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Contrappunti a Padova – autunno 2012

«Contrappunti, nella sua sezione autunnale, non si realizza quest’anno al Teatro delle Maddalene. E’ la prima volta dal 1995. Cause di forza maggiore hanno infatti imposto a Tam di scegliere tra due prospettive: non fare o fare altrove. Consci di ciò che significhi, per artisti e spettatori, rinunciare (si spera, temporaneamente) a quel formidabile punto di riferimento che è il Teatro delle Maddalene, abbiamo progettato Contrappunti senza fissa dimora, chiedendo ospitalità in luoghi diversi della città.

Ci auguriamo che questa decisione crei sorprese positive e ci conduca a condividere esperienze inedite capaci di rendere Contrappunti non solo il momento d’incontro di una comunità con l’arte performativa, ma anche l’occasione per riflettere.
Riflettere su cosa significhi la chiusura di uno spazio nel quale incontrarsi, nel quale riconoscersi. Riflettere sulla mancanza. E sulla bellezza di abitare un luogo da cui prendono vita pensieri e azioni.
Il nomadismo è un atteggiamento nobile. Quando è una scelta.
Ma in questo presente, già così avaro di punti di riferimento, senza una dimora che ci dia radici non corriamo il rischio di perdere del tutto l’orientamento?
E se invece fosse che, guardando altrove, si riesca a intravedere un diverso orizzonte? Ignoto fino a quel momento, sì, ma non inerte. Si paleserebbero forse nuove direzioni? Nuovi impulsi?
Domande aperte. In movimento. Seguiteci e, buon viaggio a tutti!»

Tam

La rassegna è ideata da TAM Teatromusica e promossa insieme all’Assessorato alla Cultura del Comune di Padova, Arteven-Regione del Veneto, con il sostegno del Ministero per i Beni e le attività culturali e in collaborazione con il Consiglio di quartiere 4 e 5 del Comune di Padova e la Fondazione Hollman.

PROGRAMMA AUTUNNO 2012

dal 22 al 25 novembre, Fornace Carotta
Progetto Cecità – condiVisioni
in collaborazione con Fondazione Hollman e C. di Q. 5 Sud Ovest Comune di Padova
un ringraziamento a Punto Giovani Toselli – Ufficio Progetto Giovani

Il progetto artistico si articola in:
LABORATORIO “Cecità” a cura di Corrado Calda
ESPOSIZIONE FOTOGRAFICA Un incontro di sguardi: tra visione ed ipovisione attraverso la fotografia a cura di Silvia Tiso (scarica la presentazione)

La mostra Un incontro di sguardi: tra visione ed ipovisione attraverso la fotografia è il risultato di un progetto fotografico sperimentale che vede protagonista una ragazza gravemente ipovedente: vinta l’apparente inconciliabilità tra il mezzo espressivo e la necessità di uno “sguardo”, l’obiettivo raggiunto è creare un ponte tra due diversi modi di percepire e sentire la realtà attraverso la comunicazione visiva. E dedicato al tema della cecità, non solo fisica ma anche emotiva e relazionale, così spesso presente nella società di oggi, è anche il seminario teatrale “Cecità”, ispirato all’omonimo romanzo dello scrittore portoghese José Saramago. Il laboratorio ricostruirà una “microsocietà cieca” per indurre i partecipanti, muniti di benda agli occhi, a una profonda esperienza sensoriale in cui “ascolteranno” il buio e saranno chiamati a interagire tra loro.

