recensione punzo fortezza

In carcere la poesia di Shakespeare

Recensione a Mercuzio non vuole morireCompagnia della Fortezza

foto di Stefano Vaja

I battiti energici dei tamburi dalla fortezza di Volterra richiamano l’attenzione di passanti e curiosi e di chi ha fatto un lungo viaggio attraversando i suggestivi colli toscani che, sovrastati da pompose nuvole bianche, sembrano usciti dal pennello di Van Gogh. In moltissimi, turisti e stranieri, si fermano sotto la struttura medicea arroccata che si presenta come un castello da visitare; vorrebbero entrare, invitati da questo rimbombo: ma l’accesso è vietato a chi non ha fatto precedentemente la richiesta di permesso. La fortezza non è un semplice monumento: è la Casa di Reclusione di Volterra e quest’anno al suo interno non si tiene solamente lo spettacolo teatrale della storica Compagnia della Fortezza, ma tutto il Festival di Volterrateatro arrivato quest’anno alla sua XXV edizione.

La direzione artistica di Armando Punzo ha deciso infatti di trasferire l’intera rassegna in carcere con tutti i fattori negativi o positivi che ne derivano, vedi la limitazione di ingresso ai soli che già conoscono il Festival (dati i documenti che bisogna compilare un mese prima); o la possibilità offerta ai carcerati – che fanno parte della Compagnia – di girare tra gli spettatori e di poter vedere del teatro fatto da altri in “casa propria”, occasione rara e molto apprezzabile. E se ci si ferma a scambiare due parole con alcuni di loro, questo apprezzamento si può leggere nei loro occhi mentre pronunciano delle parole di stima e ringraziamento per lo stesso Punzo, descritto come una persona di grande umanità, sempre disponibile all’ascolto.

foto di Stefano Vaja

È sicuramente una scelta che non lascia indifferenti, e anzi divide, quella del direttore artistico, il cui progetto è proprio quello di portare la città dentro il carcere. E con Mercuzio non vuole morire – la cui drammaturgia e regia sono di Armando Punzo – il paesino toscano viene inglobato simbolicamente nella fortezza attraverso le foto dei suoi palazzi e sagome di cartone di bambini che compongono le scenografie dello spettacolo. Bambini che non sono effettivamente potuti accedere al carcere ma che danno il loro apporto allo spettacolo prima che il pubblico venga fatto entrare, fuori dal portone di ingresso della fortezza dove una piccola scena, piena di dolcezza, prende corpo: vestiti di bianco eseguono una musica e dei passi di danza leggeri e delicati, mentre un personaggio enigmatico, con una scacchiera dipinta in volto e sulla giacca, porta con sé un orecchio gigante, invitando all’ascolto attento di ciò che avverrà all’interno della casa circondariale.

Usciti dal mondo di Alice nel Paese delle Meraviglie con Hamlice (leggi la recensione), lo spettacolo della Compagnia della Fortezza che aveva riscosso l’anno scorso un enorme successo, si entra nel mondo di Shakespeare e in quello di Romeo e Giulietta; ma i due innamorati di Verona non sono che un pretesto per poter invece mettere in risalto la figura di un poeta, Mercuzio, morto sospirando parole cariche di significato: «io parlo di sogni che sono figli di una mente vagabonda pieni soltanto di vana fantasia, che ha meno sostanza dell’aria ed è più incostante del vento». Mercuzio, interpretato da un duellante Punzo che accoglie gli spettatori nel cortile interno del carcere, rappresenta l’ultimo poeta, colui che non vuole arrendersi alla realtà sempre più grigia, più pessimista, dove i sogni, e con loro la speranza, vengono rilegati all’angolo per piano piano scomparire. Il poeta, l’artista è un temerario – come suggeriscono le parole scritte su degli striscioni posati in terra e costretti ad essere scavalcati dal pubblico; colui che continua a pensare che la poesia sia necessaria in questo mondo di pescecani, come Mercuzio, non può che soccombere: vengono in mente coloro che fanno teatro e si occupano di cultura sempre più emarginati e in difficoltà, sempre in lotta per sopravvivere.

