalis

foto di Andrea Pizzalis

Come si riversa tutto questo lavoro con i bambini, con dei corpi che non hanno filtri, su BE NORMAL?
C.C.: Non so se si riversi il lavoro specifico con il bambino, forse la cosa che incide di più su BE NORMAL! è capire come far fronte alla biunivocità di due persone sole in scena, mantenendo il ritmo e la frenesia che creiamo in tre: io, Sara e il bambino.
D.V.: Con il bambino riesci ad arrivare fino a un certo grado di equilibrio fra menzogna e credibilità, e anche di poesia, perché cogli in lui una fragilità estrema nell’incarnare questa contraddizione. La domanda diventa come riuscire a portare questo tipo di intreccio – tra vero e falso, e allo stesso tempo poetico – su corpi adulti. Quando sono sul palcoscenico, i bambini sembrano immersi in un qualcosa di più grande di loro e mi piacerebbe riuscire a fare questo anche con degli adulti, ritrovando la stessa generosità.
Claudio e Sara riescono a portare in scena – quella che è poi cifra di Teatro Sotterraneo – il discorso della sospensione dell’incredulità e al tempo stesso della presentazione e quando il bambino è in mezzo a questo meccanismo, sento strizzarmi i polmoni. Questa è la cosa che mi affascina e che mette in relazione i due spettacoli.

… Quindi state cercando il vostro daimon?
D.V.: Il nostro daimon ci ha già trovati e ci ha inguaiati per molti anni a venire, temo! Al di là della specificità del teatro, quando parli del daimon parli di ciò per cui pensi di essere nato e, molto spesso, del fatto che “non è che fai ciò che vuoi”, ma “fai ciò che non puoi non fare”. Se quello che non puoi non fare è l’artista – in senso lato – e sei chiamato a farlo in un settore che, oltre a non dare garanzie, guarda al futuro come a una landa post-atomica, non solo il daimon ti ha trovato ma ti ha instradato in questo deserto. Quindi non è che lo stiamo cercando, ma stiamo tentando di non morire insieme a lui. Noi ci sentiamo molto sacrificabili in questo senso: non pensiamo affatto che se il nostro daimon era creare opere e diffonderle allora vuol dire che continueremo a farlo. Non è affatto impossibile sparire, anche domani. Il rapporto con il daimon è a questo grado di complessità: non si tratta di seguirlo ciecamente, ma di capire dove ti sta portando.

In BE NORMAL! vi è la scena della rapina che segna un passaggio drammaturgico molto forte per il lavoro e, allo stesso tempo, chiamando in causa la figura di Berlusconi, rappresenta un frammento incisivo della società…
D.V.: Nel montaggio ci siamo posti delle domande riguardo la rapina perché è l’unica scena in cui non abbiamo a che fare con nessuno dei due performer (Claudio e Sara, ndr), ma con altre figure. Tutto il meccanismo viene calato su loro due e poi immediatamente aperto, c’è un orizzonte personale ed epico che continua a oscillare tra questi due piani fino a divenire un “personale fatto di archetipi”. Essendo un meccanismo narrativo costruito su di loro, ci interessava che in questa parte di giornata – il mattino (pomeriggio e sera verranno sviluppate in seguito, ndr), incrociassero altre narrazioni, per andare a comporne una più ampia, anche se per narrazione intendiamo sempre qualcosa di esploso.
Nella “pseudo” narrazione della giornata i fatti che riguardano i due soggetti si intrecciano ad altri eventi. Incrociano una rapina, che è una tecnica di sopravvivenza estrema, è una maniera di procurarsela con l’azione diretta, violenta e armata. Nel nostro caso tra l’altro il furto non si svolge in banca ma in un museo; si torna alla questione teatrale: i rapinatori rubano “merda d’artista” e i teatranti si confrontano con il mercato dell’arte. Fanno questo indossando la maschera di Berlusconi che ride, un’immagine che ormai è di per sé al tempo stesso quotidiana e archetipica.
C.C.: Aggiungo un ulteriore passaggio che può essere un precipitare nel quotidiano, nell’attualità nel senso più stretto, rappresentato nello spettacolo da Berlusconi che con un barattolo di merda minaccia con la pistola un licenziato…