lunedì 10 e martedì 11 dicembre ore 21:00 Fronte del Porto, Padova
Tam Teatromusica / Teatro Carcere TUTTO QUELLO CHE RIMANE
ideazione e direzione Michele Sambin
con Pierangela Allegro, Loris Contarini, Claudia Fabris, Alessandro Martinello, Michele Sambin
testi tratti da Tutto quello che rimane, Pierangela Allegro, ed. Eldonejo, 1995
in video i detenuti-attori del progetto Tam Teatrocarcere 1992/2012

a Claudio Meldolesi

Tutto quello che rimane è un’opera performativa dove la memoria agisce come drammaturgo e la composizione si rivela come unica forma possibile per raccontare.
La prima mossa è stata riattraversare gli spettacoli creati con i detenuti-attori. Trarne gesti e parole, immagini video e suoni per poi ricomporre i materiali scelti senza seguire una cronologia, ma lavorando su assonanze, accostamenti, sovrapposizioni, motivi ricorrenti.
Affidandoci a questa attenta ricomposizione, abbiamo sperimentato la possibilità di mettere in scena un intenso percorso di arte e vita durato 20 anni, nel tentativo, ci auguriamo riuscito, di storicizzarlo restituendolo in forma d’arte poetica.
In scena cinque performer-testimoni dialogano con le immagini video. Fanno risuonare parole. Compiono azioni lievi. Ascoltano e osservano così come sono chiamati a fare gli spettatori in sala.
Creare Tutto quello che rimane è stata una gioia.

Nelle parole che seguono, di P.P.Pasolini, c’è qualcosa che ha a che fare con l’idea che ci ha guidato in questo lavoro.
Facciamo nostre le sue parole con l’avvertenza di due sostituzioni: libro con spettacolo e lettore con spettatore.
La ricostruzione di questo spettacolo è affidata allo spettatore. È lui che deve ricongiungere passi lontani che però si integrano. È lui che deve organizzare i momenti contraddittori ricercandone la sostanziale unitarietà. È lui che deve eliminare le eventuali incoerenze (ossia ricerche o ipotesi abbandonate). È lui che deve sostituire ripetizioni con le eventuali varianti (o altrimenti eccepire le ripetizioni come appassionate anàfore).
P.P.Pasolini, nota introduttiva a Scritti Corsari, ed Garzanti, 1995

In un mare di parole e mostri con TeatrInGestAzione

Recensione a Canto trasfigurato di Moby Dick e d’altri mostri che ho amato – di TeatrInGestAzione

Si scivola dolcemente dentro una profondità d’entità sconosciuta quando lo spettacolo ha inizio: la luce della sala illumina per qualche minuto la scena di Canto trasfigurato di Moby Dick e d’altri mostri che ho amato, mentre il pubblico prende posto. Lentamente le luci calano e il respiro si sincronizza su sonorità che sembrano provenire da una dimensione non visibile, mentre Giovanni Trono – anche regista dello spettacolo con Anna Gesualdi – cammina in circolo, mormorando suoni di cui si ode solo un sussurro lieve. Lo sguardo segue il ritmo costante di quei passi, lasciandosi trascinare in un universo dalla pallida luce verde. In quel palco nudo, si consuma un’ipnosi che condurrà al buio, in un mantra di luci e suoni.

Con Canto trasfigurato, TeatrInGestAzione – formazione nata nel 2003 e che si è distinta per il suo lavoro all’interno dell’ospedale psichiatrico di Aversa e per aver ideato la formula dell’Altofest a Napoli – ripercorre le vicende dell’equipaggio del capitano Achab del celebre Moby Dick di Melville, in un viaggio teso alla scoperta delle profondità delle emozioni umane. Un Ulisse moderno abita la scena, raccontando delle peripezie del gruppo che per anni ha dato la caccia alla balena che è diventata sinonimo allo stesso tempo di ossessione, amore e odio. E sono queste emozioni che vengono narrate e restituite da un magistrale Giovanni Trono, che da solo occupa la scena per tutta la durata dello spettacolo. L’itinerare dei personaggi che vengono fatti riaffiorare come da un inconscio profondo si traduce in un pellegrinaggio di sole parole e musiche. Il corpo dell’interprete assume i tratti di un medium o di uno sciamano che si serve di lunghe pause e silenzi per scuotere e far riecheggiare i propri ricordi, facendoli rimbalzare nella punteggiatura del testo. Unica protagonista la parola, accompagnata da un dolce ondeggiare, un gesto semplice che avvolge come i movimenti del mare stesso che – seppur assente – condivide il palco con il performer, insinuando una sensazione di equilibrio instabile nel pubblico. A tratti, sembra di assistere al delirio di un folle in grado di visualizzare nella propria mente un mondo preciso e puntuale (forse non a caso, considerato che lo spettacolo è dedicato a Seiano, detenuto del Manicomio Criminale di Aversa, massacrato a morte da compagni). Ed è questa componente di visionaria invisibilità a costituire il fulcro più interessante, che tuttavia si ritorce sul risultato scenico: nonostante l’abilità recitativa di Trono, il testo prevale con prepotenza sulle altre componenti della scena, lasciando dei vuoti che nemmeno la colonna sonora è in grado di colmare e trasformando lo spettacolo in un radiodramma da guardare. Gli itinerari drammaturgici curati da Loretta Mesiti ben restituiscono il senso della ricerca del gruppo, eppure i demoni portati alla luce dal testo e le contrastanti emozioni di cui è capace l’uomo si stemperano in una durata forse eccessiva, che potrebbe ubriacare lo spettatore facendolo perdere in un mare di parole.

