«Al primo incontro nella foresta con una tribù indigena armata e minacciosa, l’antropologo Miklucho Maklaj decide di stendersi per terra e dormire. Gli indigeni, colti di sorpresa da tanta arrendevolezza, lo lasciano illeso. E poi lo accettano». Fa riferimento a questa vicenda, Michele Di Stefano, nel ricevere il Leone d’argento a Ca’ Giustinian, lo scorso 21 giugno. Premio che dedica «all’arrendevolezza del corpo e alla sua permeabilità». Una capacità di resa che non esclude, anzi comporta, un grande coraggio.
Un’apertura del corpo e una disponibilità all’incontro di cui abbiamo già parlato con il coreografo di mk in una conversazione dello scorso anno. In quell’occasione si faceva riferimento alla costruzione di un evento, Angelo Mai Italia Tropici, che – allo stato attuale, con un’inchiesta giudiziaria che vede coinvolto lo spazio romano, recentemente dissequestrato – ci appare davvero, e non senza amarezza, come un altrove.
Nell’episodio che vede protagonista lo studioso russo, l’avvicinamento è inteso come un approssimarsi all’altro. Una condizione che è propensione fisica, a fronte di un’ovvia predisposizione mentale, di una sapienza che sta per farsi esperienza.
Ed è uno sguardo sapiente quello che riconosciamo nei performer di mk al loro ingresso nello spazio scenico, che sia un teatro o una piazza. Un guardare oltre a sostegno di un incedere diritto, di un camminare eretto, di una fermezza che scivola repentinamente in flessibilità. Gli arti si piegano senza scomporsi, la colonna s’incurva senza sciogliersi, «le vertebre si pongono in una condizione molto più liquida», il corpo è pronto a lasciarsi attraversare.
Si sposta in gruppo o intraprende passaggi solitari, il viaggiatore di mk, esploratore esperto o novello straniero, (s)perduto o immerso in luogo altro.
È il singolo alla scoperta di un paesaggio sconosciuto, nella performance parassitaria Grand Tour, “indagine turistica nel mondo circoscritto della produzione spettacolare contemporanea” performance che vede protagonista lo stesso coreografo.
È un sopravvissuto in Robinson, individuo che smarrisce se stesso, ridefinendosi nell’incontro con un’innocenza primordiale (leggi un approfondimento).
Sono, invece, occasionali viaggiatori quelli di Clima – a breve a Marsiglia a La Friche – nuclei eterogenei e disomogenei in movimento, a condividere uno spazio comune, che sia la sala nera dell’India (durante il cantiere di Perdutamente) o gli spazi aperti del Santarcangelo Festival, nell’edizione 2013.
E se, in quell’oggetto coreografico, il gruppo si mostrava compatto per poi sfaldarsi, nella creazione vista a Venezia, Sahara Para Todos (guarda il video), i performer attraversano Campo San Maurizio uno, due, o tre per volta, fino ad abitarlo insieme, nelle diversità di sguardo e nelle difformità di fisicità in movimento.
Rintracciamo, nell’omogenea calibratura del corpo, molteplici traiettorie di orientamento. È possibile, per la prossimità delle figure fra loro, cogliere l’insieme, così come seguire i singoli, ma ad attrarre, ancora una volta, è l’errore, nel senso etimologico del termine. Error che coincide, in Robinson, con il corpo giallo del selvaggio, che attraversa lo spazio senza mai partecipare alla danza. Error che, nell’esito del laboratorio della Biennale Danza 2014, è incarnato da un danzatore in abiti comuni (pari a quelli degli altri) con maglia fluo, che osserva a lungo prima di partecipare alla danza.
Michele Di Stefano chiede ai performer di dimenticare il movimento imparato, di lasciare che il corpo lo esegua, mentre l’attenzione si concentra sullo spazio, o sul tempo, o sugli incidenti che possono interrompere il corso già irregolare. Non ostacoli, non impedimenti all’azione ma possibilità di esposizione del corpo a circostanze non prevedibili, come accade con il suono delle campane in Campo San Maurizio, che, per un breve lasso di tempo, sovrasta la musica.
Lo spettatore può fermarsi alla superficie, o compiere uno sforzo, assimilare il movimento del gruppo per concentrarsi sulla fissità o sulla mobilità di un individuo, o cogliere i continui cambiamenti generati dall’incontro, o cercare la distanza tra i corpi, isolare i pieni, esaltare i vuoti.
E, ancora una volta, la natura è solo evocata, con immagini, suoni, odori. E, ancora una volta, il luogo non è raggiunto, non è abitato. Sappiamo che c’è un punto d’approdo, come ci ricorda, stavolta, un secchio con il pescato, rovesciato dinanzi al pubblico, e come, in Robinson, ci hanno ricordato, con una prepotente invasione di palco, variegati e abbondanti fiori. Ciò che vediamo, ciò che seguiamo, è «l’uomo in continua osservazione del paesaggio e della geografia», come si legge nelle motivazioni per l’assegnazione del prestigioso riconoscimento. È il percepire un altrove, piuttosto che rivelarlo, perché, ci ricorda Michele Di Stefano, «nell’avvicinamento succedono le cose più interessanti del processo».
Rossella Porcheddu