aung san suu kyi

“È distante la Birmania?”. Il nuovo lavoro delle Albe

Recensione a Vita agli arresti di Aung San Suu Kyi – di Teatro delle Albe

foto di Enrico Fedrigoli

foto di Enrico Fedrigoli

«È distante la Birmania? Eh? È distante?», così comincia Vita agli arresti di Aung San Suu Kyi, l’ultimo lavoro del Teatro delle Albe, con la regia di Marco Martinelli e protagonista – nel ruolo della politica birmana – Ermanna Montanari, in scena insieme a Roberto Magnani, Alice Protto, Massimiliano Rassu, che assumono di volta in volta il ruolo del Coro, dei generali del regime e degli altri personaggi dello spettacolo.

Forse, la Birmania potrebbe non sembrarci poi così distante perché, seppure il testo sia strutturato in 18 capitoli che ripercorrono passo passo la vita di Aung San Suu Kyi, le questioni che solleva sembrano irradiarsi fino a toccare la nostra quotidianità. Difficile, è vero, farvi aderire i modi estremi di un regime totalitario come quello che ha governato il Myanmar negli ultimi decenni; rischioso, cadere in generalizzazioni che minacciano di snaturare la specificità di quella situazione socio-politica; però è altrettanto complicato non cedere alla tentazione di svolgere qualche pensiero a riguardo, quando si parla dei personalismi che dominano l’azione politica dei leader delle società moderne, fino a toccarne il folle narcisismo, capace di schiacciare qualsiasi prospettiva sul bene comune e sulla cosa pubblica; quando si osserva il trattamento e la considerazione delle leggi da parte di coloro che dovrebbero difenderle e invece spesso le piegano ai propri fini, a proprio piacimento; quando il silenzio e la cecità delle istituzioni internazionali di fronte ai massacri che vengono perpetrati in ogni parte del mondo è determinato dai macro-interessi della geopolitica globale e così il distacco si converte irrimediabilmente in complicità; quando gli strumenti definiti per la critica politica, come il comico e l’ironia, sono sostenuti dal potere ed edulcorati in puro intrattenimento (lo dicono un duo che in Birmania ne ha passate di tutti i colori, i Moustache Brothers, facendo riferimento ai nostri comici televisivi); quando si rimbalza continuamente fra la verità che “è”, “non è”, “non c’è”; quando, per fare un ultimo esempio, si constata come «sin che la repubblica avrà molti che hanno bisogno di essere corrotti, e pochi che possiedono i mezzi di corrompere, la libertà non sarà che un nome» (e non è una novità, Suu-Ermanna lo legge da un testo di Foscolo di fine Settecento).

foto di Enrico Fedrigoli

foto di Enrico Fedrigoli

Soprattutto, in questo spettacolo si tratta dell’operatività mediatica del nostro tempo, che agisce intorno alle figure, azioni e vicende umane, ritagliandole dal loro contesto di appartenenza e innestandole nel piatto immaginario pop capace di fare un tutt’uno dei “vip” (siano essi cartoons, cantanti, politici o qualsiasi altra cosa), astraendole rispetto alla vita reale, ai suoi sacrifici e alle sue contraddizioni, e rendendole così distanti, inavvicinabili, incommensurabili. E, in questo modo, forse finendo anche col rischio di disinnescarne il ruolo, il portato, il senso. E comunque risolvendosi nel creare uno scarto difficilmente colmabile fra l’aura sovradimensionata e astratta di quegli “eroi” e la vita comune di ognuno di noi; vien da pensare che siano scelte quasi strategiche, che implicitamente impongono l’impotenza all’uomo comune, alle sue piccole possibilità di intervento nel quotidiano, il quale, per un proprio possibile riscatto, potrebbe in questo senso soltanto fruire delle gesta mitiche e mitizzate di quei personaggi, raccontate sulle pagine di giornale e nei servizi tv. “La Giovanna d’Arco birmana” titola un’intervista di «Vanity Fair» ripresa in scena, nonostante nello spettacolo la stessa Suu si fosse dimostrata piuttosto scettica a riguardo. È la sorte che è toccata a molti, fra gli eroi del nostro tempo.

