Dopo il debutto durante il Festival VIE 2014, l’ultima produzione del Teatro delle Albe, Vita agli arresti di Aung San Suu Kyi, sarà in cartellone al Teatro Rasi di Ravenna fino al 14 dicembre. Dopo un’affollata pomeridiana domenicale, abbiamo incontrato Marco Martinelli che ci ha mostrato alcuni nodi del processo di lavoro all’origine dello spettacolo. Infine, alcune considerazioni sul mondo dei media – già protagonisti di Pantani – e sull’inattualità necessaria della bontà.
Come avete iniziato a lavorare a questo spettacolo e ricorrendo a quali fonti?
Il caso non agisce mai a caso. Eravamo in volo verso New York, io ed Ermanna, dove andavamo a fare Rumore di acque a La MaMa Theatre e, aprendo una di quelle riviste che si trovano sugli aerei, vedo il volto sorridente di Aung San Suu Kyi. Lo mostro a Ermanna e le dico: non ti assomiglia? Non avevamo mai approfondito la sua vicenda esistenziale e politica. Una volta tornati in Italia, abbiamo cominciato a leggere tutto quello che potevamo della sua vita e della storia della Birmania: sono mondi che non si possono separare. Il padre di Suu è stato anche il padre politico della Birmania, il condottiero che ha liberato la nazione dal giogo colonialista, assassinato poco più che trentenne: e il cortocircuito è fondamentale per comprendere le scelte di Aung San Suu Kyi. Sedotti dal profilo di quella “vita agli arresti”, a un certo punto abbiamo pensato che i libri, i dvd, le testimonianze che stavamo raccogliendo (da figure come Aung Naing Lin, esule birmano in Italia, Giuseppe Malpeli e Albertina Soliani dell’Associazione per l’amicizia Italia-Birmania, Paolo Pobbiati di Amnesty International), non bastavano più. Ci siamo detti: andiamo in Birmania. Spostare le gambe vuol dire spostare l’immaginazione, spostarsi dal proprio luogo abituale e vedere altro, spiazzare l’abitudine. Siamo stati là l’estate scorsa, quindici giorni tra Yangon e la Mawlamine di George Orwell [Giorni in Birmania, 1949, ndr], nel sud del Paese.
Il mio lavoro di drammaturgia è andato avanti parallelamente a queste ricerche, procedendo per lampi, per intuizioni: fin dall’inizio però mi è stato chiaro che era necessario partire dal 1947, quando Suu è una bimba di appena due anni e il padre viene assassinato. Da quel “prologo” tragico che segna tutta la vita di Aung San Suu Kyi.
Di tutta questa ricerca documentaria resta una traccia anche vertiginosa, nel testo e nelle videoproiezioni, nella drammaturgia testuale e nella regia…
Fino a giugno abbiamo raccolto. Poi, con tre quaderni zeppi di appunti, sono andato dieci giorni a Marradi, per isolarmi tra le montagne di Dino Campana, e là ho scritto il primo atto. È venuto fuori come un fiume in piena. Sentivo che per continuare a scrivere dovevo però aspettare, dovevo andare prima in Birmania, a nutrirmi di quel lontano Oriente, e così è stato. Al ritorno, mi sono nuovamente “nascosto” a Marradi, e ho composto il secondo atto. Ma la scrittura non finisce mai a tavolino: continua sul palco durante le prove, continua con gli attori e i loro ritmi vocali, nell’interazione con le immagini, con i video, con le luci, con i suoni, tagliando, aggiungendo, correggendo. La scrittura parte a tavolino, ma poi deve attraversare la fase alchemica decisiva in cui diventa scrittura incarnata. In cui il metallo-letteratura, se ci si riesce, diventa oro di palcoscenico.
L’impressione che ho avuto leggendo, ad esempio, le note di regia era quella di una costruzione del ragionamento alla base dello spettacolo per coppie oppositive: l’interno e l’esterno, la casa e la Nazione, il silenzio e la voce. Dopo la visione, ho capito che tutto questo si coagula in una forma: la dialettica fortissima che si crea sul palco tra la luce e l’ombra. Aung San Suu Kyi cerca, spesso affannosamente, la luce e si ritrova ad affogare nel buio, nella sua solitudine, nella sua ricerca spirituale. Immagino che questa dialettica sia nata anche dal lavoro con gli attori e con il musicista Luigi Ceccarelli.
