biennale danza 2014

Progetti in festival: Vita Nova

La nostra Rassegna stampa si specializza, focalizzandosi su un evento specifico, un premio, un tema legato a quello del trimestrale. Progetti in festival è un cammino nella storia di un fatto teatrale che, esistendo, ha creato una continuità in spazi e tempi diversi anche attraverso il racconto di coloro che hanno vissuto e raccontato l’esperienza. Disegni nitidi, a volte indipendenti, questi “zoom” determinano una successione di visioni e la costruzione di nuove narrazioni.
Senza alcun intento di esaustività sui singoli spettacoli, apriamo a dei rilanci verso quella mappa di incontri e collaborazioni delineata dall’esperienza, di volta in volta, oggetto di approfondimento.
Progetti in Festival è interstizio, tempo di scelte singolari che divengono, ben presto, condivise; è uno sguardo altro, un viaggio possibile grazie agli scritti di teorici e critici, pubblicati sul web.

Il primo speciale ripercorre il triennio di Vita Nova, un progetto ideato nel 2013 da Virgilio Sieni per la Biennale Danza di Venezia. Gli estratti di rassegna stampa online, selezionati e presentati di seguito, sono intesi come finestre di approfondimento sul tema, che lasciano tuttavia al lettore la possibilità di completarne l’incursione.

Vita Nova
un progetto di Virgilio Sieni alla Biennale Danza di Venezia (2013 – 2015)

[…] si tratta di bambini con una voglia matta di muoversi, di trasgredire lo spazio, attraverso un linguaggio che può essere definito danza o balletto, che a quell’età è vissuto ancora come un gioco estremo. Eppure, senza saperlo, lì dentro si individua una crescita, perché la danza in giovanissima età è un importante spazio di maturazione e di incontro con altri compagni. (Virgilio Sieni)

Trasfigurare il gesto quotidiano. Conversazione con Virgilio Sieni
a cura di Lorenzo Donati, Matteo Vallorani e Alessandra Cava (Altre Velocità, giugno 2013)

Gli anni 2013 – 2015 corrispondono al triennio in cui la direzione artistica del settore Danza della Biennale di Venezia è stata affidata al coreografo Virgilio Sieni. Le tre edizioni che si sono succedute, hanno visto svilupparsi altri modi di concepire il festival lagunare; hanno aperto a nuove visioni e approcci alla danza contemporanea; hanno consentito di tracciare, a distanza, una linea curatoriale che è rimasta, innanzitutto, fedele a se stessa e al suo intimo processo. Capisaldi di questo articolato percorso, le diverse pratiche hanno scandito le attività del Festival e del College. Tra queste, la sezione Vita Nova si è presentata fin dall’inizio quale esperienza volta a comporre un “inedito repertorio contemporaneo di danza per adolescenti su tutto il territorio nazionale”. Un simile obiettivo ha lasciato affiorare immediatamente le specificità del progetto, tanto per i soggetti interessati quanto per i territori coinvolti: nel triennio infatti, Vita Nova ha presentato – nei giorni di festival – nuove creazioni commissionate dalla Biennale di Venezia a coreografi riconosciuti, in collaborazione con altre realtà teatrali nazionali. Questo incontro ha consentito agli artisti di operare direttamente nei territori interessati, instaurando un dialogo diretto con scuole di danza e istituzioni del luogo volto alla selezione di giovani danzatori. Solo per l’ultima edizione di Biennale Danza – College (25 – 28 giugno 2015), si ricorda la residenza di Michele Di Stefano – mk al Teatro Annibal Caro di Civitanova Marche per la creazione di Occhio di bue, grazie a Civitanova Casa della Danza e AMAT; o il progetto di Marina Giovannini nato in collaborazione con la Fondazione I Teatri Reggio Emilia e CAB008; così come Vastagos di Sharon Fridman sostenuto dal CSC Centro per Scena Contemporanea/Casa della Danza di Bassano del Grappa. Ma ogni creazione presentata nel triennio di Vita Nova si è caratterizzata per tale vivacità di dialogo tra la manifestazione veneziana e i partner del progetto, negando la sporadicità e rinnovando invece collaborazioni per rendere continuativo il lavoro rivolto alla formazione delle giovani generazioni.

Biennale Danza 2013
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Il progetto pilota Vita Nova è stato avviato nel 2013 con i coreografi Itamar Serussi e Virgilio Sieni; questi hanno lavorato con giovanissimi danzatori di età compresa tra i dieci e i quindici anni in collaborazione con le Regioni Veneto, Toscana e Puglia.
Vita Nova_Puglia
di Virgilio Sieni
Duetto, Racconto

Vita Nova_Toscana
di Virgilio Sieni
In ascolto, Baudelaire

Vita Nova_Veneto
di Itamar Serussi
#4

È den­tro Le Tese però che sco­priamo il vero gio­iello dell’inaugurazione. Vita Nova_Puglia. Dan­zano Serena Carella e Gior­dano Signo­rile. Hanno entrambi 9 anni e mezzo. Il pezzo, com­po­sto da un duo e da un solo maschile, si inti­tola “Duetto, Rac­conto”, coreo­gra­fia di Sieni, musica dal vivo al vio­lon­cello con Peter Krause. I due bam­bini sono spet­ta­co­lari per orga­ni­cità del movi­mento, verità dell’essere in scena, capa­cità di dare luce al segno con­tem­po­ra­neo della danza. Che potenza ema­nano con i loro pic­coli corpi, che pro­ie­zione verso il futuro regala la loro danza così auten­tica den­tro il pre­sente. Un pezzo che ribalta l’idea del rap­porto tra for­ma­zione nella danza e gio­vane età […].