Il lavoro del Teatro delle Albe, la scrittura di Martinelli, la presenza degli attori sembrano andare in una direzione completamente diversa. Si può pensare che si guardi ai possibili “eroi” del nostro tempo e del nostro mondo (qui e nel caso recente di Pantani, leggi la recensione). Molto più semplicemente, si tratta invece di uomini e di donne e, anzi, forse addirittura di provare a forzare la loro dimensione autenticamente umana, con tutti i sacrifici, le contraddizioni, le ambiguità e le difficoltà, all’interno delle pareti strette di quelle icone che i media hanno negli anni confezionato loro addosso; di provare a scrostare la patina di quelle immagini predisposte per il consumo, per tentare di vedere cosa c’è sotto, e riscoprire l’uomo, oltre l’orizzonte mediatico che ne imprigiona l’operato.

foto di Enrico Fedrigoli

foto di Enrico Fedrigoli

Il proposito sembra svolgersi – come suggerisce Nicoletta Lupia nell’intervista a Martinelli [leggi l’intervista] – attraverso un profondo trattamento di polarità opposte e nella tessitura dei rapporti che fra di esse si innescano: la luce e l’ombra, che plasmano la scena in un altorilievo di grande matericità; la vicenda individuale di Aung San Suu Kyi e la collettività con cui si confronta, incarnati rispettivamente dalla poderosa presenza scenica di Ermanna Montanari e dalla potenza dei momenti corali cui danno vita Roberto Magnani, Alice Protti, Massimiliano Rassu; la piccola storia, intima e individuale di Suu e le grandi nervature della vicenda politica birmana, campionata e ripresa attraverso giganteschi interventi video sulle pareti della scena; la lucida oratoria dei discorsi pubblici e l’esplosione comico-critica del duo dei Moustache Brothers; il dominio della parola, il trasporto che genera, di contro all’essenzialità dell’azione, sempre segnata da una distaccata compostezza; la potenza del rap birmano e le note più dolci, a base orientaleggiante; il taglio documentario che approssima il lavoro ai territori del reportage, dell’inchiesta, del reale e la spinta onirica che lo contrappunta, attraverso le affascinanti sonorità create da Luigi Ceccarelli, le grandi maschere terribili dei Nat – spiriti vendicativi della tradizione birmana, che nello spettacolo insidiano la protagonista ma anche il suo Paese – e, più in generale, l’approccio sintetico attraverso cui sono disegnati i diversi personaggi (il volto in bianco e nero di tre scimmie “non vedo-non sento-non parlo” per gli interrogatori della polizia, qualche gesto e oggetto particolari e sottolineati per caratterizzare l’uno o l’altro generale, i fiori sempre presenti fra i capelli di Suu, in Occidente chiamata “l’orchidea di ferro”).

E così la vicenda pubblica e nota di Aung San Suu Kyi, i suoi discorsi, gli arresti, il Nobel, si arricchisce delle sue paure di bambina e dei suoi sacrifici di adulta, della sofferenza per la perdita del padre e di quella per l’impossibilità di riabbracciare la famiglia in Europa, delle costrizioni materiali e spirituali di ogni giorno; l’unicità della sua storia individuale si complica dell’apporto e del sacrificio dei suoi compagni nella lotta per la democrazia e la giustizia (rievocati ad ogni occasione nello spettacolo); i propositi politici della resistenza, infine, trascolorano anche in un forte posizionamento etico basato sul perdono, la non violenza, il dialogo, capace di travalicare qualsiasi specificazione di contesto e ogni categorizzazione rispetto a questo o l’altro partito politico, e, così, di rivolgersi al mondo. Parla di “rivoluzione spirituale” l’Aung San Suu Kyi del Teatro delle Albe, di un altro modo di pensare, di vivere, di rapportarsi all’altro, scontrandosi anche con la massima brechtiana che vorrebbe “prima il cibo, poi la morale” (è il fantasma del giovane drammaturgo d’Augusta a portarla in scena), una richiesta che si rivela molto simile a un proverbio birmano, a cui Suu risponde che l’avidità umana spesso è molto più grande dello stomaco – posizione che ribadisce il rifiuto della soddisfazione individuale a scapito del benessere collettivo, oltre a dare inoltre qualcosa da riflettere sull’intreccio delle linee brechtiane e non nella ricerca delle Albe (per esempio nella combinazione fra straniamento e coinvolgimento).