foto di Andrea Pizzalis

foto di Andrea Pizzalis

D.V.: Ci ha sempre affascinato il rapporto che abbiamo con quella figura ma ne siamo talmente esausti che qualsiasi cosa venga fatta, rischia la banalizzazione. È possibile che nessuno si inventi qualcosa per parlarne senza essere una prima pagina del quotidiano? Qualcuno doveva usare quel segno e noi abbiamo cercato di trovare i modi più indiretti. Già in un primissimo studio di Homo Ridens venivano utilizzate delle registrazioni di sue barzellette, vie indirette per tornare a quello che ha oramai segnato un’identità, che rischia di non essere più soltanto un’anomalia italiana…

È un segno che è entrato nella “normalità”…
D.V.: C’è una nuova normalità che parte da quell’input, che segue uno schema il cui imprinting è quello del berlusconismo. Quindi si può stare qui dentro a non parlarne, oppure puoi interrogarti su come usare quel segno senza fare della retorica politicoide. Noi ci abbiamo provato.

Intervista a cura di Elena Conti e Carlotta Tringali

Prossime date di BE NORMAL!
21 novembre > Prima nazionale _ Teatro Bolognini di Pistoia
26 novembre > Monsummano Terme
8 dicembre > Teatro Mattarello di Arzignano
16 aprile 2014 > Teatro Comunale di Bolzano

di BE LEGEND!
6 dicembre > Cinema Teatro Italia di Soliera
1 febbraio 2014 > Teatro Magro di Mantova
7 febbraio 2014 > Teatro al Parco di Parma
22 febbraio 2014 > Teatro Yves Montand di Monsummano Terme

Intervista a Teatro Sotterraneo

Intervista a Daniele Villa a cura di Camilla Toso

foto di Angelo Maggio

Teatro Sotterraneo ha aperto Primavera dei Teatri con Dies Irae_5 episodi intorno alla fine della specie, spettacolo che ha riscosso grande successo anche qui a Castrovillari, dove ogni anno si ripete il miracolo di questo incredibile Festival, che dopo undici anni di lavoro e costanza ha creato un pubblico affezionato e assiduo. Abbiamo incontrato Daniele Villa dramaturg e portavoce del gruppo per approfondire alcune tematiche del lavoro della compagnia fiorentina.

In questa breve intervista alcune riflessioni intorno ai punti cardine della poetica della compagnia, dai riferimenti bibliografici al processo creativo collettivo insieme a un parere sul senso di appartenenza alla cosiddetta “Generazione T”.

Il vostro nuovo lavoro ruota intorno all’origine della specie mentre quello precedente era basato sulla sua fine. Da dove siete partiti per questo lavoro su tematiche così opposte e complementari?

Queste due tematiche sono collegatissime, sia a livello nominale, che distributivo, che di linguaggi, sono un dittico a tutti gli effetti. Lo definiamo “Dittico sulla specie”: la prima parte era sull’estinzione, sull’esaurimento, quindi Dies Irae_5 episodi intorno alla fine della specie; la seconda, invece, sull’origine della specie. L’Origine delle specie_da Charles Darwin è un lavoro basato sull’opera più importante di Darwin – l’opera che ha fondato il darwinismo nel mondo – e su tutte le problematiche e i conflitti che ne conseguono. Un lavoro che si allarga al concetto di origine in senso più ampio, saccheggiando la scienza: dall’immaginario del laboratorio scientifico alle sperimentazioni sul subatomico, sul big-bang, fino ad una riflessione più poetica. Quello che ci interessava molto con Dies Irae, era di interrogarci sulla scomparsa, quindi di lavorare teatralmente facendo un discorso di tipo archeologico. Mentre cominciavamo a lavorare a Dies Irae abbiamo preso un accordo di collaborazione con il Metastasio – lo Stabile della Toscana – con il quale abbiamo scelto di lavorare su un’opera, e di confrontarci con un testo letterario o di altro tipo. Abbiamo scelto immediatamente l’origine delle specie di Darwin che ci permetteva di confrontarci e di fare un discorso ciclico creando quindi un dittico.

Oltre a Darwin quali sono i vostri riferimenti bibliografici?

