recensione pathosformel

Conflitti su sfondi urbani nelle danze di Pathosformel

Appunti su An afternoon love – di Pathosformel e recensione a Alcune primavere cadono d’inverno – di Pathosformel e Port-Royal

Sono piccoli squarci nella penombra i due momenti che espone Pathosformel con An afternoon love e Alcune primavere cadono d’inverno. Presentati nel suggestivo spazio della Cavallerizza Reale di Torino per il Festival Prospettiva 150, la location ben si adatta ad accogliere due figure in lotta, appena illuminate sullo sfondo di istantanee urbane. Sulla scena, un giocatore di basket in prima, e un ballerino di break dance poi, danno vita a una temporalità dilatata, in grado di far sprofondare lo spettatore in un viaggio interiore alla riscoperta di una romantica solitudine. Ad un primo sguardo, si potrebbe dire che lo sport si faccia simbolo di una condizione esistenziale; eppure il discorso condotto da Daniel Blanga Gubbay Paola Villani si carica di impulsi e rimandi che vanno oltre il concettuale, recuperando un approccio teso a un’analisi delicata, che fa del corpo atletico il centro di riflessione.

"An afternoon love" - foto Andrea Macchia

Nello studio di An afternoon love un giocatore di basket si muove agile sulla scena, danzando in un assolo di scartaggi, e accompagnato dal solo pallone. Ciò che si palesa sin dall’inizio è il senso di uno sforzo e di una lotta contro qualcosa che abita la scena con il performer, ma invisibile. Non c’è nulla di trascendentale nella rappresentazione, eppure, attraverso i soli movimenti, Pathosformel riesce a suggerire il senso di un conflitto privato, di una relazione che a tratti ricorda una storia d’amore. Un rapporto tra l’atleta e lo sport che si viene a instaurare a un livello che oltrepassa la prestazione fisica e che si fa cifra di una tensione maggiore, verso qualcosa che travalica le manifestazioni e le competizioni. Chiunque abbia praticato sport a livello agonistico riconosce in quelle movenze il ritmo quotidiano di una pressione che nulla ha a che fare con i risultati e i riconoscimenti ottenuti. L’unica tensione che muove un atleta è quella verso la perfezione, verso la completa padronanza del proprio strumento, verso la piena consapevolezza di se stesso. Un percorso inevitabilmente solitario, e carico di malinconia.
In una coreografia orchestrata su “l’essere sotto i riflettori” e il muoversi nell’ombra, Joseph Kusendila gioca a richiamare alla mente immagini arcaiche e ritmi interiori: il rimbombo del pallone sulla pedana, come un tamburo, riecheggia nelle orecchie dello spettatore, nel tentativo di risvegliare il battito di qualcosa che pulsa all’interno, mentre le pose assunte durante esercizi di equilibrio rimandano a talune statue di atleti ed eroi greci. Questa temporalità incerta – che riesce a porre sullo stesso piano antiche civiltà e paesaggi urbani dal sapore statunitense – si muove su una melodia fatta di lirica tedesca e lunghe pause in cui tutto ciò che si sente è un respiro affannoso. Suggestioni fulminee, che necessitano ancora di una partitura e di una drammaturgia più solida per poter superare la forma della sola impressione, dispersa in tempi forse troppo dilatati.

"Alcune primavere cadono d'inverno" - foto Andrea Macchia

Il discorso acquista contorni più chiari nella mente dello spettatore che ha assistito anche ad Alcune primavere cadono d’inverno. In scena, questa volta, è una pedana metallica, sulla quale si muovono un ballerino di break dance e un sacchetto di plastica (che richiama la poesia della famosa scena di American Beauty e dell’immaginario ad essa collegato). Il lavoro – realizzato con i Port-Royal (formazione di rilievo nel panorama della musica indipendente italiana) – riesce a raggiungere picchi di estrema emotività ed empatia, coadiuvato da un live sound decisamente avvolgente. Lo sprofondamento nell’intimità del performer (Stefano Leone) e nel suo sfidare le leggi della fisica attraverso una pratica che porta la rottura (“break”) nel suo stesso nome, è infatti sostenuto da un tessuto di sonorità corpose frastagliato di glitch elettronici che sospingono lo sviluppo melodico della partitura musicale e coreografica. Attraverso questo accostamento semantico insolito (la cultura hip hop e la musica indietronica) Pathosformel e Port-Royal riescono a creare una temporalità bloccata, in cui protagonista e centro assoluto della rappresentazione è la lotta dell’atleta/performer: i limiti fisici imposti dalla propria struttura anatomica e da uno spazio ristretto in cui agire disegnano un perimetro all’interno del quale definire e tracciare se stesso. Al contrario di An afternoon love, in questa partitura gestuale la presenza umana si incontra e dialoga con un oggetto che non è un suo prolungamento, ma un vero e proprio interlocutore con il quale confrontarsi e da cui farsi ispirare. Ne scaturisce un’interessante contrapposizione tra ciò che è in grado di librarsi nell’aria e ciò che invece è ancorato al suolo dal peso della propria umanità. Sarebbe facile leggervi una metafora di una coscienza che anziché liberare, intrappola. Eppure, la bellezza della performance risiede proprio nell’abilità con cui si viene a creare un momento di sospensione, a partire dalla suggestione di un passo a due per corpo e oggetto: un raro momento di delicatezza non gratuita, in cui difficilmente si ha modo di immergersi a teatro.