foto di Enrico Fedrigoli

foto di Enrico Fedrigoli

Lo spettacolo è scandito da 18 scene, ognuna dedicata a un evento-chiave dell’esistenza di Aung San Suu Kyi e della vicenda novecentesca della Birmania: «tutto ebbe inizio quando la piccola Suu aveva soltanto due anni […] Quando Aung San il padre di Suu il padre della Nazione venne assassinato […] Tutto ebbe inizio quando siamo troppo piccoli per ricordare, quando il nostro ricordo nella nebbia sono i racconti degli altri», così si inaugura la storia raccontata dal Teatro delle Albe, a partire dal 1947; e si sviluppa attraverso le tappe della vita di Aung San Suu Kyi, dall’infanzia segnata dall’omicidio del padre, dopo la guida della resistenza che allontanò il colonialismo britannico dal Paese; poi con l’esilio in Occidente in cui si dedica agli studi e a una nuova famiglia, il rientro in Birmania per motivi personali (la malattia della madre) e la coincidenza di questa trasferta con una delle più sanguinose rivolte della storia del Paese, quella dell’8 agosto 1988, dopo la quale Suu non tornerà più in Inghilterra; i primi discorsi pubblici, il confronto coi problemi birmani, la creazione di un movimento per la democrazia; e il racconto di una vita personale e politica trascorsa quasi interamente agli arresti domiciliari, fino alla recentissima apertura che ha visto Aung San Suu Kyi tornare in Parlamento. Ma nei 27 capitoli dello spettacolo la vicenda individuale si intreccia a quella della Birmania: la lotta contro il colonialismo spazzata via dalla riconversione della resistenza in regime totalitario, il succedersi dei generali alla guida del Paese, fra torture, censure, terrore, da quando questi venivano guidati dal consiglio degli astrologi a quando – cambiando di poco il risultato – iniziano invece a seguire quello delle società di comunicazione occidentali; una storia di massacri e di violenza, popolata di fantasmi di ogni genere (dai generali alle loro vittime) e accompagnata dal silenzio connivente delle organizzazioni internazionali e dalla cecità dei media globali.

Vita agli arresti di Aung San Suu Kyi è uno spettacolo in cui il fascino visivo (dalle immagini ai costumi agli oggetti di scena), il tessuto sonoro avvolgente, la potenza della parola vanno a comporre un unicum inestricabile di senso e a livello estetico. E, con essi, si intreccia anche la complessità della dimensione umana e, poi, di quella politica. È un’opera di carattere ambientale, che – a questo punto si può rilevare, sia dal punto di vista tematico che scenico – spesso si spinge oltre il limite del proscenio, fuoriesce dal palco e abbraccia la platea. E, così, pare davvero che non sia poi così distante la Birmania. No, con questo spettacolo, non lo sembra affatto.

Visto e rivisto al Teatro Herberia di Rubiera (Vie Scena Contemporanea Festival) e al Teatro Rasi di Ravenna

Roberta Ferraresi

Di coppie oppositive e bontà: conversando con Marco Martinelli

Dopo il debutto durante il Festival VIE 2014, l’ultima produzione del Teatro delle Albe, Vita agli arresti di Aung San Suu Kyi, sarà in cartellone al Teatro Rasi di Ravenna fino al 14 dicembre. Dopo un’affollata pomeridiana domenicale, abbiamo incontrato Marco Martinelli che ci ha mostrato alcuni nodi del processo di lavoro all’origine dello spettacolo. Infine, alcune considerazioni sul mondo dei media – già protagonisti di Pantani – e sull’inattualità necessaria della bontà.

Come avete iniziato a lavorare a questo spettacolo e ricorrendo a quali fonti?