La danza si reinventa dall’infanzia di Francesca Pedroni (il Manifesto, 6 luglio 2013)

In “Racconto”, Giordano Signorile (nomen omen), bimbetto tutto riccioli e occhiali neri, sa governare se stesso e il cerchio con cui dialoga con consumata intensità e Serena Carella, la partner in “Duetto”, diffonde la sua presenza scenica in eleganti arabesque […].

Il college per futuri ballerini di Marinella Guatterini (ilSole24Ore, 7 luglio 2013)

[…] alla Fenice si sono viste le due sezioni di “Vita Nova”: bambine di scuole di ballo che abbandonano gli stereotipi ballettistici per misurarsi con leggerezza e ironia algidamente infantile con il movimento della danza contemporanea.

La polis in danza di Virgilio Sieni di Massimo Marino (Doppiozero, 3 luglio 2013)

Il tratto che, tuttavia, emana con maggiore potenza da questi lavori consiste in un senso di frenetico rigore, di concentrazione straordinariamente serena ed emotivamente densa: vi si percepisce, cioè, tutta la serietà e la tensione del bambino che, nonostante conosca, com’è evidente, il codice della danza accademica (nel quale probabilmente si muove già con una certa facilità), si confronta coraggiosamente con un’“altra” danza, assumendo con entusiasmo la responsabilità dell’incontro, per uscirne immancabilmente più maturo e, soprattutto, sempre più capace di accogliere stimoli e sollecitazioni […].

Biennale College – Danza: chi ha paura del futuro? di Giulia Taddeo (Krapp’s Last Post, 4 luglio 2013)

Altro…
L’infanzia di Virgilio Sieni: entusiasmo a Vie di Massimo Marino (Controscene, 27 maggio 2013)
Cerbiatti in fuga verso il futuro di Marinella Guatterini (ilSole24Ore, 21 aprile 2013)

Biennale Danza 2014
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Con il 9. Festival Internazionale di Danza Contemporanea, i coreografi chiamati a lavorare con giovani interpreti tra i 10 e i 14 anni per una nuova creazione inserita nella sezione Vita Nova sono: Adriana Borriello, Stian Danielsen, Cristina Rizzo, Simona Bertozzi, Helen Cerina e Virgilio Sieni. Si sviluppano collaborazioni con 6 regioni italiane ed enti e istituzioni operanti nella danza: Veneto/CSC – Centro per la scena contemporanea di Bassano del Grappa, Toscana/Regione Toscana e Accademia sull’arte del Gesto, Marche/AMAT e Civitanova Danza, Umbria/Teatro Stabile dell’Umbria e Associazione culturale Nexus, Lazio/Fondazione Romaeuropa, Puglia/Teatro Pubblico Pugliese.
Bolerò
di Cristina Rizzo
Tacita Muta…
di Adriana Borriello
Post grammatica
di Helen Cerina
La stanza del fauno
e Indigene (prima parte)
di Virgilio Sieni
Guardare ad altezza d’erba
di Simona Bertozzi
Let’s play
di Stian Danielsen

Occupano lo spazio con levità nella grande sala delle colonne di Ca’ Giustinian. Sulle note del Bolero di Ravel si slanciano a due a due, a tre, soli a scoprire lo spazio, a giravoltare, a creare immagini con leggerezza e farle svanire, proiettati e risucchiati dalla forza magnetica di una porta. Sei bambine e un bambino. Compunti, qualcuno con un indecifrabile sorriso (compiacimento? scherzo? gioco? impegno?) […].

Biennale Danza: la città risvegliata di Massimo Marino (Doppiozero, 26 giugno 2014)

[…] L’idea che tutto il mondo possa danzare e che la danza possa leggere il mondo intero attraversa anche le altre sezioni del Festival. Così nel progetto di creazione e formazione Vita Nova, i giovanissimi danzatori, tra i 10 e i 15 anni, si sono misurati – con esiti di altissimo livello – con creazioni inedite composte appositamente per loro. Tacita muta di Adriana Borriello cerca di cogliere, in uno spazio-tempo che è ancora ludico, un rito di passaggio attraverso i suoni e i silenzi del corpo. Ma soprattutto i due interpreti della Stanza del fauno di Sieni (Serena Carella e Giordano Signorile) hanno stupito per precisione, sincronia, affiatamento dentro una partitura felice quanto impegnativa, fatta di duetti millimetrici, di passaggi delicati dalle allusioni mitologiche al confronto giocoso.

Mondo danzante e moralità coreutica di Ferdinando Marchiori (Ateatro, 23 luglio 2014)

Giovanissimi interpreti laziali sul palco, impegnati nella restituzione del lavoro portato avanti per alcuni mesi con Adriana Borriello per la sezione Vita Nova, una danza fatta di ascolto fra i corpi in scena, nella scansione di geometrie precise; coreografia indubbiamente impegnativa per allievi così giovani, ma per questo più apprezzata e apprezzabile nel tentativo di non scendere nell’indulgenza che appiattisce e omologa […].
I piedi ci conducono nuovamente all’Arsenale, per il secondo episodio di Vita Nova, dove i giovani interpreti provenienti dalla Marche e affidati alle cure di Helen Cerina ci mostrano un lavoro più leggero e ludico rispetto allo spettacolo della stessa sezione visto il giorno prima, più accattivante ma meno profondo.