foto di Stefano Vaja

Si lascia il cortile per entrare dentro le stanze-nicchie tappezzate di fotografie che rimandano a una Volterra-inferno: la sensazione è quella di essere all’interno dei quadri impossibili di Escher, in una costruzione opprimente da cui non si può uscire. Lungo il corridoio stretto che dà su queste stanzette si è compressi dal numerosissimo pubblico presente che vaga alla ricerca di un personaggio da ascoltare: i carcerati, con indosso i meravigliosi costumi che ricordano delle architetture e degli scacchi – realizzati da Emanuela dall’Aglio – si spostano continuamente pronunciando versi e parole presi da Romeo e Giulietta, ma non solo. Alle parole e ai personaggi dell’autore shakespeariano si mescolano alcune citazioni della Divina Commedia, la figura di Perseo, i versi di Cavalcanti o di Paul Valery o il canto-lamento della Didone di Purcell che chiede di essere ricordata. Si soffre per la troppa calca di pubblico all’interno di queste nicchie di diavoli e personaggi della tragedia; ma se da una parte il troppo “traffico umano” rende difficile, ansiogeno e claustrofobico il percorso, l’idea di un inferno dantesco diventa ancora più efficace. Mercuzio continua a duellare e riporta il pubblico fuori sul cortile interno del carcere: nonostante abbia un pugnale infilzato nella schiena e delle scarpe da pagliaccio che rendono il suo cammino più difficile, il poeta si batte ancora a spada tratta, corre in un mondo fatto di palloncini colorati legati alle mani di bambini di cartone portati in scena dai carcerati. Sulla sua bocca i versi di Majakovskij (che ritroviamo puntuali, come fossero una necessità quotidiana, dopo averli ascoltati a distanza di un solo mese anche al Festival di Santarcangelo, urlati dai bambini in Eresia della Felicità di Martinelli). All’interno del carcere questi palloncini si contrappongono al bianco e nero delle scenografie della città e al grigiore della realtà; sono l’unica possibilità di sogno rimasto a chi sembra destinato a perire, proprio come il personaggio di Mercuzio.
Mercuzio non vuole morire
, che ricorda per delle scelte registiche forse un po’ troppo Hamlice, è solo la prima tappa di un progetto che proseguirà l’anno prossimo nel tentativo di coinvolgere tutta la città e che si spera non rimanga incompleto e con a disposizione troppi pochi soldi per la sua realizzazione (3500 euro come dichiara lo stesso Punzo al pubblico a fine spettacolo). Per continuare a sperare i sogni devono essere sostenuti concretamente: solo così la poesia potrà sopravvivere e Mercuzio non dovrà morire.

Visto al Festival Volterrateatro 2011, Volterra

Carlotta Tringali

 

La pazzia che controlla i potenti

Recensione a HAMLICE.  Saggio sulla fine di una civiltàCompagnia della Fortezza

Hamlice

L’ingresso al carcere di Volterra non lascia scelta, nel Paese delle meraviglie è rimasta un’ultima possibilità: attraversare la porta che reca il sigillo di Amleto (nome scritto e cerchiato sulle ante d’ingresso). Il principe di Danimarca sembra aver scelto questo luogo deputato per ricordare che il “marcio” e la corruzione continuano a logorare il potere. Hamlice è l’incontro dell’opera di Lewis Carroll con quella di William Shakespeare in uno spazio concreto, la Casa di Reclusione che, nell’ambito di VolterraTeatro 2010, ha ospitato il nuovo lavoro del regista e attore Armando Punzo con la Compagnia della Fortezza, uno sviluppo dello studio dello scorso anno, Alice nel paese delle meraviglie – Saggio sulla fine di una civiltà, del quale è stato mantenuto il sottotitolo.