La puntualità d’analisi dell’essere umano e la sua abilità di assumere forme mostruose vengono tuttavia richiamate con dirompente forza nel finale dello spettacolo, quando il corpo in scena si prodiga in un assolo di puro gesto: un momento di inquietante emotività in grado di risvegliare lo spettatore dal torbido abbraccio delle parole, facendolo precipitare nuovamente in un oceano di suono che avvolge i contorni di una figura di cui è difficile riconoscere l’umanità. È nelle pieghe di questa carne che è infatti possibile rileggere l’intera vicenda narrata precedentemente: l’espressività del corpo di Trono cattura il pubblico con un ultimo affondo in quella profondità in cui si era scivolati al principio, trascinandolo in un’oscurità che per tutto lo spettacolo non ha mai abbandonato la scena.

Visto al Teatro delle Maddalene, Padova

Giulia Tirelli

Appunti su arte, amore e carote

Considerazioni su Oh carrot! (Secondo studio) – di Aleph Company

foto di Andrea Cravotta

È già acceso il piccolo televisore che, rialzato su una cassetta della frutta, occupa un piccolo spazio sul lato destro – vicino al pubblico – della scena del secondo studio di Oh carrot!, della neonata compagnia Aleph Company. Bianco, come uscito da un polveroso negozio di antiquariato all’angolo di chissà quale grande strada americana, ci trasmette delle immagini: è uno spettatore, ancora prima che lo spettacolo, a rivelarmi che si tratta di Ultimo tango a Parigi, celebre pellicola di Bernardo Bertolucci. Pare la miniatura del film stesso, così costretto in quel monitor, minuscolo se confrontato con la megalomania di schermi in grado di riempire l’intera parete delle nostre case (Just what is that makes today’s homes so different, so appealing? si chiedeva Richard Hamilton nel collage che ha segnato la nascita della Pop Art): un cammeo in bianco e nero, reso irriconoscibile per il taglio e il formato dei fotogrammi. Come nella miglior tradizione della storia della televisione, le immagini, mute accompagnano l’intero spettacolo. Un rumore di fondo che conforta, o perlomeno così sembra credere il pubblico. Ed è un brillante Gabriele Bajo, che insieme a Marianna Andrigo è interprete dello spettacolo, ad indicarci in quel piccolo monitor una via di fuga in caso di noia. Sin dalle prime battute, i due protagonisti trascinano lentamente lo spettatore in quella che pare essere la caduta di Alice nella tana del Bianconiglio, servendosi di un’autoironia dai toni metateatrali che non scade nel posticcio grazie alla naturalezza con cui il pubblico viene fatto scivolare all’interno del gioco teatrale che narrerà la storia di Paul e Jeanne, del loro incontro, del loro amore, della loro vita. Una vicenda già vista, ma soprattutto già scritta sui mattoni che, al pari delle vecchie luci di ribalta, separano lo spazio dell’arte da quello della realtà, ponendo le basi di una quarta parete che lo stesso Gabriele afferma non esistere. E dopo aver indossato la maschera degli interpreti sino a non riconoscere se stessi, Jeanne e Paul danno inizio allo spettacolo che li condurrà nella loro nuova vita di coppia, sino alla morte e alla poesia.