Hai compreso perfettamente il percorso alchemico di cui parlavo prima. Noi usiamo da sempre la parola “alchimia” perché restituisce il senso di un lavoro in cui differenti materiali si intrecciano, reagiscono l’uno all’altro, cozzano tra di loro per poi “sposarsi”. La responsabilità della regia è quella di portare al livello più alto e più unitario il sapere dei propri compagni, la mia autorialità registica deve esprimersi attraverso – non contro – le altre autorialità presenti sulla scena, portandole al massimo grado possibile: i balletti di Massimiliano [Rassu, ndr], la fisicità prorompente di Fagio, la potenza geometrica di Roberto [Magnani, ndr], la grazia di Alice [Protto, ndr], la sinfonia scenica incarnata con maestria da Ermanna. E non solo gli attori: lo stesso discorso vale per le musiche di Ceccarelli, le luci di Francesco Catacchio ed Enrico Isola, i video e le diapositive di Alessandro e Francesco Tedde, le scene e i costumi di Ermanna.
C’è un’allusione, mi sembra, perturbante a Brecht. La cosa mi ha colpito perché ho studiato abbastanza il Théâtre du Soleil e prima di creare 1789 la compagnia cercò di mettere in scena Baal di Brecht. Anche voi volevate mettere in scena L’anima buona di Sezuan, non ci siete riusciti, eppure avete trovato un completamento di quel progetto in questo. Allora, forse, Brecht serpeggia, è presente, viene affermato nelle forme e negato, a tratti, in alcuni contenuti. Com’è andato questo dialogo con lui?
È un dialogo che ho da sempre… a partire dal fatto che la mia data di nascita coincide con quella della sua morte, 14 agosto 1956. Il mio fascino per il suo teatro nasce nell’adolescenza, quando al liceo la nostra amata professoressa, Bianca Lotito, ce lo insegnava insieme a Majakovskij e ai formalisti russi. Fin da allora è stato un corpo a corpo. Per quanto mi seducesse il Brecht poeta, ne rifiutavo l’armatura ideologica, che mi pareva soffocasse molti suoi testi. Questa Vita agli arresti è anche un dialogo diretto, a lungo rimandato, in un rapporto intenso di odio-amore: il fantasma di Brecht danza con Aung San Suu Kyi sulle note di Kurt Weill, la drammaturgia nel suo andamento per capitoli certamente gli è debitrice, nel finale dello spettacolo ci sono due suoi versi – “Le fatiche delle montagne sono alle nostre spalle / Davanti a noi le fatiche delle pianure” – perfetti per suggellare il lieto fine della liberazione dalla prigionia, ma anche utili a indicare l’inizio, per Aung San Suu Kyi, di una vita politica non meno insidiosa, da donna finalmente libera. È un’eredità che sento da sempre nel nostro teatro, compresa la libertà di utilizzare diversamente il patrimonio che ci è stato consegnato. La tradizione, per non suonare autoritaria, deve saper accettare l’inevitabile, gioioso tradimento.
Un’altra questione parte da una riflessione piuttosto retorica e, di per sé, abbastanza vuota: abbiamo bisogno di eroi? Certamente abbiamo bisogno di storia, di memoria e di riflettere su come i nostri linguaggi, anche mass-mediatici, costruiscano mondi, immaginari, personalità. Mi sembra che voi, con questa operazione e con la precedente di Pantani, abbiate parlato dell’una e dell’altra cosa: di come si costruisce un eroe e di come spesso questa costruzione taccia alcuni caratteri salienti della persona e della lotta compiuta. Mi chiedevo come agite a riguardo.
Restiamo su Brecht, allora. La frase che hai citato ricorda un suo verso famoso: “Beata la terra che non ha bisogno di eroi”. Mentre lavoravamo a Vita agli arresti, mi veniva spesso in mente un’affermazione di Italo Calvino che, già negli anni Settanta, mi sembra, diceva: “In Italia, l’onestà è un vizio”. Il ritratto che noi facciamo di una Birmania dove il denaro può comprare tutto, dove la corruzione politica è dilagante, non ti sembra anche quello del nostro Paese? Se l’onestà è un vizio, allora mi dico che invece sì, abbiamo bisogno di eroi, ma intendiamoci, non di santi e santini come alibi dietro cui nascondersi, abbiamo semplicemente bisogno di una buona dose di eroismo personale e quotidiano, un eroismo terra terra. A forza di dire che non c’è bisogno di eroi, una certa cultura di sinistra ci ha tolto quel senso di responsabilità personale col quale interrogarsi ogni giorno: cosa sono disposto a fare, io, per cambiare questo mondo? E non in astratto, ma ora, davanti a queste persone, in questa situazione concreta di disagio e di sofferenza, quale prezzo sono disposto a pagare? Credo che la cosiddetta sinistra, nel nostro Paese, sia arrivata a questo punto di sfascio anche perché, pur criticando i vari Berlusconi, non ha mai disdegnato di arricchirsi come loro, non si è rivelata diversa da loro tranne che nella retorica. Essere veramente diversi? Se è questo l’obiettivo, un po’ di eroismo è necessario… coltivando il vizio dell’onestà, per esempio. Aung San Suu Kyi parla anche di “sacrificio”, altra parola tabù dalle nostre parti. Ma cosa significa? Significa provare a “fare sacro” il nostro quotidiano, a tenere la schiena dritta, a camminare eretti.
