Recensione a Vita agli arresti di Aung San Suu Kyi – di Teatro delle Albe
«È distante la Birmania? Eh? È distante?», così comincia Vita agli arresti di Aung San Suu Kyi, l’ultimo lavoro del Teatro delle Albe, con la regia di Marco Martinelli e protagonista – nel ruolo della politica birmana – Ermanna Montanari, in scena insieme a Roberto Magnani, Alice Protto, Massimiliano Rassu, che assumono di volta in volta il ruolo del Coro, dei generali del regime e degli altri personaggi dello spettacolo.
Forse, la Birmania potrebbe non sembrarci poi così distante perché, seppure il testo sia strutturato in 18 capitoli che ripercorrono passo passo la vita di Aung San Suu Kyi, le questioni che solleva sembrano irradiarsi fino a toccare la nostra quotidianità. Difficile, è vero, farvi aderire i modi estremi di un regime totalitario come quello che ha governato il Myanmar negli ultimi decenni; rischioso, cadere in generalizzazioni che minacciano di snaturare la specificità di quella situazione socio-politica; però è altrettanto complicato non cedere alla tentazione di svolgere qualche pensiero a riguardo, quando si parla dei personalismi che dominano l’azione politica dei leader delle società moderne, fino a toccarne il folle narcisismo, capace di schiacciare qualsiasi prospettiva sul bene comune e sulla cosa pubblica; quando si osserva il trattamento e la considerazione delle leggi da parte di coloro che dovrebbero difenderle e invece spesso le piegano ai propri fini, a proprio piacimento; quando il silenzio e la cecità delle istituzioni internazionali di fronte ai massacri che vengono perpetrati in ogni parte del mondo è determinato dai macro-interessi della geopolitica globale e così il distacco si converte irrimediabilmente in complicità; quando gli strumenti definiti per la critica politica, come il comico e l’ironia, sono sostenuti dal potere ed edulcorati in puro intrattenimento (lo dicono un duo che in Birmania ne ha passate di tutti i colori, i Moustache Brothers, facendo riferimento ai nostri comici televisivi); quando si rimbalza continuamente fra la verità che “è”, “non è”, “non c’è”; quando, per fare un ultimo esempio, si constata come «sin che la repubblica avrà molti che hanno bisogno di essere corrotti, e pochi che possiedono i mezzi di corrompere, la libertà non sarà che un nome» (e non è una novità, Suu-Ermanna lo legge da un testo di Foscolo di fine Settecento).
Soprattutto, in questo spettacolo si tratta dell’operatività mediatica del nostro tempo, che agisce intorno alle figure, azioni e vicende umane, ritagliandole dal loro contesto di appartenenza e innestandole nel piatto immaginario pop capace di fare un tutt’uno dei “vip” (siano essi cartoons, cantanti, politici o qualsiasi altra cosa), astraendole rispetto alla vita reale, ai suoi sacrifici e alle sue contraddizioni, e rendendole così distanti, inavvicinabili, incommensurabili. E, in questo modo, forse finendo anche col rischio di disinnescarne il ruolo, il portato, il senso. E comunque risolvendosi nel creare uno scarto difficilmente colmabile fra l’aura sovradimensionata e astratta di quegli “eroi” e la vita comune di ognuno di noi; vien da pensare che siano scelte quasi strategiche, che implicitamente impongono l’impotenza all’uomo comune, alle sue piccole possibilità di intervento nel quotidiano, il quale, per un proprio possibile riscatto, potrebbe in questo senso soltanto fruire delle gesta mitiche e mitizzate di quei personaggi, raccontate sulle pagine di giornale e nei servizi tv. “La Giovanna d’Arco birmana” titola un’intervista di «Vanity Fair» ripresa in scena, nonostante nello spettacolo la stessa Suu si fosse dimostrata piuttosto scettica a riguardo. È la sorte che è toccata a molti, fra gli eroi del nostro tempo.
Il lavoro del Teatro delle Albe, la scrittura di Martinelli, la presenza degli attori sembrano andare in una direzione completamente diversa. Si può pensare che si guardi ai possibili “eroi” del nostro tempo e del nostro mondo (qui e nel caso recente di Pantani, leggi la recensione). Molto più semplicemente, si tratta invece di uomini e di donne e, anzi, forse addirittura di provare a forzare la loro dimensione autenticamente umana, con tutti i sacrifici, le contraddizioni, le ambiguità e le difficoltà, all’interno delle pareti strette di quelle icone che i media hanno negli anni confezionato loro addosso; di provare a scrostare la patina di quelle immagini predisposte per il consumo, per tentare di vedere cosa c’è sotto, e riscoprire l’uomo, oltre l’orizzonte mediatico che ne imprigiona l’operato.