foto di Claudia Fabris

Ad osservare bene la messa in scena, Oh carrot! (realizzato con il sostegno di Nu.D.I. – Nuova Danza Indipendente e della Fondazione Teatri Comunale Città di Vicenza) si configura come un gioco di lente esasperazioni capace di catturare lo spettatore grazie alla bellezza dei quadri composti, inseriti in una struttura che richiama alla mente il Se una notte d’inverno un viaggiatore di Italo Calvino per l’agilità con cui ci si sposta da un genere all’altro: un’orchestrazione di registri la cui umiltà riesce ad attanagliare, mantenendo costante quello sprofondamento a cui si è accennato. In questo senso, l’abilità con cui Vincenzo Manna dirige i frammenti che sulla scena vanno a comporre il mosaico delle vicende dei due innamorati, è da riconoscere proprio in virtù di quella dialettica che si crea tra azioni sceniche, immagini video e televisore. Lo spettacolo si arricchisce infatti delle elaborazioni video di Raffaella Rivi, che si serve dell’immagine elettronica per aprire finestre in grado di collegare e offrire nuovi elementi che approfondiscano la vita di coppia dei due protagonisti, evitando inutili digressioni recitate che renderebbero la messa in scena ridondante. In questo alternarsi di azioni e proiezioni, il televisore sembra ricoprire un ruolo fondamentale: se infatti la rappresentazione si costruisce su una successione di episodi che piano piano tendono all’esasperazione degli aspetti trattati (l’innamoramento, la passione, i figli), un valore aggiunto va riconosciuto alla regia per la capacità di creare nel pubblico una tensione che – in ciascun episodio – sembra spingere verso quella noia alla quale il televisore porrebbe rimedio, per poi ricatturare l’attenzione, allontanando lo sguardo dal monitor. Relegato di nuovo l’elettrodomestico a un angolo della visione periferica, l’occhio torna a essere attratto dalle vicende e dai movimenti sinuosi di Marianna Andrigo/Jeanne e del suo compagno, le cui coreografie sono curate da Margherita Pirotto per musiche ed elaborazioni musicali di Carlo Carcano.

Coerentemente con questo tiro alla corda con l’attenzione dello spettatore, Oh carrot! rivela delle fratture profonde che forse, più che la vita, minano il terreno del fare teatrale. Ad osservare bene i due protagonisti (con i costumi realizzati da Claudia Fabris), il registro ironico lascia intravedere un inquietante risvolto: le personalità fittizie sembrano ribellarsi all’interno dei corpi degli interpreti, conducendoli a liberarsi dei loro ruoli per un istante e spiegare le loro azioni, rompendo uno di quegli imbarazzanti momenti in cui tutto tace nel teatro, sospesi in un limbo in cui non si sa se la messa in scena sia finita e si debba applaudire. La realtà irrompe quindi per un istante nella finzione, per poi lasciarla consumare in un ultimo, poetico e avvolgente episodio che torna a consolare il pubblico. Un’invasione che, più che sancire la distanza tra i due universi, sembra suggellarne l’unione: arte e vita appaiono inscindibilmente legati l’una all’altra, portando alla luce una confortante coincidenza che ricorda come il teatro sia ancora in grado di parlare al proprio pubblico.

Visto al Teatro delle Maddalene, Padova

Giulia Tirelli

La parola al circo!

Recensione a Circoparola – di Pantakin Circo Teatro

Sono piccole luci della ribalta quelle che occupano il fondale bianco di Circoparola, l’ultima fatica messa in scena dalla compagnia Pantakin Circo Teatro, che già l’anno scorso aveva deliziato il pubblico di grandi e piccini del Teatro delle Maddalene di Padova con un divertentissimo Cirk. Con questo ultimo lavoro, la compagnia veneziana forza i limiti del linguaggio circense, attraverso la parola poetica di Tiziano Scarpa, autore del testo che conduce la spettacolarità delle azioni dei performer in scena.