Biennale Danza 14. Il corpo dentro Venezia di Stefania Zepponi (Krapp’s Last Post, 2 luglio 2014)

Ma il Mondo Novo voluto da Sieni non può che avere origine dalla VITA NOVA, copioso ciclo coreografico sul tema dei giochi popolari danzato da giovani tra i 10 e i 14 anni. Dalla fresca Post grammatica di Helen Cerina, una dimensione ludica che vuole uscire dalle stesse regole di cui necessita facendo coesistere i giochi nel turbine circolare di una corsa che crea e dissolve infinite possibilità. Al Bolerò di Cristina Rizzo sulle ritmate note evolutive di Ravel, dove giovanissimi e a tratti spaesati danzatori ripercorrono brevi schemi coreografici ridirezionandoli e reiterandoli nello spazio.
[…] In Indigene la dimensione del gioco si è ormai evoluta nella scoperta di sé e dell’altro in un percorso di fiducia e reciproco sostegno. Le quattro giovani non hanno nulla da invidiare ad alcuni artisti ospiti, crescono di anno in anno evolvendo un loro movimento personale pulito, preciso, fluido, a tratti sorprendente nella sua naturale semplicità. È un gesto profondo, sentito e digerito che si integra nella totale sincronia dell’incontro con l’altro creando nuove e delicate dinamiche di confronto. Emergono giovani creature boschive, esseri in bilico tra una recente spensieratezza e una prossima femminilità, pronte ad esplorare e fecondare la scoperta di nuovi mondi.

Biennale Danza i suoi infiniti mondi di Laura Crippa (Corriere del Veneto, 1 luglio 2014)

Biennale Danza 2015
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Per il terzo anno di Vita Nova, sono stati chiamati a lavorare con giovanissimi interpreti, i coreografi Sharon Fridman, Marina Giovannini e Michele Di Stefano. Le creazioni presentate sono state realizzate attraverso laboratori e residenze in collaborazione con la Fondazione I Teatri di Reggio Emilia (Emilia Romagna), l’Amat (Marche), CSC Centro per Scena Contemporanea/Casa della Danza di Bassano del Grappa (Veneto).
Vastagos
di Sharon Fridman
Verve – quartetto colore
di Marina Giovannini
Occhio di bue
di Michele Di Stefano
[…] brillano i sette deliziosi danzatori under 13 già ben impostati al contemporaneo (provengono da scuole marchigiane) e guidati da Michele Di Stefano che fanno deflagrare la loro pulita, smagliante energia in linee, giri, disarticolazioni, saette di movimento dopo una prima misteriosa parte in cui avvolti da strani velari sono solo sagome di fantasmi o stalattiti, chissà.

Biennale danza in una Venezia da vertigine di Silvia Poletti (DelTeatro.it, 29 giugno 2015)

Alla Tese dei Soppalchi è di scena Vastagos: interpreti i giovanissimi danzatori della sezione Vita Nova di Biennale College guidati da Sharon Fridman […]. Fridman raccoglie con una delicatezza di una giovane madre l’innocenza di fanciulli e il canto ancestrale di un popolo immerso nelle tragedie del secolo trascorso. Fridman é un israelita: si porta inzuppata nella sua pelle la sofferenza del suo popolo. Le onde allegoriche gestuali dei giovanissimi corpi costretti a trascinarsi raso terra cantano il travaglio di secoli assecondati da un cantico sofferente non esente da salmodie bibliche.

Biennale Danza 2015: sorprese e impressioni di Farida Monduzzi e Giacomo Botteri (NonSoloCinema, 29 giugno 2015)

Ciò che ho creato per Occhio di bue ha dei grossi margini di rischio ma anche di inventività: se da un lato è sempre garantito un certo risultato perché la combinazione caotica produce una strana bellezza, dall’altro è molto importante trovare l’equilibrio giusto e per farlo l’unica possibilità è affidarsi completamente agli altri. Questo è ciò che ho voluto portare ai ragazzi e che ho detto loro sin dall’inizio: non ci sono assoli, è una danza di gruppo; se lei non danza tu non puoi danzare e tu danzi per permettere a lei di danzare […] .

Michele Di Stefano racconta “Occhio di bue” intervista a cura di Carlotta Tringali (Abracadamat, 3 luglio 2015)

[…] alle Tese dei Soppalchi all’Arsenale, Occhio di bue di Michele Di Stefano inquadra una gioventù occultata di sette ragazzini dai dieci ai quindici anni, costretti sotto un telo ondeggiante che li ricopre completamente, nascondendo la scena e tutto quello che lì nel sottosuolo avviene. Disordinati, scomposti come bestioline in fuga, imparano pian piano ad organizzarsi e a costruirsi un riparo, una loro casa, intuibile dalla sagoma sotto la tenda. È in questo mettersi insieme la chiave della loro liberazione, del loro venir fuori, uno alla volta, esplodendo di musica e di giovialità.

Biennale College Danza di Valentina De Simone (Che Teatro fa – Repubblica.it, 3 luglio 2015)

[…] È parso subito evidente il “progetto Fridman”, ma meno il lavoro che una sezione come “Vita Nova” avrebbe forse richiesto su quei corpi acerbi e inattesi, da modulare e lasciar agire. Abbiamo visto invece delle bellissime interpreti impegnate a ripetere, in modo molto gioioso, un disegno ben preciso.

