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Intervista a Gipi e Giovanni Guerrieri

Intervista a Gipi (Gianni Pacinotti) e Giovanni Guerrieri de I Sacchi di Sabbia a cura di Camilla Toso

Un connubio decisamente riuscito quello tra Gipi e I Sacchi di Sabbia. Quando è scattata la scintilla per lavorare insieme e fare ESSEDICE?

Giovanni: Io e Gipi abbiamo ricominciato a frequentarci l’anno scorso quando lui faceva La mia vita disegnata male e l’abbiamo fatto nel nostro piccolo teatrino… Gipi aveva ripreso gusto nello stare in scena per sentire l’ebrezza del palco. S. ci piaceva perché Gianni non lo aveva ancora eseguito sulla pagina, ci sembrava un lavoro interessante, che avremmo potuto affrontare insieme.

Gipi: Alcune cose che stanno nel finale dello spettacolo per esempio, nel libro non ero riuscito a disegnarle, erano rimaste solo testo sulla pagina bianca. L’idea di farle diventare immagine era forte, poi mi interessava vedere come sarebbe diventato una volta preso in mano da altre persone. Lui ha interpretato mio padre, che non è una cosa semplice. Io non gli ho mai detto niente di com’era mio padre. È stato un piccolo miracolo.

Durante lo spettacolo Gipi è il narratore, pur non essendo un attore la sua presenza scenica è fortissima. La complicità che avete sulla scena è incredibile, quanto di tutto ciò è improvvisato e quanto invece scritto?

Giovanni: Sì, gran parte dello spettacolo è improvvisazione. Gipi ha un percorso entro il quale muoversi e noi con lui. In generale abbiamo dei punti fissi che dobbiamo rispettare ma il contenuto è mobile.

Gipi,trattandosi delle tua vita, possiamo dire che è un’improvvisazione sui ricordi quella che fai?

Gipi: Sì, in alcune scene sì. Le parole sono improvvisate. È facile improvvisare su un sentimento che è molto radicato, una cosa che fa parte della tua esistenza e della tua crescita. Non credo di conoscere niente di meglio che l’amore della mia famiglia. Quindi posso parlarne prendendo vie diverse però so dove devo andare, dove devo portare il racconto.

Come è stato il passaggio dalla dimensione del fumetto a quella del teatro? Quest’ultima sembra essere più libera, ma può essere anche molto vincolante avendo a che fare con delle persone in carne ed ossa…

Gipi: Sono due mezzi chiaramente diversissimi, ma c’è una cosa che li accomuna: entrambi sono nati improvvisando pagina dopo pagina e quindi, nel caso di ESSEDICE, momento per momento. Per me questo è fondamentale, per mantenere una freschezza e non appesantire una tematica che potrebbe essere pesante. Quindi, se c’è una vicinanza tra i due lavori è questa: entrambi si sono svolti man mano, senza sapere dove saremmo andati a finire.

Le maschere di Ferdinando Falossi riportano in scena il fumetto e donano vita a “personaggi-ricordo”. Quando avete deciso di utilizzare questo mezzo espressivo?

Gipi: L’idea dei tableau vivantes nacque da Giovanni, fin dall’inizio. All’inizio era molto confusa, ma l’idea era quella di vedere dei disegni che si muovevano.

Giovanni: Conoscevo Ferdinando Falossi e sapevo che era l’unica persona che poteva aiutarci, non solo tecnicamente, ma anche dal punto di vista del processo. Non si trattava solamente di una maschera da indossare, ma era necessario fare tutto un processo attoriale per portarla in scena, e lui ci ha aiutato incredibilmente.

La struttura dello spettacolo è la stessa del fumetto: una voce narrante con le immagini da sfondo… L’intimità è la stessa o cambia qualcosa dalla pagina alla parola?

Gipi: La mia voce, è la voce fuori campo che racconta, equivale alla parte scritta dei miei fumetti. Il grado di intimità che si raggiunge con la scrittura non è minore di quello che si raggiunge con la parola.

Raccontare la vita di tuo padre significa raccontare anche episodi della seconda guerra mondiale…

Gipi: Certo, ma non è stata una scusa per raccontare la guerra. La cosa più importante, quando ho scritto il testo originario era sentire mio padre accanto. E il modo più presente in cui mi è stato vicino sono stati i racconti, non la vicinanza padre-figlio. I momenti più belli della mia famiglia, erano quando mio padre, a casa, raccontava le sue storie. Siccome le cose che raccontava erano sempre quelle, quando ho iniziato a scrivere il libro, mi è venuto spontaneo scriverle. E soprattutto non dire “Esse diceva”, ma di scrivere al presente. Per me era la chiave fondamentale, non fare un racconto dove ci fosse nascita, vita e morte di una persona, ma dove ci fosse una sottolineatura della mia convinzione che le cose non muoiono mai. Era per me una cura: io dico che mio padre non è passato, ma sono io che non riesco a vederlo, perché soffro di quel male che hanno gli esseri umani di subire il tempo invece che vederlo in una dimensione fisica. In quel modo mio padre non era nato e morto, mio padre “è”. E quindi il dolore che io provavo per la sua perdita diventava un’altra cosa, diventava una nostalgia come si può avere di un amico che è lontano e non di qualcuno la cui vita perde senso in quanto finita. Quindi ho iniziato a scrivere al presente perché per me era quella la battaglia contro il tempo e contro l’idea della morte. Speriamo di averla riportata in questo spettacolo.