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Sulla scena, un gruppo di teatranti combatte contro il proprio successo, stanco delle risposte sempre positive ed entusiaste di un pubblico che sembra amarlo troppo: «Noi guadagniamo troppi soldi! Smettetela di darci soldi!» esclama il clown/capomastro della piccola compagnia – interpretato da un sempre divertentissimo Emanuele Pasqualini, regista dello spettacolo. Il gioco scenico è tutto basato su un meccanismo in cui esibizioni e pause riflessive si incastonano, facendo perdere in alcuni momenti i confini tra l’arte e la vita sulla scena. Lontano dall’essere una semplice successione di gag divertenti e circensi, Circoparola accoglie sulla scena un testo che riesce a essere poetico senza rinunciare a un’ironia sottile, capace di strappare un sorriso anche nei momenti più lirici della rappresentazione. Il trio in scena – che vede la presenza, oltre al già menzionato Pasqualini, dell’acrobata e contorsionista Alice Macchi e del giocoliere-acrobata Marcel Zuluaga Gomez – sembra raccontare se stesso, il proprio passato, i propri dubbi e le proprie paure, nascosto dalla maschera di chi, nella vita, non ha più nulla da chiedere. Lo spettacolo scava nell’interiorità di questi personaggi, senza timore di rivelarne le fragilità. Ne nascono momenti di pura spettacolarità, che accompagnano e marginalmente toccano le parole recitate, in un meccanismo in cui è difficile determinare quale dei due elementi sia didascalia dell’altro. Ed ecco allora che temi quali l’amore, i giornali e la politica si riempiono di immagini capaci di meravigliare un pubblico che si perde tra i movimenti coreografici ideati da Silvia Gribaudi e Gaetano Ruocco Guadagno, tra acrobazie, giocolerie e clownerie. Ed è forse a causa di questa capacità fascinatoria che i protagonisti si trascinano stanchi da un palco all’altro, nel tentativo di staccarsi da un pubblico avido di immagini e intrattenimento: un attacco sferrato gentilmente e candidamente, ma reso evidente sin dall’inizio dello spettacolo, in cui Pasqualini riesce a far alzare gli spettatori di fronte a sé e a far intonare l’inno italiano. Grazie al testo di Scarpa, la narrazione procede dinamica – seppur in alcuni momenti si perdano gli snodi che collegano i diversi episodi l’uno all’altro, anche a causa di bruschi cambi di registro –  muovendosi tra i poli opposti della critica a un pubblico “troppo televisivo” e ad artisti troppo impegnati a stupire, più che a comunicare: un’urgenza che emerge timidamente nel corso della rappresentazione, per poi esplodere in uno sfogo finale che porterà i protagonisti ad abbandonare il teatro, per improvvisarsi imbianchini, idraulici ed elettricisti.

Con Circoparola, Pantakin cerca di riaffermare la propria identità, sottolineando in chiusura di spettacolo la situazione attuale in cui versa il teatro. Togliendosi di fronte al pubblico la maschera indossata sino a pochi minuti prima, Pasqualini – con un coupe de théâtre anomalo – rivela ciò che continua a essere il centro del fare teatrale, nonostante tagli, ostacoli e giochi di potere: mettendo in scena il paradosso di teatranti ricchi e mitizzati dai propri spettatori (che forse in alcuni casi appartengono alla realtà più di quanto siamo abituati o vogliamo credere), la finzione viene smontata pezzo dopo pezzo, per rivelare che ciò che conta – afferma il clown con la sua nuova veste di imbianchino – è che «Si può fare meglio».

Visto al Teatro delle Maddalene, Padova

Giulia Tirelli

Schegge della scena contemporanea: al via Contrappunti 2011/12

È stata presentata venerdì 2 dicembre la stagione del Teatro delle Maddalene di Padova, lo spazio che da ormai sedici anni è animato da Tam Teatromusica e che propone eventi – teatrali e non – legati agli scenari di ricerca contemporanei. L’assessore alla cultura Andrea Colasio introduce una programmazione che per la stagione 2011/12 si articola in tre diversi momenti, nel tentativo di far dialogare le politiche culturali della città con lo spazio scenico allestito all’interno del vecchio monastero patavino.