I riferimenti sono sempre una domanda molto complessa specialmente per Dies Irae, composto da cinque episodi: nel primo episodio ci sono riferimenti all’arte visiva, mentre nel secondo il riferimento è chiaramente radiofonico, quindi a tutta una serie di progetti cui abbiamo partecipato, il terzo episodio riguarda la fotografia, quindi abbiamo per esempio analizzato Walter Benjamin.

Si tratta di una mappatura molto complessa. Per l‘Origine delle specie abbiamo saccheggiato tutta l’opera di Darwin con qualche deviazione in campo scientifico, con grande cautela, – insomma non siamo degli studiosi di fisica quantistica – però volevamo interrogarci sul big-bang come concetto di origine e sul rapporto con il cosmo e l’extraterrestre. Questo è stato uno degli spunti che abbiamo trovato nel campo scientifico con particolare riferimento a Darwin. Per Dies Irae, invece, abbiamo indagato tutta una serie di campi inerenti ai cinque episodi che ci sembravano parlare della fine, dell’esaurimento, della scomparsa. Quindi della specie umana come reperto archeologico e non come specie vivente.

Certamente la tematica scientifica è una delle centrali in questo periodo. Non solo per le giovani compagnie come voi ma anche per registi più affermati. Sono molti i lavori che esplorano il confine tra scienza ed arte…

È sicuramente una tensione con cui un artista è chiamato a confrontarsi. Ci sono due livelli: uno per il quale la scienza sta superando i limiti noti e riconoscibili della creatività umana – nel senso che ci si sta avvicinando veramente a creare la vita – questa è un tipo di tensione generatrice. L’altro livello riguarda le nostre ossessioni: siamo ossessionati nella scienza – ancor di più nell’immaginario collettivo – dall’idea dell’auto-annientamento. Questi sono due poli nei quali ci si muove continuamente, evidentemente gli artisti sentono il bisogno di confrontarcisi, attraverso la propria poetica e le proprie ossessioni. Il nostro gruppo ha sempre avuto una particolare predilezione per la morte e l’estinzione, evidentemente è uno dei punti di incontro dei cinque componenti della compagnia.

Le vostre creazioni sono sempre firmate come “produzione collettiva”. Come funziona quindi il vostro processo creativo, come si sviluppa il lavoro?

Il processo creativo funziona secondo un metodo. A noi non piace molto sederci su un metodo fisso, per cui abbiamo costruito negli anni un modo di lavorare insieme che viene messo in discussione e di cui cerchiamo di forzare i bordi. Noi selezioniamo un campo di indagine: in Dies Irae era la fine della specie in termini archeologici e non apocalittici. Una volta selezionato attuiamo una serie di pratiche che sono l’improvvisazione, la ripresa con il video, la documentazione teorica, l’ideazione a tavolino che poi viene verificata in sala. Questo produce nei mesi, nell’anno di lavorazione, una serie di materiali che poi vengono selezionati. Quando sono pronti i materiali ci si chiude in residenza, quindici-trenta giorni, anzi due tre residenze di quindici giorni di fila, ci si chiude in sala e si fa una messa a punto.

Ma non c’è mai qualcuno che dirige le improvvisazioni, che sceglie…

C’è sempre un dato individuale, nel senso che c’è una proposta che arriva dal singolo e che viene messa in condivisione e a cui si arriva tutti insieme. Però è un discorso decisamente instabile, difficilmente uno dirige gli altri: piuttosto uno ha un’intuizione che fa chiarezza su uno specifico obiettivo e magari rappresenta due minuti di spettacolo su sessanta. Altre volte invece uno pensa di  essere sulla giusta strada e viene contestato dagli altri quattro. È un processo poco direttivo e molto orizzontale. È un lavoro lento e doloroso: spesso devi difendere le tue ragioni da attacchi forti e, spesso, cose in cui tu credevi magari non arrivano a sopravvivere. È un processo di selezione naturale, perciò si presume che sopravvivano le cose più adatte all’habitat in cui si muovono. Quindi quello che va in scena è ciò che più aderisce al gruppo, rappresenta e incarna il sentire del gruppo.

Tu stesso dici che a volte il processo produttivo può essere lento. È possibile far convivere il tempo creativo con i ritmi di produzione – che in questo periodo mi sembrano accelerati in maniera inverosimile soprattutto per le giovani compagnie?