E sul ruolo dei media?
Sono spesso cannibali perché, nel momento in cui espongono le vite, in realtà le divorano. Le trasformano in specchietti per le masse-allodole, figurine che non spiegano nulla. Quella di Pantani e quella di Aung San Suu Kyi sono storie lontanissime tra loro, eppure qualcosa le lega: entrambe icone eccessive, entrambe a senso unico, una il drogato colpevole, il montone nero, l’altra la santa laica, la “Giovanna D’Arco della Birmania”, immagine che Suu stessa ha sempre coerentemente negato. I media non ci fanno capire le profondità di una esistenza, le sue luci e le sue ombre, perché debbono vendere delle superfici. Non è sempre responsabilità del singolo giornalista, è forse un sistema così più grande di noi, così sopra le nostre teste, che alla fine risulta come un Golìa da cui dobbiamo trovare il modo di difenderci. Il teatro è la nostra minuscola fionda di Davide: non possiamo contare su milioni di audience, ma in platea ci sono ancora persone che possono concedersi il lusso delle acque profonde, provare emozioni, divertirsi e commuoversi, e continuare a pensare. E torniamo al caro Brecht quando esagerava in senso opposto, quando diceva che lo spettatore deve starsene con il sigaro in bocca, con aria cinica e disposto solo a ragionare, senza farsi incantare. Possiamo invece conservare il nostro cuore, e sperimentare incanto e felicità senza abdicare al cervello? Possiamo custodirli entrambi, questi apparenti opposti? Spero di sì, da sempre noi Albe scommettiamo in tal senso.
Quello sulla bontà è un discorso inattuale?
È inattuale e rischioso, lo sapevamo fin dall’inizio: siamo sommersi dalle retoriche buoniste della pubblicità e della politica. La bontà autentica è inattuale e difficile, è sacrificio, va intesa anche in senso artaudiano, come crudeltà, come rigore verso se stessi, come auto-disciplina. L’altra faccia del buonismo è il cinismo imperturbabile per cui tutto ci scorre davanti agli occhi (massacri, guerre, corruzioni) e nulla ci sposta: “nihil novi sub sole”, e quindi avanti così. No, dobbiamo trovare una via di scampo tra questi due mostri, seguendo Rosa Luxemburg e Aung San Suu Kyi quando affermano la stessa verità in contesti storici e politici così apparentemente lontani: “cerchiamo di restare esseri umani”. È una forma di resistenza umile e paziente, altro termine che può suonare come una parolaccia in un salotto snob: la pazienza non è un contrassegno di debolezza, è al contrario la virtù dei più forti. Pazienza è saper “patire”, riuscire a passare attraverso la sofferenza mantenendo il cuore fermo, la schiena dritta.
Vedi, tutto si mescola, siamo partiti da un’opera teatrale e stiamo parlando di bellezza e di etica insieme, anch’esse intrecciate in maniera indissolubile. Anche il mondo sviluppa la sua natura migliore per via alchemica, non solo la scena.
Tutti questi discorsi, poi, si devono sedimentare in un lavoro artigianale…
Ah certo, perché se poi lo spettacolo non è bello, se non è ben fatto, e non colpisce al cuore e al cervello lo spettatore, tutte queste sono chiacchiere inutili: abbiamo fallito, se restiamo solo sul piano delle dichiarazioni di intenti. Se il teatro non arriva nel profondo della psiche, abbiamo fallito. Se non sposta l’oscurità del palco, se non la fa virare verso la luce, se non è capace di far fare allo spettatore lo stesso viaggio, faticoso e entusiasmante, che hanno fatto i suoi autori, abbiamo fallito. Basterebbe stare a casa e leggersi i libri di Aung San Suu Kyi, no?
Vita agli arresti di Aung San Suu Kyi è stato visto al Teatro Rasi, Ravenna
Intervista a cura di Nicoletta Lupia
Per approfondire leggi:
la recensione di Vita agli arresti di Aung San Suu Kyi
la recensione di Maddalena Peluso di Pantani
la recensione di Roberta Ferraresi di L’Avaro
la recensione di Carlotta Tringali di Rumore di acque
il programma della rassegna Ravenna Viso-in-aria