«Contrappunti_1:RAM» è il titolo assegnato alla prima parte della rassegna, che si inserisce infatti nel ciclo di eventi, mostre e laboratori organizzato dal Comune di Padova per promuovere l’arte, con un particolare sguardo ai linguaggi contemporanei e novecenteschi. Il primo appuntamento – previsto per sabato 10 e domenica 11 dicembre – prevede il riallestimento di Canto dell’albero, un lavoro realizzato da Tam Teatromusica nel 1998 e ripreso in occasione dell’anno internazionale delle foreste proclamato dall’ONU. Lo spettacolo costituisce il primo passo in un percorso che pone al centro della sua proposta l’infanzia, creando uno spazio di visioni condivise tra adulti e bambini. Si prosegue infatti con Picablo (in scena dal 16 al 22 dicembre), ultima produzione diretta da Michele Sambin e dedicata a Picasso, dove «i quadri prendono vita, vengono interpretati, abitati e trasformati» grazie a un utilizzo dello strumento tecnologico in quanto elemento per destare stupore e meraviglia; si ritorna poi al 2007 con quell’Anima blu (20, 21 e 22 gennaio 2012) su Marc Chagall e con il quale il Tam ha ottenuto diversi riconoscimenti internazionali. La prima sezione della rassegna si conclude con l’ultimo lavoro di Pantakin Circo Teatro (già presente nella scorsa edizione con Cirk) realizzato con Silvia Gribaudi e Tiziano Scarpa: Emanuele Pasqualini (regista, attore e clown della formazione veneta) racconta di come Circoparola (27 e 28 gennaio) nasca dal bisogno di forzare i limiti dei linguaggi scenici, accogliendo nell’universo espressivo circense una parola con la quale “giocoleggiare”.

Per la seconda sezione («Contrappunti_2: Universi Diversi») Tam Teatromusica decide di chiamare a dialogare – attraverso i propri lavori – i protagonisti della «tradizione dell’innovazione» (come la definisce Maria Cinzia Zanellato, membro della compagnia impegnata in un lavoro con gli adolescenti e con i detenuti della Casa di Reclusione Due Palazzi di Padova) con giovani artisti il cui lavoro difficilmente accede ai circuiti “ufficiali”: accanto a César Brie – presente il 9 marzo con 120 chili di jazz – e a L’archivio delle anime. Amleto (23 marzo) di Massimiliano Donato con il Centro Teatrale Umbro, si esibirà il 17 febbraio l’Aleph Company con Oh Carrot! (spettacolo realizzato con il sostegno di Nu.D.I – Nuova Danza Indipendente e Fondazione Teatro Comunale Città di Vicenza), mentre il 24 febbraio sarà la volta del napoletano Teatringestazione con Canto trasfigurato. L’interesse per le due formazioni nasce nel primo caso dalla ricerca sulla commistione sui linguaggi (musica, danza, teatro e video) avviata dalla danzatrice e coreografa Margherita Pirotto, nel secondo dalla sperimentazione di nuove modalità di produzione e diffusione della cultura teatrale che ha portato la formazione campana a dare vita a luglio 2011 ad «Altofest», una rassegna realizzata in spazi privati che i cittadini hanno offerto agli artisti ospitati. L’attenzione è rivolta quindi sì a orizzonti espressivi che si interrogano su questioni estetiche e poetiche, ma anche circa la costruzione di nuovi spazi in cui impiantare l’esperienza teatrale, favorendo così l’incontro con nuovi pubblici.

