recensione pascal rambert

La retina frustrata di “Memento mori”

Recensione a Memento Mori – di Pascal Rambert

"Memento mori" di Pascal Rambert

“Memento mori” di Pascal Rambert

Come recensire uno spettacolo non visto?

Come recensire uno spettacolo mai visto?

La retina, colpita dalla luce, attiva i centoventicinque fotorecettori posizionati sulla sua superficie, i quali rispondono generando una serie di impulsi elettrici. I micro-impulsi vengono convogliati nel nervo ottico e poi inviati al cervello, in cui si trasmettono i potenziali dell’azione alle differenti regioni visive con diverse funzioni (banalizzando la biologia!).
La pupilla, al buio, si dilata, quando la colpisce la luce, si restringe.
Anche nell’oscurità, qualcosa, dentro di noi, nel nostro cervello, si sta muovendo e ci sta muovendo.
Uno spettatore di teatro partecipa all’esperienza dello spettacolo ascoltandola, vedendola, percependola, muovendo qualcosa dentro di sé, commuovendosi, subendo un crollo, una scossa, vivendo una perturbazione dell’animo – anche quando l’esperienza non risulta gradevole.
Si tratta delle acquisizioni delle neuroscienze tanto à la page negli ultimi tempi e tanto affascinanti, se funzionali alla comprensione o alla pedagogia del teatro.

Cosa succede all’uomo prima della comparsa del movimento? Cosa succede al movimento prima della comparsa dell’uomo? Sono le ambiziose domande di partenza di Memento mori, spettacolo per cinque danzatori in scena al festival Vie con la coreografia del drammaturgo, attore, regista francese Pascal Rambert – già ospite della precedente edizione con uno spettacolo, Clôture de l’amour, dal testo densissimo.

Masaccio, "Cacciata dei progenitori dall'Eden"

Masaccio, “Cacciata dei progenitori dall’Eden”

L’immagine di ispirazione, dice il coreografo, è stata la Cacciata dei progenitori dall’Eden del Masaccio, eppure, a guardare lo spettacolo, viene in mente Giacometti: figure tridimensionali ma tanto filiformi da sembrare inesistenti, a-corporee. Così appaiono i danzatori nei rari momenti di penombra nebulosa (il disegno luminoso è di Yves Godin): corpi senza arti definiti, fuori fuoco, asessuati, senza testa, deformati da posture anomale e dall’utilizzo di altri oggetti irriconoscibili – poi identificati, dall’odore, come ortaggi. Eppure, fantasmi pulsanti, come pulsante è la retina durante il meccanismo ombra/penombra. Corpi avvinghiati in un ammasso di carne del quale non si distinguono braccia, gambe, testa, ma solo oscillazioni, come fossero palpiti di cuore e come se il pavimento si facesse lava o acqua, materia liquida che culla e inghiotte.

Come recensire uno spettacolo non visto?
Basandosi su ciò che lo spettacolo stesso ha suscitato nell’immaginazione, fondando lo scritto sulle sensazioni corporee provate, tentando di appigliarsi a quelle poche immagini concrete balzate alla mente e davanti o dietro gli occhi sfiniti dal tentativo di guardare.

Come recensire uno spettacolo mai visto?
Mettendone in rilievo gli indubitabili caratteri di originalità e sperimentazione e alludendo al tentativo, forse riuscito, di rispondere alle domande: a cosa serve questa relazione biunivoca tra chi espone il proprio corpo su un palcoscenico e chi sta dall’altra parte? Quali traiettorie compie il movimento del performer prima di incontrare il vettore ottico dello spettatore? Cosa succede quando le due prospettive non si incontrano mai, ma condividono un tempo, un luogo, una logorante frustrazione?

Memento mori è un’allucinazione e sollecita l’immaginazione a riciclare frammenti di vita e ad assemblarli dando origine a nuove percezioni.

Visto al Teatro delle Passioni, Vie Scena Contemporanea Festival, Modena

Nicoletta Lupia

Riflettendo su VIE, festival in piedi nonostante il terremoto

Giorni di terremoto, giorni infelici. L’Emilia Romagna è stata messa in ginocchio dal terribile sisma che l’ha colpita e che continua ad angosciarla con scosse continue. Giorni di devastazione, ma anche giorni di VIE Festival di Modena, a cui abbiamo preso parte nel primo finesettimana, quando la città e i paesi attorno stavano tentando di ricominciare dopo il terremoto del 20 maggio, pensando che il peggio fosse passato.