Foto di Enrico Fedrigoli

Foto di Enrico Fedrigoli

Il caso non agisce mai a caso. Eravamo in volo verso New York, io ed Ermanna, dove andavamo a fare Rumore di acque a La MaMa Theatre e, aprendo una di quelle riviste che si trovano sugli aerei, vedo il volto sorridente di Aung San Suu Kyi. Lo mostro a Ermanna e le dico: non ti assomiglia? Non avevamo mai approfondito la sua vicenda esistenziale e politica. Una volta tornati in Italia, abbiamo cominciato a leggere tutto quello che potevamo della sua vita e della storia della Birmania: sono mondi che non si possono separare. Il padre di Suu è stato anche il padre politico della Birmania, il condottiero che ha liberato la nazione dal giogo colonialista, assassinato poco più che trentenne: e il cortocircuito è fondamentale per comprendere le scelte di Aung San Suu Kyi. Sedotti dal profilo di quella “vita agli arresti”, a un certo punto abbiamo pensato che i libri, i dvd, le testimonianze che stavamo raccogliendo (da figure come Aung Naing Lin, esule birmano in Italia, Giuseppe Malpeli e Albertina Soliani dell’Associazione per l’amicizia Italia-Birmania, Paolo Pobbiati di Amnesty International), non bastavano più. Ci siamo detti: andiamo in Birmania. Spostare le gambe vuol dire spostare l’immaginazione, spostarsi dal proprio luogo abituale e vedere altro, spiazzare l’abitudine. Siamo stati là l’estate scorsa, quindici giorni tra Yangon e la Mawlamine di George Orwell [Giorni in Birmania, 1949, ndr], nel sud del Paese.
Il mio lavoro di drammaturgia è andato avanti parallelamente a queste ricerche, procedendo per lampi, per intuizioni: fin dall’inizio però mi è stato chiaro che era necessario partire dal 1947, quando Suu è una bimba di appena due anni e il padre viene assassinato. Da quel “prologo” tragico che segna tutta la vita di Aung San Suu Kyi.

Di tutta questa ricerca documentaria resta una traccia anche vertiginosa, nel testo e nelle videoproiezioni, nella drammaturgia testuale e nella regia…
Fino a giugno abbiamo raccolto. Poi, con tre quaderni zeppi di appunti, sono andato dieci giorni a Marradi, per isolarmi tra le montagne di Dino Campana, e là ho scritto il primo atto. È venuto fuori come un fiume in piena. Sentivo che per continuare a scrivere dovevo però aspettare, dovevo andare prima in Birmania, a nutrirmi di quel lontano Oriente, e così è stato. Al ritorno, mi sono nuovamente  “nascosto” a Marradi, e ho composto il secondo atto. Ma la scrittura non finisce mai a tavolino: continua sul palco durante le prove, continua con gli attori e i loro ritmi vocali, nell’interazione con le immagini, con i video, con le luci, con i suoni, tagliando, aggiungendo, correggendo. La scrittura parte a tavolino, ma poi deve attraversare la fase alchemica decisiva in cui diventa scrittura incarnata. In cui il metallo-letteratura, se ci si riesce, diventa oro di palcoscenico.

(Foto di Enrico Fedrigoli)

(Foto di Enrico Fedrigoli)

L’impressione che ho avuto leggendo, ad esempio, le note di regia era quella di una costruzione del ragionamento alla base dello spettacolo per coppie oppositive: l’interno e l’esterno, la casa e la Nazione, il silenzio e la voce. Dopo la visione, ho capito che tutto questo si coagula in una forma: la dialettica fortissima che si crea sul palco tra la luce e l’ombra. Aung San Suu Kyi cerca, spesso affannosamente, la luce e si ritrova ad affogare nel buio, nella sua solitudine, nella sua ricerca spirituale. Immagino che questa dialettica sia nata anche dal lavoro con gli attori e con il musicista Luigi Ceccarelli.
Hai compreso perfettamente il percorso alchemico di cui parlavo prima. Noi usiamo da sempre la parola “alchimia” perché restituisce il senso di un lavoro in cui differenti materiali si intrecciano, reagiscono l’uno all’altro, cozzano tra di loro per poi “sposarsi”. La responsabilità della regia è quella di portare al livello più alto e più unitario il sapere dei propri compagni, la mia autorialità registica deve esprimersi attraverso – non contro – le altre autorialità presenti sulla scena, portandole al massimo grado possibile: i balletti di Massimiliano [Rassu, ndr], la fisicità prorompente di Fagio, la potenza geometrica di Roberto [Magnani, ndr], la grazia di Alice [Protto, ndr], la sinfonia scenica incarnata con maestria da Ermanna. E non solo gli attori: lo stesso discorso vale per le musiche di Ceccarelli, le luci di Francesco Catacchio ed Enrico Isola, i video e le diapositive di Alessandro e Francesco Tedde, le scene e i costumi di Ermanna.   

