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Dalla notte alla nebbia: il male di Zaches Teatro

Recensione a Mal bianco – di Zaches Teatro

Dopo Il fascino dell’idiozia, continua la ricerca di Zaches Teatro – formazione fiorentina attiva dal 2006 e attenta ai diversi linguaggi artistici –  tesa ad indagare «la percezione del vedere come alterazione percettiva della mente». A Padova, nell’ambito del festival Prospettiva Danza Teatro 2011, la compagnia presenta il Dittico della Visione, parte del più ampio progetto Trilogia della Visione, composto da Il fascino dell’idiozia (di cui Il Tamburo ha già avuto modo di occuparsi) e da Mal bianco, vincitore del premio Prospettiva Danza Teatro 2010.

Dalle pitture nere di Goya a cui si era ispirata nel precedente lavoro, la regista, coreografa e drammaturga del suono Luana Gramegna sceglie per Mal bianco una scala cromatica tinta di bianco, e indeterminatezza: lontana dal luogo comune per cui ciò che è chiaro è più facilmente riconoscibile, il chiarore della scena genera sentimenti contrastanti e immagini ancora più agghiaccianti. Infatti, se sul foglio di sala la compagnia indica il maestro giapponese Hokusai come riferimento iconografico, è impossibile non lasciar riaffiorare nella propria mente l’immaginario del cinema horror giapponese — o più in generale dell’estremo Oriente (da The ring di Hideo Nakata, più conosciuto per il remake di Gore Verbinski, a Kairo di Kiyoshi Kurosawa, ma anche le scene più mistiche di Dragon – La storia di Bruce Lee diretto da Rob Cohen). In questa dimensione che richiama anche le più celebri figure del surrealista Max Ernst, i tre performer — Enrica Zampetti, Gianluca Gabriele e la stessa Luana Gramegna — costruiscono dei quadri che si alternano in un montaggio destabilizzante, in cui l’occhio viene costantemente chiamato a giocare con le raffigurazioni che si succedono sul palcoscenico. L’abilità della regista emerge nella costruzione di un’altalena percettiva che, in una coreografia che oscilla tra movimenti fluidi e un dilagante dinamismo schizofrenico, obbliga lo spettatore a ricostruire i diversi fotogrammi delle sequenze (non)narrative, tra le sfumature e le ombre di corpi senza volto e senza sesso. Per tutto il tempo dello spettacolo la retina viene eccitata continuamente, in un perfido esercizio che raggiunge il suo obiettivo attraverso una magistrale gestione di pause e accelerazioni visive: quando l’occhio comincia finalmente a definire nitidamente i contorni dei demoni che percorrono la scena, l’immagine si annulla e scompare nella nebbia, per generare nuovi incubi che il nostro cervello dovrà affrontare e superare.

Immerso in un bianco fuligginoso, il pubblico è chiamato quindi a resettare i propri moduli percettivi sin dall’inizio della rappresentazione: lo schermo bianco intermittente, accecante, e gli stridenti suoni elettronici creati da Stefano Ciardi avviano quella che potrebbe essere definita come un’esperienza mistica, “flashando” (come direbbero gli informatici) le sinapsi e obbligando il cervello a ripercorrere i primi passi del vedere e del guardare. In questo mondo di figure umane e non-umane, rimangono impresse proprio le ombre di creature — ormai appartenenti al nostro patrimonio visivo, chesi muovono in un inconscio sommerso e represso che reclama il suo diritto ad essere svelato. Complici nella (ri)creazione di questo universo, la scelta dei costumi di Valeria Donata Bettella e Elisa Abbrugiati e le maschere e le luci di Francesco Givone. Un mondo di cui a volte si perde il centro generatore, l’origine, in una frammentazione che forse, se ben corrisponde a certi meccanismi di funzionamento della psiche, spesso lascia sospeso quello che potrebbe essere il significato più pregnante dell’immagine.

Zaches Teatro lascia il suo pubblico in attesa della terza parte della trilogia con un interrogativo: «Ma cosa vorrebbe dire “bianco”?». Viene anche da domandarsi quale tavolozza sceglierà la compagnia per sottoporre l’occhio ad una nuova destabilizzante visione: il teatro si tingerà di sfumature di grigio o ritornerà al colore?

Visto al Teatro delle Maddalene, Prospettiva Danza Teatro 2011, Padova

Giulia Tirelli

Fascino dal “nero”

foto di Paolo Lafratta

Recensione a  Il fascino dell’idioziaCompagnia Zaches Teatro

Le “pitture nere” di Francisco Goya sono alcune delle rappresentazioni più libere dell’artista spagnolo: sono scene di stregonerie, esorcismi e inquisizioni, avvolte in un’oscurità da incubo. Le pitture del ciclo – esterne ad ogni commissione – ricoprono le pareti della sua casa di periferia.

Una densa oscurità e una potente forza suggestiva ed immaginifica scaturiscono da questi dipinti che la giovane Compagnia Zaches Teatro sceglie come punto di partenza da indagare per la creazione de Il fascino dell’idiozia. Spettacolo nato con la volontà di dar forma ad un lavoro sulla “percezione costretta dalla menomazione dei sensi” in cui l’idiozia è intesa come “visione del mondo come universo personale, anzi privato e inafferrabile, e quindi incompreso”. Questo interessante lavoro testimonia una ricerca di un linguaggio affascinante e pulito: dal buio emergono arti, schiene, parti del corpo nude assemblate disordinatamente, tra le quali appaiono anche dei volti che staccandosi dal buio diventano teste sospese, in un meccanismo presto monotono, seppur affascinante. Pochi, infatti, sono i quadri davvero sorprendenti e inaspettati di sconosciute combinazioni anatomiche in trasformazione.

foto di Paolo Lafratta

Sfruttando la luce a pioggia tagliente tipica della tecnica su nero (che lascia emergere solo ciò che si vuol mostrare, lasciando le altre parti del performer nell’oscurità), la coreografia di Luana Gramegna scandisce con rigore le suggestive apparizioni, in una danza onirica amalgamata da un suono rituale e coinvolgente realizzato con musica elettronica dal vivo da Stefano Ciardi. Il flusso di apparizioni complessivamente si allontana dalle suggestioni del pittore spagnolo, puro punto di partenza, che non riemerge mai in modo riconoscibile e neanche vagamente allusivo.

Nonostante la specificità della suggestione di partenza, Il fascino dell’idiozia risulta complessivamente un lavoro disomogeneo: all’affascinante flusso di apparizioni iniziale seguono brevi differenti scene a sé stanti, danze ed infine la visione di una donna animale realizzata con silouette in controluce e proiezioni. Ma le diverse fasi di linguaggio, seppur potenzialmente efficaci ed indipendenti, mancano di consistenti elementi di continuità e fanno emergere una generale debolezza drammaturgica: la dimensione narrativa non prende vita, quando avrebbe potuto respirare ampiamente una folle atmosfera visionaria o disordinatamente onirica come proprio solo in un incubo sarebbe concesso vivere, all’interno della sua libera natura inconscia e perturbante.

Visto al Teatro PIM Spazio Scenico, Milano.

Agnese Bellato