Ed è sulla scia di questa indagine che è pensata la parte conclusiva della rassegna: «Contrappunti_3: festival relAzione Urbana» si interroga infatti sul rapporto tra artisti e città, attraverso spettacoli, momenti performativi e formativi tesi a rivelare la città come palcoscenico dove intessere nuove forme di convivenza umana. Il festival riprende in parte l’esperienza realizzata per le strade di Padova il 27 marzo 2011 per la Giornata mondiale del Teatro, durante la quale le compagnie del territorio animarono le piazze con le loro esibizioni per manifestare il dissenso contro i tagli economici e una politica svilente rispetto al ruolo della cultura e alle sue professionalità. Accanto ai tre spettacoli allestiti presso il Teatro delle Maddalene (Report della città fragile con Gigi Gherzi per la regia di Pietro Floridia, La città fragile. Seppellitemi in piedi di e con Beppe Rosso e Città dentro Città fuori – ispirato a Le città invisibili di Italo Calvino – di Stalker Teatro), Padova si animerà di performance e videoinstallazioni tra le quali il lavoro di  A2, una formazione parigina inserita all’interno del festival grazie alla collaborazione tra Tam e l’area Creatività dell’Ufficio Progetto Giovani di Padova che aderisce a un programma di mobilità internazionale di artisti e operatori culturali.

Con questa edizione di «Contrappunti», Tam Teatromusica e il Comune di Padova sembrano dialogare per dare vita a un progetto culturale che porti alla luce le potenzialità comunicative di un teatro che non sappia solo parlare, ma anche mettersi in ascolto del cittadino, chiamato a essere parte attiva all’interno del processo di costruzione dei percorsi espressivi. Un primo passo – forse – per preparare gli abitanti patavini al ritorno (accennato dallo stesso assessore Colasio) del festival «Teatri delle Mura», secondo una nuova formula di cui ancora non si conoscono i tratti. Rimane solo da sperare che – a partire dalla rassegna curata dal Tam – Padova riapra le porte delle sue mura a orizzonti di sperimentazione e (perché no) di respiro internazionale, come ci avevano abituato le direzioni artistiche di Andrea Porcheddu per lo stesso «Teatri delle Mura».

Giulia Tirelli

Dalla notte alla nebbia: il male di Zaches Teatro

Recensione a Mal bianco – di Zaches Teatro

Dopo Il fascino dell’idiozia, continua la ricerca di Zaches Teatro – formazione fiorentina attiva dal 2006 e attenta ai diversi linguaggi artistici –  tesa ad indagare «la percezione del vedere come alterazione percettiva della mente». A Padova, nell’ambito del festival Prospettiva Danza Teatro 2011, la compagnia presenta il Dittico della Visione, parte del più ampio progetto Trilogia della Visione, composto da Il fascino dell’idiozia (di cui Il Tamburo ha già avuto modo di occuparsi) e da Mal bianco, vincitore del premio Prospettiva Danza Teatro 2010.

Dalle pitture nere di Goya a cui si era ispirata nel precedente lavoro, la regista, coreografa e drammaturga del suono Luana Gramegna sceglie per Mal bianco una scala cromatica tinta di bianco, e indeterminatezza: lontana dal luogo comune per cui ciò che è chiaro è più facilmente riconoscibile, il chiarore della scena genera sentimenti contrastanti e immagini ancora più agghiaccianti. Infatti, se sul foglio di sala la compagnia indica il maestro giapponese Hokusai come riferimento iconografico, è impossibile non lasciar riaffiorare nella propria mente l’immaginario del cinema horror giapponese — o più in generale dell’estremo Oriente (da The ring di Hideo Nakata, più conosciuto per il remake di Gore Verbinski, a Kairo di Kiyoshi Kurosawa, ma anche le scene più mistiche di Dragon – La storia di Bruce Lee diretto da Rob Cohen). In questa dimensione che richiama anche le più celebri figure del surrealista Max Ernst, i tre performer — Enrica Zampetti, Gianluca Gabriele e la stessa Luana Gramegna — costruiscono dei quadri che si alternano in un montaggio destabilizzante, in cui l’occhio viene costantemente chiamato a giocare con le raffigurazioni che si succedono sul palcoscenico. L’abilità della regista emerge nella costruzione di un’altalena percettiva che, in una coreografia che oscilla tra movimenti fluidi e un dilagante dinamismo schizofrenico, obbliga lo spettatore a ricostruire i diversi fotogrammi delle sequenze (non)narrative, tra le sfumature e le ombre di corpi senza volto e senza sesso. Per tutto il tempo dello spettacolo la retina viene eccitata continuamente, in un perfido esercizio che raggiunge il suo obiettivo attraverso una magistrale gestione di pause e accelerazioni visive: quando l’occhio comincia finalmente a definire nitidamente i contorni dei demoni che percorrono la scena, l’immagine si annulla e scompare nella nebbia, per generare nuovi incubi che il nostro cervello dovrà affrontare e superare.