Biennale College Danza 15: archivio di tracce, sguardi e gesti di Rita Borga (Krapp’s Last Post, 8 luglio 2015)

Gio­van­nini ha por­tato quat­tro gio­vani ragaz­zine a rega­lare al pub­blico dell’Arsenale (Tese dei Sop­pal­chi) la con­di­vi­sione di un per­corso gio­coso, quanto pre­ciso e vir­tuoso. […] una danza a quat­tro sem­pre più com­plessa, con varia­zioni di cui le bimbe hanno com­preso la matrice, bal­lando tra il silen­zio e una rivi­si­ta­zione elet­triz­zante de “Il volo del cala­brone”.Sette sono i ragaz­zini di Occhio di bue di Michele Di Ste­fano: anche loro hanno capito, spe­ri­men­tato, cosa vuol dire pren­dersi il tempo per esplo­rare una pos­si­bi­lità del corpo, lavo­rare nel gesto, in un rap­porto fecondo con lo spa­zio. Si muo­vono sotto un grande telo bianco, teste che si levano, sug­ge­rendo pae­saggi lon­tani, deser­tici eppure abi­tati, in movi­mento. Una natura che piano piano si tra­sforma: il pae­sag­gio bianco lascia posto a una tenda da cam­ping, scossa all’interno, dai gio­vani pro­ta­go­ni­sti. Poi, a un tratto, escono tutti, uno dopo l’altro, final­mente fuori, e la danza che esplode insieme alla musica è magni­fica, di segno con­tem­po­ra­neo per­ché dina­mica, tat­tile, nel dise­gno brioso, ener­ge­tico delle arti­co­la­zioni. È la gio­ventù che ci parla, con tutto il suo poten­ziale per il futuro.

La costruzione della giovinezza di Francesca Pedroni (il Manifesto, 4 luglio 2015)

[…] Vàstagos disegna la bellezza intrapresa per mezzo della spiritualità e del concepimento, un inizio e una fine che lasciano con il fiato sospeso.

L’essenza di un germoglio. Recensione di “Vàstagos” di Sharon Fridman di Valentina Fiori (La danza nella città, 26 giugno 2015)

Per approfondire…
Michele di Stefano: lo spettacolo sei tu! Intervista di Stefania Zepponi (Krapp’s Last Post, 2 luglio 2015)
“Quartetto colore” alle Tese per la Biennale Danza di Alessandra Comoretto (NonSoloCinema, 30 giugno 2015)
Super Trouper Vita Nova MK: recensione di Occhio di Bue di Michele di Stefano di Camilla Guarino (La danza nella città, 29 giugno 2015)
Verve, quartetto colore. Intervista a Marina Giovannini a cura di Alessandra Corsini (La danza nella città, 28 giugno 2015)
Virgilio Sieni racconta Biennale College Danza 2015. #3 Trasmissione (La danza nella città, 18 giugno 2015)
Fessurazioni, archeologie, pieghe, trasmissioni. Conversazione con Virgilio Sieni a cura di Lucia Oliva e Alice Murtas (Altre Velocità, 2015)

 

Burrows e Fargion. Oltre la tradizione dell’avanguardia

Recensione a Body not Fit for Purpose – di Jonathan Burrows e Matteo Fargion

L’avanguardia è eretica. Per tradizione. Mette in discussione pubblicamente (e spesso ironicamente) il canone consolidato, le regole accettate, il buongusto e il bon ton, le convenzioni e i cliché vigenti. Ma che succede quando il canone che viene messo in crisi e in discussione è quello dell’avanguardia stessa? Molte sono le opportunità di affrontare il tema nella Biennale Danza diretta da Virgilio Sieni.

Basti pensare al duo Burrows & Fargion, al debutto nel bel Teatrino di Palazzo Grassi firmato da Tadao Ando. Il loro Body not Fit for Purpose (che si potrebbe tradurre all’incirca come “Corpo non adatto allo scopo”) è un attacco al cuore della danza stessa, d’avanguardia o di tradizione che sia: obiettivo dichiarato del lavoro è quello di una critica alle possibilità dell’arte di trattare, comunicare e trasmettere il senso di emozioni e tematiche profonde. È la percezione e il racconto di un corpo – come recita il titolo – non adatto allo scopo, vale a dire quello di condensare e restituire importanti discorsi di carattere politico o altrettanto radicali affondi nelle qualità dei sentimenti e dei rapporti umani.

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A centro scena c’è un tavolo. Sul lato corto, a sinistra, Matteo Fargion con il suo mandolino a fare da contrappunto alle azioni di Jonathan Burrows, seduto invece di fronte al pubblico. Body not Fit for Purpose è costruito per piccole strutture, frammenti semplici, che sembrano quasi degli sketch.
Ogni pezzo comincia con un titolo: «This stance is called…», “questo pezzo si chiama…”. Bush, Berlusconi, Putin – questi alcuni dei nomi scelti per i diversi frammenti presentati nello spettacolo; e poi si parla di “gentrification”, riciclo, di guerra e di pace, di droga e di razzismo – per fare qualche esempio delle tematiche socio-politiche affrontate (o che si tentano di affrontare) in questo spettacolo. Ma ci sono momenti di grande delicatezza, tutti sbilanciati sul piano emotivo e dal sapore anche biografico: come quello in cui Burrows racconta il ricordo di un regalo di infanzia donato dal padre.

