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“Opere di omissione”… di responsabilità

Recensione a Opere di omissione – di Quotidiana.com

“Indolente: agg. ‘incurante, trascurato nell’agire, che non dà dolore’ – Der.: indolènza, s.f., ‘l’essere indolente. (…) I significati oggi più comuni e frequenti passano attraverso il concetto intermedio di ‘(assenza di dolore), – ‘mancanza’ di turbamento, apatia, insensibilità’ – ‘(noncuranza, fiacchezza)’”.

La locandina dello spettacolo

La locandina dello spettacolo

Il palco è spoglio e, leggermente decentrati rispetto al fulcro prospettico che fu del Principe, ci sono un tavolo, con un’accecante abat-jour da film noir e due sedie. Uno scoppio fa tremare il pubblico.
Entrano Roberto Scappin e Paola Vannoni, si siedono, iniziano a dialogare, lui ha un’amplificazione greve e profonda, lei calma e, a tratti, stridula da inquietante bambina. Il testo di Opere di omissione ha la forma dello scambio interpersonale frustrato per varie ragioni: per la maggior parte del tempo le due voci si sovrappongono, le domande e le risposte sono scambievoli, le seconde quasi sempre inconcludenti, paradossali, violentemente rispondenti a quelle che il nostro governo ci fornisce su determinati argomenti scottanti, per non dire vergognosi. La mafia, le responsabilità dell’arma e, soprattutto, il reato di connivenza dello Stato in alcune delle più gravi stragi che ne hanno infangato la storia.
Tutto questo, inframezzato da alcuni interrogativi più banali, di più “ordinaria amministrazione”, tutti incardinati sul tema delle varie declinazioni della menzogna nella contemporaneità – dal volto scultoreo di Sabrina Ferilli, ai manifesti accattivanti delle orchestrine di paese.

Il quid? La sovrapposizione di notizie/nozioni che si contraddicono vicendevolmente, il mancato accesso a determinate informazioni – che Andreotti la sa lunga –, la confusione del cittadino italiano figlio o coetaneo di questi eventi e, in definitiva, l’impossibilità di una versione universalmente veritiera dei fatti.
La conseguenza? L’indolenza del cittadino vittima dell’abuso di potere dello Stato, come indolenti sono la postura e la retorica dei due attori sul palco che di quel cittadino si fanno portavoce.

Dopo un primo giro di domande-risposte senza esiti definitivi, lo spettatore più avvertito inizia a riconoscere una serie di spie che lo aiutano a percorrere il sentiero tracciato dai Quotidiana.com: versi ricorrenti che gli attori fanno per annunciare un determinato argomento, spostamenti nello spazio circoscritto del tavolo con sedie in cui si muovono i due protagonisti, lo spegnimento/accensione dell’abat-jour puntata sul pubblico. Si tratta di piccoli elementi di orientamento che permettono a chi compie l’esperienza della visione di sopravvivere nella selva di informazioni e contro-informazioni enumerate sulla scena, di creare un proprio percorso, riconoscendo eventi, apprendendone di nuovi, valutando il punto di vista esposto dalla compagnia.

L’indolenza, si diceva.
Il termine ha certamente un’accezione negativa e viene associato a quelle persone che non prendono posizione, che, temendo di dire o fare la cosa sbagliata, non dicono e non fanno nulla. È ironico: questo spettacolo va in scena proprio in un momento di grande indolenza governativa e, forse inconsapevolmente, forse con cognizione di causa, ne radiografa l’impenitenza.
Si potrebbero fare dei tagli, sfoltire qui e lì il flusso di dati forniti, si potrebbe ottimizzare l’unisono delle voci che, inevitabilmente, tenuto per un’ora e venti, anche se raramente, rischia di sfalsarsi.
Ma non sono questi gli aspetti che contano maggiormente. Ciò che risalta è lo sforzo testimoniale, la consapevole ricerca contenutistica e linguistica della compagnia che si sostanziano in uno spettacolo formalmente semplice ma multistrato e ricco di spunti.

Alla fine, una delle più famose battute del teatro eduardiano punta il dito sugli spettatori che diventano il presepe di Casa Cupiello, nonché gli ultimi, veri, indolenti responsabili che, non meno dello Stato o della mafia, operano omissioni – di colpa, di informazione, di responsabilità.