C’è un’allusione, mi sembra, perturbante a Brecht. La cosa mi ha colpito perché ho studiato abbastanza il Théâtre du Soleil e prima di creare 1789 la compagnia cercò di mettere in scena Baal di Brecht. Anche voi volevate mettere in scena L’anima buona di Sezuan, non ci siete riusciti, eppure avete trovato un completamento di quel progetto in questo. Allora, forse, Brecht serpeggia, è presente, viene affermato nelle forme e negato, a tratti, in alcuni contenuti. Com’è andato questo dialogo con lui?
È un dialogo che ho da sempre… a partire dal fatto che la  mia data di nascita coincide con quella della sua morte, 14 agosto 1956. Il mio fascino per il suo teatro nasce nell’adolescenza, quando al liceo la nostra amata professoressa, Bianca Lotito, ce lo insegnava insieme a Majakovskij e ai formalisti russi. Fin da allora è stato un corpo a corpo. Per quanto mi seducesse il Brecht poeta, ne rifiutavo l’armatura ideologica, che mi pareva soffocasse molti suoi testi. Questa Vita agli arresti è anche un dialogo diretto, a lungo rimandato, in un rapporto intenso di odio-amore: il fantasma di Brecht danza con Aung San Suu Kyi sulle note di Kurt Weill, la drammaturgia nel suo andamento per capitoli certamente gli è debitrice, nel finale dello spettacolo ci sono due suoi versi – “Le fatiche delle montagne sono alle nostre spalle / Davanti a noi le fatiche delle pianure” – perfetti per suggellare il lieto fine della liberazione dalla prigionia, ma anche utili a indicare l’inizio, per Aung San Suu Kyi, di una vita politica non meno insidiosa, da donna finalmente libera. È un’eredità che sento da sempre nel nostro teatro, compresa la libertà di utilizzare diversamente il patrimonio che ci è stato consegnato. La tradizione, per non suonare autoritaria, deve saper accettare l’inevitabile, gioioso tradimento.

Un’altra questione parte da una riflessione piuttosto retorica e, di per sé, abbastanza vuota: abbiamo bisogno di eroi? Certamente abbiamo bisogno di storia, di memoria e di riflettere su come i nostri linguaggi, anche mass-mediatici, costruiscano mondi, immaginari, personalità. Mi sembra che voi, con questa operazione e con la precedente di Pantani, abbiate parlato dell’una e dell’altra cosa: di come si costruisce un eroe e di come spesso questa costruzione taccia alcuni caratteri salienti della persona e della lotta compiuta. Mi chiedevo come agite a riguardo.
Restiamo su Brecht, allora. La frase che hai citato ricorda un suo verso famoso: “Beata la terra che non ha bisogno di eroi”. Mentre lavoravamo a Vita agli arresti, mi veniva spesso in mente un’affermazione di Italo Calvino che, già negli anni Settanta, mi sembra, diceva: “In Italia, l’onestà è un vizio”. Il ritratto che noi facciamo di una Birmania dove il denaro può comprare tutto, dove la corruzione politica è dilagante, non ti sembra anche quello del nostro Paese? Se l’onestà è un vizio, allora mi dico che invece sì, abbiamo bisogno di eroi, ma intendiamoci, non di santi e santini come alibi dietro cui nascondersi, abbiamo semplicemente bisogno di una buona dose di eroismo personale e quotidiano, un eroismo terra terra. A forza di dire che non c’è bisogno di eroi, una certa cultura di sinistra ci ha tolto quel senso di responsabilità personale col quale interrogarsi ogni giorno: cosa sono disposto a fare, io, per cambiare questo mondo? E non in astratto, ma ora, davanti a queste persone, in questa situazione concreta di disagio e di sofferenza, quale prezzo sono disposto a pagare? Credo che la cosiddetta sinistra, nel nostro Paese, sia arrivata a questo punto di sfascio anche perché, pur criticando i vari Berlusconi, non ha mai disdegnato di arricchirsi come loro, non si è rivelata diversa da loro tranne che nella retorica. Essere veramente diversi? Se è questo l’obiettivo, un po’ di eroismo è necessario… coltivando il vizio dell’onestà, per esempio. Aung San Suu Kyi parla anche di “sacrificio”, altra parola tabù dalle nostre parti. Ma cosa significa? Significa provare a “fare sacro” il nostro quotidiano, a tenere la schiena dritta, a camminare eretti.