Body not Fit for Purpose si snoda così: frammenti musicali di gran efficacia, ad accompagnare brevi pezzi di movimento. Burrows rimane quasi sempre seduto, capace di creare e manipolare con lucidissima efficacia un’atmosfera di grande densità. Nervi tesissimi, micidiali, che vibrano con le corde del mandolino di Fargion. La coreografia è quasi per intero affidata alle modulazioni della postura, ai micro-movimenti delle mani e a infinite gradazioni di mimica; il suono è rotto qua e là da qualche parola. Nell’insieme si tratta di una partitura di grande complessità e precisione, che però colpisce per la sua apparente semplicità e – soprattutto – per la capacità di intervenire sulla dimensione ambientale del palcoscenico, di inciderla e manipolarla con sottile maestria.

foto di Matteo De Fina

foto di Matteo De Fina

Dichiara il duo che questo è il loro primo lavoro apertamente politico (questo il link al sito web, per leggere le note per intero).
I singoli pezzi combinano con attenzione gesti che sfumano verso l’astrazione frammisti a piccoli brandelli di riconoscibilità, dove il pubblico può ritrovare volendo qualche minimo richiamo al reale. Forse quella tensione compositiva e ambientale si converte sul piano contenutistico: nel rischio imitativo-caricaturale sempre in agguato e sempre eluso e deluso dal guizzo coreografico che si trova continuamente a gestirlo. Quando arriva il pezzo su Berlusconi o su Putin, sul Manifesto di Marx o il Libro di Mao, il pubblico ride, prima timidamente e poi sempre più di gusto. Ma la ripetizione dello schema evade la minaccia di qualsiasi tentazione comica e consolatoria.
Dopo pochi minuti nessuno ride più, la densa atmosfera del Teatrino si intride di una vibrante amarezza che sembra raggiungere anche la platea: allo spettatore non resta che contemplare l’inadeguatezza dell’arte, la sua impotenza di fronte ai grandi temi della vita, la sua incapacità davanti alla complessità della realtà; la luminosità faticosa dei suoi sforzi, la sua preziosa ma vana ostinazione; non rimane che partecipare e condividere, fra momenti di grande astrazione e altri di feroce ironia, il fortissimo senso di inadeguatezza espresso da questo lavoro. Che è anche una critica tagliente, ben calibrata e coraggiosa agli sforzi dei due grandi versanti dell’avanguardia: sia quella che, staccandosi via via dal reale, ha scelto strade d’ermetismo e astrazione che hanno rischiato di allontanare il pubblico, di incrinare o addirittura abortire il rapporto scena-platea e di intrappolare l’arte in una torre d’avorio senza via d’uscita; sia quell’avanguardia che, invece, si è tuffata nella dimensione socio-politica a piene mani, vi si è fusa e a volte confusa, anche rinunciando in qualche caso al livello della ricerca, dell’estetica, del lavoro sui linguaggi e sulle loro grammatiche.

foto di Matteo De Fina

foto di Matteo De Fina

Il lavoro di Burrows e Fargion, utilizzando insieme stimoli, posizioni, idee dell’uno e dell’altro versante e miscelandoli con sapiente maestria, dimostra – proprio con gli stessi strumenti – che è possibile una terza via. Fra ricerca e partecipazione, slancio politico e dimensione emotiva, insomma, fra i poli – tradizionalmente disgiunti in tanta avanguardia che poi si è fatta maniera – dell’etica e dell’estetica. E concretizza in scena che l’arte (in questo la danza) può fare critica, persino auto-critica. Per provare a immaginare soluzioni diverse, riformulare formati e modalità, ripensare e ripensarsi insieme al pubblico che ne fruisce.

Visto al Teatrino di Palazzo Grassi, Biennale Danza, Venezia 

Roberta Ferraresi

 

 

 

Dal laboratorio alla città: possibilità della danza alla Biennale

foto di Akiko Miyake

Dalle prove di Jérome Bel – foto di Akiko Miyake

Non sono solo gli spettacoli della grande danza internazionale, della ricerca coreografica più radicale a scuotere dalla fondamenta i canoni e le convenzioni che hanno scandito gli sviluppi e le rigenerazioni del senso e del ruolo delle avanguardie fra Novecento e Duemila (leggi la recensione a Body not fit for Purpose di Burrows e Fargion). È un tema, questo, che in effetti si ritrova a più riprese e in diversi modi in tutta la Biennale Danza di Virgilio Sieni; e che anzi forse si può incontrare a fondamento delle interrogazioni mosse dall’impianto stesso di questo Festival Internazionale della Danza.

Una domanda piuttosto simile pone anche il lavoro di Jérôme Bel, storico énfant terrible della danza internazionale, che con i suoi lavori è spesso tornato a interrogare il senso, il modo e il ruolo dell’avanguardia, stracciando in continuazione cliché, convenzioni e norme ormai consolidate sulle scene di fine Novecento. Come nel lavoro di Burrows e Fargion la questione si muove fra la qualità estetica e la dimensione socio-politica, assumendo come fulcro la densità della reale presenza dello spettatore e della co-presenza, quanto mai autentica, del performer-danzatore. Invitato alla Biennale con due nuove creazioni, entrambe sviluppate con i partecipanti al laboratorio, Bel ha composto due piccole opere che dimostrano l’intenzione di scuotere il senso della presenza del pubblico, il valore della sua partecipazione all’opera d’arte e le sue modalità di accesso ad essa.
Non a caso il coreografo accompagna il suo Senza titolo con una nota del filosofo Marten Spangberg, che assume qui un ruolo determinante: «La possibilità di un’opera d’arte oggi, anche di una coreografia, non è quella di proporre un’affermazione definitiva, ma di invitare lo spettatore a re-inventare se stesso, o forse in senso meno utopico, a ri-cercare la sua ideologia della visione, della costruzione del sé, o dell’articolazione della propria sicurezza. L’opera d’arte non può dire nulla in sé».