Il proposito sembra svolgersi – come suggerisce Nicoletta Lupia nell’intervista a Martinelli [leggi l’intervista] – attraverso un profondo trattamento di polarità opposte e nella tessitura dei rapporti che fra di esse si innescano: la luce e l’ombra, che plasmano la scena in un altorilievo di grande matericità; la vicenda individuale di Aung San Suu Kyi e la collettività con cui si confronta, incarnati rispettivamente dalla poderosa presenza scenica di Ermanna Montanari e dalla potenza dei momenti corali cui danno vita Roberto Magnani, Alice Protti, Massimiliano Rassu; la piccola storia, intima e individuale di Suu e le grandi nervature della vicenda politica birmana, campionata e ripresa attraverso giganteschi interventi video sulle pareti della scena; la lucida oratoria dei discorsi pubblici e l’esplosione comico-critica del duo dei Moustache Brothers; il dominio della parola, il trasporto che genera, di contro all’essenzialità dell’azione, sempre segnata da una distaccata compostezza; la potenza del rap birmano e le note più dolci, a base orientaleggiante; il taglio documentario che approssima il lavoro ai territori del reportage, dell’inchiesta, del reale e la spinta onirica che lo contrappunta, attraverso le affascinanti sonorità create da Luigi Ceccarelli, le grandi maschere terribili dei Nat – spiriti vendicativi della tradizione birmana, che nello spettacolo insidiano la protagonista ma anche il suo Paese – e, più in generale, l’approccio sintetico attraverso cui sono disegnati i diversi personaggi (il volto in bianco e nero di tre scimmie “non vedo-non sento-non parlo” per gli interrogatori della polizia, qualche gesto e oggetto particolari e sottolineati per caratterizzare l’uno o l’altro generale, i fiori sempre presenti fra i capelli di Suu, in Occidente chiamata “l’orchidea di ferro”).
E così la vicenda pubblica e nota di Aung San Suu Kyi, i suoi discorsi, gli arresti, il Nobel, si arricchisce delle sue paure di bambina e dei suoi sacrifici di adulta, della sofferenza per la perdita del padre e di quella per l’impossibilità di riabbracciare la famiglia in Europa, delle costrizioni materiali e spirituali di ogni giorno; l’unicità della sua storia individuale si complica dell’apporto e del sacrificio dei suoi compagni nella lotta per la democrazia e la giustizia (rievocati ad ogni occasione nello spettacolo); i propositi politici della resistenza, infine, trascolorano anche in un forte posizionamento etico basato sul perdono, la non violenza, il dialogo, capace di travalicare qualsiasi specificazione di contesto e ogni categorizzazione rispetto a questo o l’altro partito politico, e, così, di rivolgersi al mondo. Parla di “rivoluzione spirituale” l’Aung San Suu Kyi del Teatro delle Albe, di un altro modo di pensare, di vivere, di rapportarsi all’altro, scontrandosi anche con la massima brechtiana che vorrebbe “prima il cibo, poi la morale” (è il fantasma del giovane drammaturgo d’Augusta a portarla in scena), una richiesta che si rivela molto simile a un proverbio birmano, a cui Suu risponde che l’avidità umana spesso è molto più grande dello stomaco – posizione che ribadisce il rifiuto della soddisfazione individuale a scapito del benessere collettivo, oltre a dare inoltre qualcosa da riflettere sull’intreccio delle linee brechtiane e non nella ricerca delle Albe (per esempio nella combinazione fra straniamento e coinvolgimento).
Lo spettacolo è scandito da 18 scene, ognuna dedicata a un evento-chiave dell’esistenza di Aung San Suu Kyi e della vicenda novecentesca della Birmania: «tutto ebbe inizio quando la piccola Suu aveva soltanto due anni […] Quando Aung San il padre di Suu il padre della Nazione venne assassinato […] Tutto ebbe inizio quando siamo troppo piccoli per ricordare, quando il nostro ricordo nella nebbia sono i racconti degli altri», così si inaugura la storia raccontata dal Teatro delle Albe, a partire dal 1947; e si sviluppa attraverso le tappe della vita di Aung San Suu Kyi, dall’infanzia segnata dall’omicidio del padre, dopo la guida della resistenza che allontanò il colonialismo britannico dal Paese; poi con l’esilio in Occidente in cui si dedica agli studi e a una nuova famiglia, il rientro in Birmania per motivi personali (la malattia della madre) e la coincidenza di questa trasferta con una delle più sanguinose rivolte della storia del Paese, quella dell’8 agosto 1988, dopo la quale Suu non tornerà più in Inghilterra; i primi discorsi pubblici, il confronto coi problemi birmani, la creazione di un movimento per la democrazia; e il racconto di una vita personale e politica trascorsa quasi interamente agli arresti domiciliari, fino alla recentissima apertura che ha visto Aung San Suu Kyi tornare in Parlamento. Ma nei 27 capitoli dello spettacolo la vicenda individuale si intreccia a quella della Birmania: la lotta contro il colonialismo spazzata via dalla riconversione della resistenza in regime totalitario, il succedersi dei generali alla guida del Paese, fra torture, censure, terrore, da quando questi venivano guidati dal consiglio degli astrologi a quando – cambiando di poco il risultato – iniziano invece a seguire quello delle società di comunicazione occidentali; una storia di massacri e di violenza, popolata di fantasmi di ogni genere (dai generali alle loro vittime) e accompagnata dal silenzio connivente delle organizzazioni internazionali e dalla cecità dei media globali.
Vita agli arresti di Aung San Suu Kyi è uno spettacolo in cui il fascino visivo (dalle immagini ai costumi agli oggetti di scena), il tessuto sonoro avvolgente, la potenza della parola vanno a comporre un unicum inestricabile di senso e a livello estetico. E, con essi, si intreccia anche la complessità della dimensione umana e, poi, di quella politica. È un’opera di carattere ambientale, che – a questo punto si può rilevare, sia dal punto di vista tematico che scenico – spesso si spinge oltre il limite del proscenio, fuoriesce dal palco e abbraccia la platea. E, così, pare davvero che non sia poi così distante la Birmania. No, con questo spettacolo, non lo sembra affatto.
Visto e rivisto al Teatro Herberia di Rubiera (Vie Scena Contemporanea Festival) e al Teatro Rasi di Ravenna
Roberta Ferraresi