Foto di Enrico Fedrigoli

Foto di Enrico Fedrigoli

E sul ruolo dei media?
Sono spesso cannibali perché, nel momento in cui espongono le vite, in realtà le divorano. Le trasformano in specchietti per le masse-allodole, figurine che non spiegano nulla. Quella di Pantani e quella di Aung San Suu Kyi sono storie lontanissime tra loro, eppure qualcosa le lega: entrambe icone eccessive, entrambe a senso unico, una il drogato colpevole, il montone nero, l’altra la santa laica, la “Giovanna D’Arco della Birmania”, immagine che Suu stessa ha sempre coerentemente negato. I media non ci fanno capire le profondità di una esistenza, le sue luci e le sue ombre, perché debbono vendere delle superfici. Non è sempre responsabilità del singolo giornalista, è forse un sistema così più grande di noi, così sopra le nostre teste, che alla fine risulta come un Golìa da cui dobbiamo trovare il modo di difenderci. Il teatro è la nostra minuscola fionda di Davide: non possiamo contare su milioni di audience, ma in platea ci sono ancora persone che possono concedersi il lusso delle acque profonde, provare emozioni, divertirsi e commuoversi, e continuare a pensare. E torniamo al caro Brecht quando esagerava in senso opposto, quando diceva che lo spettatore deve starsene con il sigaro in bocca, con aria cinica e disposto solo a ragionare, senza farsi incantare. Possiamo invece conservare il nostro cuore, e sperimentare incanto e felicità senza abdicare al cervello? Possiamo custodirli entrambi, questi apparenti opposti? Spero di sì, da sempre noi Albe scommettiamo in tal senso.

Quello sulla bontà è un discorso inattuale?
È inattuale e rischioso, lo sapevamo fin dall’inizio: siamo sommersi dalle retoriche buoniste della pubblicità e della politica. La bontà autentica è inattuale e difficile, è sacrificio, va intesa anche in senso artaudiano, come crudeltà, come rigore verso se stessi, come auto-disciplina. L’altra faccia del buonismo è il cinismo imperturbabile per cui tutto ci scorre davanti agli occhi (massacri, guerre, corruzioni) e nulla ci sposta: “nihil novi sub sole”, e quindi avanti così. No, dobbiamo trovare una via di scampo tra questi due mostri, seguendo Rosa Luxemburg e Aung San Suu Kyi quando affermano la stessa verità in contesti storici e politici così apparentemente lontani: “cerchiamo di restare esseri umani”. È una forma di resistenza umile e paziente, altro termine che può suonare come una parolaccia in un salotto snob: la pazienza non è un contrassegno di debolezza, è al contrario la virtù dei più forti. Pazienza è saper “patire”, riuscire a passare attraverso la sofferenza mantenendo il cuore fermo, la schiena dritta.
Vedi, tutto si mescola, siamo partiti da un’opera teatrale e stiamo parlando di bellezza e di etica insieme, anch’esse intrecciate in maniera indissolubile. Anche il mondo sviluppa la sua natura migliore per via alchemica, non solo la scena.

Tutti questi discorsi, poi, si devono sedimentare in un lavoro artigianale…
Ah certo, perché se poi lo spettacolo non è bello, se non è ben fatto, e non colpisce al cuore e al cervello lo spettatore, tutte queste sono chiacchiere inutili: abbiamo fallito, se restiamo solo sul piano delle dichiarazioni di intenti. Se il teatro non arriva nel profondo della psiche, abbiamo fallito. Se non sposta l’oscurità del palco, se non la fa virare verso la luce, se non è capace di far fare allo spettatore lo stesso viaggio, faticoso e entusiasmante, che hanno fatto i suoi autori, abbiamo fallito. Basterebbe stare a casa e leggersi i libri di Aung San Suu Kyi, no?

Vita agli arresti di Aung San Suu Kyi è stato visto al Teatro Rasi, Ravenna

Intervista a cura di Nicoletta Lupia

Per approfondire leggi:
la recensione di Vita agli arresti di Aung San Suu Kyi
la recensione di Maddalena Peluso di Pantani
la recensione di Roberta Ferraresi di L’Avaro
la  recensione di Carlotta Tringali di Rumore di acque
il programma della rassegna Ravenna Viso-in-aria