Noi ci prendiamo il giusto tempo. Fa parte della professionalità e della capacità artigianale di un gruppo sapersi confrontare con le scadenze, sapersi muovere all’interno di meccanismi più grandi di noi, che riguardano anche altri gruppi in residenza insieme a noi, o i meccanismi delle direzioni dei festival che hanno una progettualità annuale e quindi devono far quadrare i conti e i tempi. Quindi, di solito, ci prendiamo il tempo che ci serve. Ad esempio il “dittico” nel suo complesso ha preso quasi due anni di lavoro. Abbiamo cominciato a lavorare a Dies Irae dandoci un anno e mezzo, poi è entrato in cantiere anche il progetto dell’Origine delle specie e abbiamo capito come far stare entrambi i prodotti nell’arco di due anni di tempo. Quindi siamo rientrati in quella scadenza ed era il tempo che reputavamo necessario.

Cinque episodi per cinque festival… Una scelta premeditata?

È stata una scelta a priori, noi volevamo lavorare sulla serialità. È una cosa che ci ossessiona molto perché è una delle qualità che ha adottato la specie umana per raccontarsi, già in tempi antichi. Noi non lavoriamo sulla narrazione, quindi scomporre è anche più facile. Restituire un immaginario per pezzi fa compiere allo spettatore un atto interpretativo importante nel momento in cui cerca un senso comune per i vari pezzi, in cui cerca un quadro di senso per rendere unitaria l’opera. Ovviamente è responsabilità nostra dare degli strumenti, degli elementi che diano un senso di unità. Il fatto che l’opera sia scomposta e “serializzabile” – sia attraversabile con linguaggi diversi, con poetiche e oggetti diversi – ci interessa moltissimo. Quindi è stata una scelta fatta a priori: volevamo un’opera che fosse divisa in cinque parti, prima ancora di sapere che cos’era ogni singola parte, noi sapevamo che erano cinque.

È stata una scelta che ha dato un risultato interessante a livello distributivo, perché abbiamo fatto un episodio in ogni festival, che equivale a un debutto in ogni festival. La gente veniva perché c’era un episodio, uno studio che non aveva visto. A noi piace presentare studi perché abbiamo un certo tipo di rapporto con il pubblico e facciamo anche un tipo di lavoro in cui è essenziale verificare quello che si sta facendo. Non li definiamo studi perché ti protegge o tutela o perché non è un lavoro finito. In realtà il primo episodio finisce, poi il secondo, poi il terzo… Quindi è più un pensiero sulla serialità e sulla distribuzione geografica della serialità. È un pensiero anche sui festival e sul fatto di appartenere ad un circuito di proposte e di progetti.

Come gruppo vi sentite appartenere alla cosiddetta “Generazione T”?

Ci sono dei segnali che danno l’idea di un movimento che si sta verificando, non in termini politologici, per cui un movimento coeso di valori e di obiettivi condivisi in cui tutti ci si muove, con gli stessi tempi e le stesse modalità, verso obiettivi condivisi. Per movimento intendo un movimento tellurico, cioè qualcosa che sta accadendo. Secondo me noi apparteniamo ad un tempo, e il tempo è fatto di accelerazioni e rallentamenti ed è un dato di fatto abbastanza riscontrabile che ci sia stata un’accelerazione negli ultimi anni, che alcuni attribuiscono ad un’iniezione di economie, che è stata temporanea e ridotta, ma che sicuramente ha contribuito. Però è anche un’accelerazione data da una serie di proposte, quei dieci/quindici gruppi che oggi puoi incontrare in Italia, non c’erano sette/otto anni fa. Ci sono state più accelerazioni che hanno dato vita ad un fenomeno. Ecco, noi apparteniamo a questo tempo e siamo dentro a questo fenomeno che si sta verificando.

Videointervista a Teatro Sotterraneo

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Ad aprire Primavera dei Teatri domani sera Teatro Sotterraneo. Riproponiamo l’intervista a Daniele Villa, dramaturg del gruppo fiorentino, condotta a Modena in occasione del debutto dell’ultimo episodio di Dies Irae_5 episodi intorno alla fine della specie.