foto di Akiko Miyake

Dalle prove di Jérome Bel – foto di Akiko Miyake

Ognuna delle due creazioni – prima nel magnifico salone del Conservatorio con Mondo novo, poi nel foyer del Teatrino di Palazzo Grassi con Senza titolo – viene chiamata a confrontarsi con un modello, un canone. Nel secondo caso il riferimento è quello della danza classica, del ballet: una piroetta, un pliè… Ciascuno dei performer guadagna il centro del palcoscenico e tenta l’esperimento, spesso fallendo. Dimostra così la propria differenza, l’inaderenza dell’uomo al canone, della realtà a un’idea. Così come, poco dopo, recitando un passo (fino al punto che ognuno ricorda) del classico letterario per eccellenza, la Commedia dantesca. Lo stesso alla fine di Mondo novo: dopo la sospensione magnetica creata dalla conta all’unisono scandita ad alta voce di fronte al pubblico (si dovrebbe arrivare a mille, come recita un cartello, ma ci si ferma a 635), uno dei giovani danzatori si porta al centro, guida gli altri in una piccola coreografia; i numerosi performer lo seguono, cercano di imitarlo, ma il grande portato di differenza espresso da ognuno di quei corpi, movimenti e posture impedisce l’armonia, ovvero l’aderenza completa al canone. A fondo sala a volte i corpi del gruppo si sovrappongono, si intrecciano, in qualche caso si toccano. L’esito è vivacemente caotico e il senso è tutto quello degli sguardi puntati sul modello, tesi, tesissimi ad afferrarlo per riproporre lo schema eseguito dal danzatore che guida l’ensemble.

Lo scarto è sicuramente prezioso, la sua ripetizione costruisce una drammaturgia che lievita lentamente, seppure il risultato – accompagnato in entrambi i lavori da crescenti risatine del pubblico, che accolgono affettuosamente le divergenze spesso molto autoironiche fra i danzatori – possa rivelare qualche rischio di incomprensione, sbilanciandosi in qualche caso in ammiccamenti consolatori e sfiorando certe volte la minaccia di convertirsi in un rodeo che vede al centro la figura (ormai purtroppo a gran rischio di retorica) dell’uomo comune, con le sue specificità e la paradossale peculiarità della normalità.

Una performance nei campi veneziani - foto di Andrea Avezzù

Public Intimacy – foto di Andrea Avezzù

Ma il valore aggiunto che può portare il percorso veneziano di Jérôme Bel a questo discorso, rispetto alle riflessioni che possono venire dagli altri spettacoli in programma di cui si è parlato, si rinviene nel fatto che entrambe le sue creazioni sono state composte insieme ai molti partecipanti al suo workshop. L’occasione è quella di riflettere sulle possibilità, oggi, di un percorso laboratoriale; ad esempio in rapporto alla questione della professionalizzazione e della formazione permanente, ma anche dei rapporti fra il percorso creativo e il luogo (teatrale, cittadino, umano) che lo ospita e delle relazioni che legano e separano processo e prodotto spettacolare.

Non a caso, uno dei grimaldelli più dirompenti con cui, nel secolo scorso, le arti performative hanno attaccato le convenzioni vigenti della scena ufficiale è rappresentato proprio dal laboratorio: contro il prodotto da fruire passivamente, un’ora seduti in poltrona e via; contro lo spettacolo finito e chiuso in se stesso; contro una bellezza comunemente intesa che spesso intrappola invece che lasciar crescere e fluire l’opera; contro questi (e altri) dogmi nel secondo Novecento laboratori, workshop, seminari hanno rappresentato uno strumento primario per rivendicare l’autenticità e la particolarità dell’esperienza performativa. Sia per chi la crea (il processo creativo, il rapporto fra gli artisti, il lavoro sullo spazio…) che per chi ne fruisce o, meglio, per chi vi partecipa (dal coinvolgimento diretto e sensoriale a tutte le modalità intellettive co-autoriali).

Ed è proprio la forma-laboratorio una delle scelte più intense e frequenti del programma di questo festival. La Biennale Danza di Virgilio Sieni, così, sembra inserirsi a pieno fra questi lunghi fili genealogici che legano il nostro presente alla sua tradizione novecentesca e d’avanguardia: è come un grande, grandissimo happening che abbraccia la tutta la città e l’intero microcosmo della danza italiana (e non solo). A partire dalla diffusione e dall’utilizzo di luoghi non convenzionali: pochi, pochissimi i teatri in senso stretto ad ospitare le performance di questa Biennale e molti invece i saloni di palazzi (Conservatorio e Biennale), luoghi riconvertiti in teatri (le straordinarie Tese dell’Arsenale) e le piazze che li circondano.
Ma non si tratta soltanto della fuoriuscita fattuale dallo spazio del teatro e della danza comunemente inteso, per un festival che si innesca nel primo pomeriggio, procede lungo tutta la giornata e si inoltra fino a notte fonda: lo scorso anno Sieni e la sua Biennale hanno preparato il terreno per un progetto capace di coinvolgere i cittadini, dai più piccoli agli anziani, nella creazione degli spettacoli. E poi, ci sono le centinaia di professionisti della danza, danzatori e coreografi, giunti da tutta Italia e dal resto del mondo per prendere parte ai lavori della Biennale. Sembra più un happening grande e partecipato, più un mondo che s’incontra, un ambiente che si crea, che una “normale” rassegna festivaliera.

Una performance nei campi veneziani - foto di Andrea Avezzù

Public Intimacy – foto di Andrea Avezzù

A coronare le spinte effervescenti di queste molteplici fuoriuscite, la scelta di Rem Koolhaas, curatore della Biennale Architettura, che ha invitato i direttori degli altri settori ad utilizzare gli spazi destinati alla propria mostra: così, passeggiando per le Corderie dell’Arsenale in occasione della conferenza stampa che inaugura il festival di danza, fra una maquette e un video, fra un prototipo e un’installazione, si incappa in palchi piccoli e grandi, abitati dalle prove e dai workshop della Biennale Danza (opportunità che si ha per tutto il festival e poi anche per quello di teatro).