Visto alla Cavallerizza Reale per Festival Prospettiva 150, Torino

Giulia Tirelli

Azioni che interrogano lo sguardo

Recensione a La prima periferia Pathosformel

La prima periferia - foto di Giancarlo Ceccon

In un silenzio dai tratti rituali, all’interno di un quadrilatero chiaro, tre figure sono impegnate a far muovere altrettante creature, che vanno a costruire, successivamente, immagini e (più di rado) azioni. Si presenta quella che si può intuire come una serie di tableaux vivants, anche se gran parte delle composizioni non sono immediatamente riconoscibili o riconducibili alla figura originaria. Ma non è (solo) questo l’importante: La prima periferia è uno spettacolo di una delicatezza particolare, che condensa il coinvolgimento emotivo e percettivo del singolo spettatore attraverso una esile leggerezza visiva, la precisione delle linee compositive e – non ultime – la cura e l’attenzione quasi affettiva di cui è permeata ogni azione.
Protagonista è la fatica che sottende ogni movimento, anche il più piccolo: lo stridere delle articolazioni – che ognuno riconosce, ma nessuno sa – è un leitmotiv acustico talmente efficace da sovrastare il tessuto sonoro abbastanza convenzionale su cui si sviluppa lo spettacolo;
mentre, allo stesso tempo, lo sforzo implicito nella cinetica umana si esprime anche a livello visivo: tre persone possono non bastare a farne inginocchiare una quarta, qui “interpretata” da un modello anatomico umano a grandezza naturale. Proprio in questa dimensione si colloca uno dei tratti di questo lavoro, che – come anche altri di Pathosformel – interroga direttamente lo spettatore (riguardo gli automatismi della propria visione) e il performer (sulle emergenze della propria azione).

La prima periferia - foto di Giancarlo Ceccon

Di più, La prima periferia è la prima creazione in cui sono presenti attori tout court: tre performer, appunto, impegnati a comporre i movimenti e le pose dei modelli anatomici. Qui la ricerca sull’intuizione e l’immaginazione dello spettatore per cui l’ensemble si è distinto fin dall’inizio è sviluppata secondo un percorso estremamente interessante: smascherata, l’interrogazione sulla percezione e l’interpretazione si amplia fino a coinvolgere ulteriori livelli del discorso performativo e non solo, aprendo quesiti sulla collocazione dello sguardo, sul suo rapporto con l’immagine e sull’azione attoriale che travalicano i limiti della singola creazione. In Volta, come ne La timidezza delle ossa o La più piccola distanza, l’innesco concettuale – pur estremamente affascinante e coinvolgente sia a livello ideativo che nella sua concretizzazione in scena – rimaneva legato ad un dispositivo dichiaratamente spiazzante, destinato a mettere in crisi il ruolo dello spettatore, a interrogarlo e a condurre ognuno a ridefinirlo; la focalizzazione della percezione, pur interrogata e stimolata, restava in qualche modo legata al dispositivo con cui era prodotta, alla “magia” dell’accadimento e, forse, anche alla curiosità che suscitava. Ne La prima periferia invece, complice la presenza fisica dell’attore, sono messe in discussione l’azione e la visione stessa: cosa accade? L’azione (i movimenti dei manichini) o le forze che la determinano (quelli dei performer)? Il quesito posto da questa performance – capace di rivalutare o, quantomeno, di indicare altre possibilità di sviluppo per lo spettacolo live – è a dir poco calzante, soprattutto in questi anni di addomesticamento ai meccanismi televisivi, di fruizione scontata, di co-autorialità invocata ma mai realizzata, anzi sempre più circoscritta anche (e soprattutto) attraverso le ultime frontiere comunicative del web, dagli innumerevoli blog ai social network a youtube e wikipedia. In questo panorama che lavora (consapevolmente o meno) all’omogeneizzazione dell’individuo, La prima periferia è una performance che si inoltra nelle esperienze (attuali e passate) di ogni spettatore, andando ad invocare la singolarità dello sguardo: al di là di qualsiasi approfondimento concettuale, la dimensione emotiva, l’inclusione irriducibile, l’affondo personale sono senza dubbio al centro di questo spettacolo, che riesce a concentrare una così ampia varietà di dimensioni in azioni semplici dall’espressività artigianale. Quando il profilo del pavimento, a fior di palcoscenico, comincia a brulicare di un formicolio di minuscoli oggetti in movimento e, insieme, giganteschi, performer e manichini li osservano e tentano di afferrarli, si compie un’attenzione irriducibile, in una coincidenza fra agente e agito di un certo impatto e coinvolgimento emotivo, di grande resa scenica e di rara lucidità creativa.

Visto a B.Motion, Bassano del Grappa

Roberta Ferraresi