foto di Marc Domage

Mentre il grande regista lituano Nekrosius delude le aspettative con la sua Divina Commedia (rimandiamo alle recensioni di Simone Nebbia per Teatro e Critica e Massimo Marino per Doppiozero), il francese Pascal Rambert dà prova della sua intensità con il bello Clôture de l’amour andato in scena in prima nazionale. Due attori splendidi uno di fronte all’altro monologano e non dialogano, ognuno tira dritto per la propria strada, correndo come un treno senza mai voltarsi, senza confrontarsi. La loro storia d’amore è finita, irrimediabilmente chiusa. Inizia lui, Stanislas Nordey a sputar sentenze, ad addossare odio e rancore a lei, immobile dall’altra parte, tesa e concentrata a reggersi in piedi e a non fiatare davanti alle accuse e alle frasi assurde che l’attore sciorina senza sosta. Come se avesse paura di una replica che potrebbe metterlo in difficoltà, fargli cambiare idea o contrastare le sue folli teorie come il fatto che «la vita non è un cestino di fragole». Nelle sue parole più volte si sente pronunciare che «non c’è soluzione e tutto diventerà orrore e sarà pieno di orrore», proprio come diceva Conrad nel suo Heart of darkness; in fondo, il nocciolo di ogni cosa è sempre quello, l’orrore. Geniale l’idea di interrompere il monologo con dei bambini che entrano in scena, con vestiti colorati iniziando a cantare: straniante e allucinante, una soluzione che fa sorridere e prendere una boccata d’aria, donando gioia in un ambiente freddo e dilaniante, come quello creato dalle parole pronunciate da Nordey. I cinque minuti del coro finiscono presto per lasciar spazio al dolore di lei, una gracile ma tenace Audrey Bonnet, che non svuota la storia come ha fatto lui, guidato dal rancore, ma ne tesse le fila più significative e intense. La forza della Bonnet è toccante e coinvolgente, il suo monologo regala dolore e bellezza, scendendo nei dettagli di una passione perduta. Piegato in due lui l’ascolta, ma non riesce neanche più a guardarla. Non si ha un’altra possibilità, l’amore sarà ancora nel ricordo; vivrà in un passato che non può tornare ma che non può essere rinnegato.

Ma torniamo a oggi per aprire una riflessione. Rambert si è visto a Modena quando c’era un disperato bisogno di ricostruire, prima che quel 29 maggio, fatale per molte vite, riaprisse una ferita ancora dolorosa, rendendola più profonda e difficile da rimarginare. Mentre il nord Italia piange i suoi troppi morti, il numero degli sfollati aumenta e le polemiche contro la Parata del 2 giugno impazzano, VIE Scena Contemporanea Festival, solitamente posto a epilogo delle stagioni teatrali e anticipato quest’anno a maggio, continua imperterrito il suo corso. Ovviamente modificandolo. È del 30 maggio infatti la decisione di Pietro Valenti, direttore di ERT di non fermare completamente la rassegna iniziata il 24 maggio e che si concluderà il 2 giugno: «Il sisma ha colpito Modena molto duramente ma fermare il festival sarebbe come levare alla città un pezzo della sua vita. Il teatro delle Passioni vuole proporsi come luogo di ritrovo dove trovarsi per uscire di casa, incontrarsi, parlare, per ricreare quella comunità che solo il teatro permette».

Tanti spettacoli sono stati annullati – come le performance/pièce di Lisbeth Gruwez, Orthographe / Presto!?, i debutti di Barokthegreat, Danio Manfredini e Antonio Latella – e altri spostati di orario data l’inagibilità di alcuni luoghi. E nonostante tutto nessuna sospensione del Festival, ma la volontà di restituire al teatro la sua natura comunitaria, proprio come successe a Sarajevo negli anni ’90, mentre la guerra impazzava. E atterrava palazzi, ponti, strade, persone. Il teatro era protesta, riscatto e resistenza. Diversamente da quei posti, qui non c’è l’uomo a manovrare l’orrore, ma la natura: di fronte all’impotenza ci si domanda dunque come gli artisti riescano a continuare il proprio lavoro – perché in fondo di lavoro si tratta – o dividere l’ospitalità e le stanze di albergo con chi ha perso la propria casa e si è ritrovato in pochi secondi senza nulla più. Ed è difficile immaginare e pensare con una ferita appena aperta e così dolorosa che il teatro possa ora come ora creare una comunità quando si cercano di ricostruire pezzi del singolo, frammentato e ridotto anche esso a macerie. Il Festival VIE abbraccia infatti un territorio più ampio che, oltre la città di Modena, comprende luoghi come Carpi e Castelfranco Emilia, fortemente colpiti dal sisma. Lì VIE si ferma per trasferirsi completamente a Modena, ma può esserci “festa” nel Festival? Opinioni differenti si scontrano tra il coraggio di andare avanti e la necessità di rivedere delle priorità, forse sollevando ancora più polvere in un luogo già devastato dove la calce ha coperto tutto, ma senza lasciare ancora un grande silenzio.

Da VIE Scena Contemporanea Festival, Modena

Carlotta Tringali