Per concludere, c’è molto in questa Biennale – nel progetto di Sieni e poi nelle effettive modalità di svolgimento del festival, nelle scelte artistiche e in quelle logistiche – che ricorda a più riprese approcci e modi della grande avanguardia del secolo scorso. E quindi viene per forza da chiedersi se l’esito di tutti questi sforzi – salutati con grande entusiasmo sia dal pubblico che dal piccolo mondo del teatro e della danza – andrà a ripetere quello che quelle stagioni ormai storiche racchiudevano in forma di promessa: un’arte più vicina alla realtà e alle persone, capace di grandi slanci estetici ma attentissima alle modalità di incastonarsi e intrecciarsi all’ambiente che la ospita.
Alcune di queste scommesse, nelle grandi stagioni della seconda avanguardia, sono state vinte e anche portate alle estreme conseguenze. In eredità, hanno lasciato domande e ancora un grande lavoro da fare; per esempio come uscire dal vicolo cieco del rapporto fra processo e prodotto, evitando però da un lato di rinunciare al rapporto con il pubblico (rischio in cui spesso sono cadute tante esperienze radicali della ricerca) e dall’altro di offrire allo spettatore una forma spettacolarizzata di processualità, a rischio di convertirsi e cristallizzarsi – una volta portata in scena – essa stessa in prodotto. O anche come gestire la complessità in cui si stratificano le relazioni fra arte e territorio, soprattutto in un ambiente urbano; o infine, come si possa creare un equilibrio fruttuoso e vitale fra pubblico partecipante e professionalità artistica, senza eccedere presso l’uno o l’altro estremo.
Al di là degli spettacoli più o meno belli, dei laboratori più o meno riusciti, della straordinarietà dei luoghi e della vivacità delle piazze, sono brandelli d’eredità che sembra la Biennale di Sieni voglia prendere in carico. In effetti, uno dei pensieri che resta alla fine è quello di una progettualità che prova a riformulare il formato-festival e va inserirsi a pieno nel catalogo di quei pochi e fortunati casi in Italia – ma forse la tendenza, nell’ultimo paio d’anni, si fa sempre più visibile e diffusa – capaci di accogliere (anche) questo tipo di domande. E, fra l’altro, di condividerle con lucidità e rivolgerle anche agli spettatori e ai cittadini che vi prendono parte.

Roberta Ferraresi

Da Erez a Danielsen: uno squarcio di vita da campo

Il campo veneziano è storicamente oggetto di studio da parte dell’architettura come prototipo di spazio pubblico. Anticamente concepiti come retro di palazzi e chiese, si accedeva infatti sia nei luoghi pubblici che in quelli privati esclusivamente dalle porte d’acqua, i campi si sono evoluti fino a diventare il centro della vita cittadina e il luogo in cui si raccoglieva il bene più prezioso per la comunità: l’acqua piovana.

Public Intimacy di Iris Erez

Public Intimacy di Iris Erez

È a partire da cinque campi veneziani che si sviluppa il filone Agorà della Biennale Danza 2014 diretta da Virgilio Sieni. Il 26 giugno in Campo San Maurizio i nove performers di Public Intimacy condotto da Iris Erez hanno restituito al pubblico il risultato del loro lavoro.
Lo spazio pubblico per definizione è diventato occasione per riflettere sul limite che separa, o forse non separa più, la sfera pubblica da quella privata e legata alla singola intimità.
La coreografa e interprete israeliana ha interrogato performer e spettatori sulla metamorfosi in atto grazie, o a causa, dell’evoluzione dei social network e delle nuove tecnologie a disposizione della massa.
Un perimetro circolare delimita lo spazio dell’azione in cui ogni danzatore si muove autonomamente. I movimenti sono accompagnati da frasi lanciate nel vuoto: piccole descrizioni di “stato” tratte dalla quotidianità di Facebook ed espresse in modo quasi completamente sconnesso.
È la piattezza delle voci a colpire il pubblico, il tono uniforme che non si accorda emotivamente ad alcun contenuto e rende perciò la comunicazione inespressiva.
Cambiando il codice, dall’alfabeto al movimento corporeo, e il luogo, dalla piattaforma virtuale a un’ambientazione fisica, l’effetto che si osserva è di straniamento, di incomunicabilità, di caos e di buffa quanto dolorosa solitudine.

Let's Play di Stian Danielsen

Let’s Play di Stian Danielsen

Prende spunto dal luogo aperto, ma a partire, questa volta, dalla sua dimensione ludica, il lavoro di Stian Danielsen con quattro giovanissime interpreti vicentine: Let’s Play.
Il lavoro fa parte della sezione Vita Nova, un progetto di creazione e formazione rivolto a danzatori tra i 10 e i 15 anni che vede coinvolti sei coreografi italiani ed internazionali: Cristina Rizzo, Adriana Borriello, Helen Cerina, Virgilio Sieni, Simona Bertozzi/Nexus, Stian Danielsen. Il coreografo norvegese crea una composizione pensata per quattro danzatrici nella fase evolutiva tra l’infanzia e la vita adulta e propone come punto di partenza e di riflessione corporea il gioco di strada. Un gioco che si può fare solo in gruppo, attraverso l’interazione tra più soggetti e seguendo regole non scritte molto precise e codificate. Un semplice “Un Due Tre Stella” può diventare coreografia espressiva, così come i canti, le filastrocche e i ritornelli che intonano i bambini per cullarsi e passare il tempo.
Uno squarcio di vita da campo o piazza traslato in teatro.