Visto al Teatro Pubblico di Casalecchio di Reno (Bo)

Nicoletta Lupia

Tanti artisti per il Festival Collinarea

Bobo Rondelli - foto di Vincenzo Oliviero

Dieci giorni, dal 21 al 30 luglio, votati al teatro, alla musica e alla poesia in un clima di accoglienza e famigliarità: tanti sono gli artisti al Castello dei Vicari di Lari, struttura che in passato ha ospitato le stanze di tortura e che oggi lascia posto alla cultura e a piacevoli serate di convivialità. Il Festival Collinarea – diviso tra la campagna toscana del comune di Ponsacco e l’arroccato castello sulla collina di Lari – giunge quest’anno alla sua tredicesima edizione presentandosi con una novità: alla direzione artistica di Loris Seghizzi, si aggiunge la consulenza del poeta Marco Menini e di un veterano del teatro, Massimo Paganelli. Dopo aver passato il testimone della direzione artistica di Armunia e del Festival Inequilibrio di Castiglioncello ad Andrea Nanni, Paganelli ha scommesso su un altro territorio, sempre toscano ma della provincia di Pisa, contribuendo a far arrivare a Collinarea grandi nomi del teatro e dell’interpretazione. Un calendario fitto di eventi che si è aperto con le note del cantautore Bobo Rondelli e le parole di sette giovani poeti che lo hanno accompagnato in uno scambio di pensieri, canzoni e versi: Francesca Genti, Azzurra d’Agostino, Francesca Matteoni, Simone Molinaroli, Christian Sinicco, Simone Nebbia e Martino Baldi si sono alternati sul palco leggendo e condividendo i loro scritti, pulsioni o sensazioni. Il monologo di Fulvio Cauteruccio Terroni di Italia e la suggestiva lettura di Claudio Morganti di alcuni passi dell’Inferno di Dante hanno concluso la prima serata di un Festival che ha da subito espresso il suo carattere testardo e poetico, dove ciò che interessa è una parola che non trova spazio per essere detta se non in questi posti votati alla accoglienza, alla disponibilità e all’incontro con l’uomo, che sia esso ironico e irriverente – come hanno dimostrato i poeti in scena con Rondelli – o attento ai bisogni più intimi dell’essere. Non è un caso che il sottotitolo del Festival sia genius locile Riesistenze: ri-esistere diventa qui un punto di riscatto, di forza, fondamentale in un periodo storico in cui si è spesso di fronte all’annullamento e alla fagocitazione del proprio essere.

Massimiliano Civica

Se la Lectura Dantis di Morganti ha accompagnato il pubblico in una profondità di rauche parole,  silenzi e sperimentalismi vocali che hanno fatto risaltare le parole del poeta fiorentino e tenere sempre alta l’attenzione senza alcun momento di stasi, la lezione di Massimiliano Civica ha diviso l’opinione del pubblico, come sempre succede ai suoi spettacoli. Con Il bandolo della matassa il regista reatino ha voluto restituire alla lettura di versi una dignità poetica che molto spesso si perde a causa del piatto insegnamento scolastico o accademico. Chiedendo la collaborazione degli spettatori seduti in sala, Civica ha spiegato attraverso le ariette di Metastasio e una poesia di Pascoli il verso senario, il settenario e quello sciolto novecentesco: posizionando gli accenti, non leggendo la punteggiatura, ma rispettando le volontà metriche degli autori, il significato e la musicalità delle poesie giungono inscindibili e in tutta la loro forza. Non serve un’interpretazione a fare grande un verso scritto da un protagonista della poesia, ma la correttezza della lettura per sprigionare la poeticità che il verso contiene in sé. Grazie a questa lezione ci si è affacciati per pochi minuti verso l’ottica di un regista che con i suoi attori lavora a una recitazione minimale e scarnificata, ma che proprio per il suo rispetto clinico verso i testi riesce a ipnotizzare lo spettatore e a farlo ripensare ossessivamente alle parole appena ascoltate.

quotidiana.com - foto di Vincenzo Oliviero

Nella stessa serata al Castello di Lari il duo quotidiana.com ha debuttato con il nuovo spettacolo, Grattati e vinci, ultimo capitolo della Trilogia dell’inesistente – esercizi di condizione umana. Come nei primi due spettacoli (Tragedia tutta esteriore e Sembra ma non soffro), anche qui Roberto Scappin e Paola Vannoni sono seduti e circondati da luce al neon, questa volta gialla: i loro movimenti sono ridotti al minimo e risultano precisamente coordinati l’un con l’altra. In un clima asettico e con un tono di voce privo di inflessioni e volutamente apatico, i due danno il via a un flusso di pensieri che sprofonda in temi grevi come il suicidio, il declino delle cose, l’amore come segno della nostra miseria e una Verità che può coincidere solo con la morte. A queste sentenze, in cui non c’è nessuna volontà di moralismo o di empatia, si alternano frasi di non-sense che sembrerebbero far appartenere il duo a un teatro dell’assurdo: ma siamo in un territorio che supera Beckett facendoci ritrovare faccia a faccia con la società di oggi, dentro un blob cinico dove le canzoni della Carrà possono mescolarsi a riflessioni sulla vita. Il blob di quotidiana.com si sofferma quell’attimo in più sulle questioni, attimo che basta per far apparire, come loro stessi affermano, «le sciocchezze come spiragli dell’intelletto».

Visto al Festival Collinarea, Lari (PI)

Carlotta Tringali