 

La voce narrante di Punzo accoglie il pubblico in un prologo costruito sulla frammentarietà del testo shakespeariano. Il disorientamento creato dal montaggio drammaturgico, che procede per tagli e salti non riconducibili alla memoria collettiva della tragedia, trova nella “follia” di Amleto l’elemento centrale e radiante dei dialoghi (per lo più monologhi) degli eventi che saranno sviluppati, quasi per accumulazione, dagli attori. Lo spazio scenico è un luogo claustrofobico in cui pezzi dell’opera, parole scritte nero su bianco, soffocano ogni cosa: pareti, pavimenti, oggetti catturati dal mondo di Alice, casacche da detenuto che divengono costumi di scena – ogni cosa si presenta completamente ricoperta dalle battute dei soggetti dell’Amleto. La vicinanza e il contatto con i personaggi di Hamlice creano situazioni in cui lo spettatore rimane solo con l’attore, lo ascolta, lo segue nei suoi spostamenti e, immobilizzato di fronte alla sua presenza, accetta l’isolamento che si sta verificando. Ad aggiungersi all’estremizzazione del fatto teatrale concorrono i costumi e il trucco degli attori: tacchi altissimi, tessuti lucidi o ricoperti di piume e paillettes, visi bianchi e labbra rosse, parrucche e grandi cappelli, sono le caratteristiche che spiccano sia nelle parti shakespeariane sia in quelle di regine e cappellai matti dell’opera di Carroll, un mondo alla rovescia catapultato nell’Amleto. La definizione di un corpo altro, la materializzazione di un individuo tramite l’eccesso raggiunge diversi livelli e, accanto alla manifestazione di un disagio sociale o di una semplice diversità, il sorriso degli attori riconduce a un possibile mondo di gioia e ironia.

Hamlice

Il Saggio sulla fine di una civiltà coinvolge tutti e a nessuno è concesso di restare in disparte, sembra dire una vivace Alice che, correndo avanti e indietro per il corridoio, invita quegli spettatori incerti ad entrare nelle celle. In un continuo spostamento da uno spazio all’altro, flussi di persone seguono gli attori. I personaggi di questo bizzarro ensemble appaiono e scompaiono continuamente, fino a concentrarsi solo all’ultimo nel corridoio delle carceri. Il livello acustico creato dall’incontro delle voci dei diversi attori si amplifica fino a sviluppare una musica di parole in cui le onde, come in frequenze radio disturbate, dall’iniziale incomprensibilità, attraversano lo spettatore e gli consegnano la possibilità e la responsabilità di scindere un unico discorso dal fiume indistinto di parole.

 

Il processo di decostruzione testuale che ha caratterizzato l’approccio all’opera shakespeariana nel corso del Novecento è nucleo della scrittura di Armando Punzo. Ciò che rimane della tragedia nel lavoro della Compagnia della Fortezza è una composizione di frammenti che, per opera dei detenuti-attori, ha assunto tinte vivaci e disorientanti. Non è stato difficile lasciarsi alle spalle pietismi indotti dalla situazione (si è così tanto parlato della fisicità degli attori, con i loro muscoli e tatuaggi, che il pensiero rifugge facilmente da tali associazioni), ma l’ingranaggio della macchina teatrale ha dovuto fare i conti con la realtà di un paese in cui giorno dopo giorno affiorano tutte le problematiche della detenzione (dalla capienza delle carceri alla percentuale dei suicidi in costante e sconcertante aumento). La “rivolta delle parole” con cui si è concluso il lavoro, ha reso lo spettatore partecipe di un evento che fino a questo momento aveva seguito voyeuristicamente. È lo stesso regista, in conclusione, a dirlo: «la rivolta delle parole … le parole che volano … che perdono il senso previsto … la rivolta delle parole tocca tutti».

Elena Conti

Visto a VolterraTeatro