Margherita Gallo

 

Lasciarsi attraversare: il viaggiatore di mk in un luogo altro

Sulla terrazza di Ca' Giustinian

Sulla terrazza di Ca’ Giustinian

«Al primo incontro nella foresta con una tribù indigena armata e minacciosa, l’antropologo Miklucho Maklaj decide di stendersi per terra e dormire. Gli indigeni, colti di sorpresa da tanta arrendevolezza, lo lasciano illeso. E poi lo accettano». Fa riferimento a questa vicenda, Michele Di Stefano, nel ricevere il Leone d’argento a Ca’ Giustinian, lo scorso 21 giugno. Premio che dedica «all’arrendevolezza del corpo e alla sua permeabilità». Una capacità di resa che non esclude, anzi comporta, un grande coraggio.
Un’apertura del corpo e una disponibilità all’incontro di cui abbiamo già parlato con il coreografo di mk in una conversazione dello scorso anno. In quell’occasione si faceva riferimento alla costruzione di un evento, Angelo Mai Italia Tropici, che – allo stato attuale, con un’inchiesta giudiziaria che vede coinvolto lo spazio romano, recentemente dissequestrato – ci appare davvero, e non senza amarezza, come un altrove.
Nell’episodio che vede protagonista lo studioso russo, l’avvicinamento è inteso come un approssimarsi all’altro. Una condizione che è propensione fisica, a fronte di un’ovvia predisposizione mentale, di una sapienza che sta per farsi esperienza.
Ed è uno sguardo sapiente quello che riconosciamo nei performer di mk al loro ingresso nello spazio scenico, che sia un teatro o una piazza. Un guardare oltre a sostegno di un incedere diritto, di un camminare eretto, di una fermezza che scivola repentinamente in flessibilità. Gli arti si piegano senza scomporsi, la colonna s’incurva senza sciogliersi, «le vertebre si pongono in una condizione molto più liquida», il corpo è pronto a lasciarsi attraversare.
Si sposta in gruppo o intraprende passaggi solitari, il viaggiatore di mk, esploratore esperto o novello straniero, (s)perduto o immerso in luogo altro.
È il singolo alla scoperta di un paesaggio sconosciuto, nella performance parassitaria Grand Tour, “indagine turistica nel mondo circoscritto della produzione spettacolare contemporanea” performance che vede protagonista lo stesso coreografo.

Sahara Para Todos

Sahara Para Todos

È un sopravvissuto in Robinson, individuo che smarrisce se stesso, ridefinendosi nell’incontro con un’innocenza primordiale (leggi un approfondimento).
Sono, invece, occasionali viaggiatori quelli di Clima – a breve a Marsiglia a La Friche – nuclei eterogenei e disomogenei in movimento, a condividere uno spazio comune, che sia la sala nera dell’India (durante il cantiere di Perdutamente) o gli spazi aperti del Santarcangelo Festival, nell’edizione 2013.
E se, in quell’oggetto coreografico, il gruppo si mostrava compatto per poi sfaldarsi, nella creazione vista a Venezia, Sahara Para Todos (guarda il video), i performer attraversano Campo San Maurizio uno, due, o tre per volta, fino ad abitarlo insieme, nelle diversità di sguardo e nelle difformità di fisicità in movimento.
Rintracciamo, nell’omogenea calibratura del corpo, molteplici traiettorie di orientamento. È possibile, per la prossimità delle figure fra loro, cogliere l’insieme, così come seguire i singoli, ma ad attrarre, ancora una volta, è l’errore, nel senso etimologico del termine. Error che coincide, in Robinson, con il corpo giallo del selvaggio, che attraversa lo spazio senza mai partecipare alla danza. Error che, nell’esito del laboratorio della Biennale Danza 2014, è incarnato da un danzatore in abiti comuni (pari a quelli degli altri) con maglia fluo, che osserva a lungo prima di partecipare alla danza.
Michele Di Stefano chiede ai performer di dimenticare il movimento imparato, di lasciare che il corpo lo esegua, mentre l’attenzione si concentra sullo spazio, o sul tempo, o sugli incidenti che possono interrompere il corso già irregolare. Non ostacoli, non impedimenti all’azione ma possibilità di esposizione del corpo a circostanze non prevedibili, come accade con il suono delle campane in Campo San Maurizio, che, per un breve lasso di tempo, sovrasta la musica.
Lo spettatore può fermarsi alla superficie, o compiere uno sforzo, assimilare il movimento del gruppo per concentrarsi sulla fissità o sulla mobilità di un individuo, o cogliere i continui cambiamenti generati dall’incontro, o cercare la distanza tra i corpi, isolare i pieni, esaltare i vuoti.

Sahara Para Todos

Sahara Para Todos_particolare

E, ancora una volta, la natura è solo evocata, con immagini, suoni, odori. E, ancora una volta, il luogo non è raggiunto, non è abitato. Sappiamo che c’è un punto d’approdo, come ci ricorda, stavolta, un secchio con il pescato, rovesciato dinanzi al pubblico, e come, in Robinson, ci hanno ricordato, con una prepotente invasione di palco, variegati e abbondanti fiori. Ciò che vediamo, ciò che seguiamo, è «l’uomo in continua osservazione del paesaggio e della geografia», come si legge nelle motivazioni per l’assegnazione del prestigioso riconoscimento. È il percepire un altrove, piuttosto che rivelarlo, perché, ci ricorda Michele Di Stefano, «nell’avvicinamento succedono le cose più interessanti del processo».

Rossella Porcheddu