Immerso in un bianco fuligginoso, il pubblico è chiamato quindi a resettare i propri moduli percettivi sin dall’inizio della rappresentazione: lo schermo bianco intermittente, accecante, e gli stridenti suoni elettronici creati da Stefano Ciardi avviano quella che potrebbe essere definita come un’esperienza mistica, “flashando” (come direbbero gli informatici) le sinapsi e obbligando il cervello a ripercorrere i primi passi del vedere e del guardare. In questo mondo di figure umane e non-umane, rimangono impresse proprio le ombre di creature — ormai appartenenti al nostro patrimonio visivo, chesi muovono in un inconscio sommerso e represso che reclama il suo diritto ad essere svelato. Complici nella (ri)creazione di questo universo, la scelta dei costumi di Valeria Donata Bettella e Elisa Abbrugiati e le maschere e le luci di Francesco Givone. Un mondo di cui a volte si perde il centro generatore, l’origine, in una frammentazione che forse, se ben corrisponde a certi meccanismi di funzionamento della psiche, spesso lascia sospeso quello che potrebbe essere il significato più pregnante dell’immagine.

Zaches Teatro lascia il suo pubblico in attesa della terza parte della trilogia con un interrogativo: «Ma cosa vorrebbe dire “bianco”?». Viene anche da domandarsi quale tavolozza sceglierà la compagnia per sottoporre l’occhio ad una nuova destabilizzante visione: il teatro si tingerà di sfumature di grigio o ritornerà al colore?

Visto al Teatro delle Maddalene, Prospettiva Danza Teatro 2011, Padova

Giulia Tirelli

Rituali quotidiani

Recensione a IAI – di Alessandro Martinello

Dalla necessità di riflettere su se stesso e di mettere ordine nel caos delle proprie suggestioni ha origine IAI, lo spettacolo di Alessandro Martinello nato in sinergia con il musicista Luca Scapellato. Partendo da Lezioni spirituali per giovani samurai di Yukio Mishima, controverso e amato artista giapponese del XX secolo, Martinelloripercorre le tappe di una sua personale ricerca tesa a scavare e sviscerare le possibilità espressive legate al video, raccogliendo suggestioni e influenze anche del lavoro di Tam Teatromusica, compagnia all’interno della quale lavora da diversi anni. Il loop, la videoproiezione, la manipolazione live si prestano come strumenti essenziali di questo processo il cui scopo è indagare la fisicità e la materialità della carne, del corpo fisico — motore di tutto lo spettacolo — e delle sue declinazioni nella realtà contemporanea.

IAI - foto di Claudia Fabris

Apparentemente solo sulla scena, il performer gioca con il proprio corpo, moltiplicandolo e plasmandolo come se fosse altro da sé, in un procedimento che rimanda alla mente gli avatar di cui ognuno si serve quotidianamente sui social network per comunicare con altre persone, reali o virtuali, o — meglio — virtualmente reali. Nascono così una serie di quadri di cui viene palesato il processo creativo, in un piano sequenza che assume i tratti di un rituale: ciascuna azione viene svolta in silenzio, immersa nel tappeto di sonorità elettroniche di Scapellato, dalla cui forza e suggestione si genera un continuum in grado di legare le immagini che si susseguono sulla scena. Uno scambio tra campo e fuori campo (per dirla con i termini del linguaggio cinematografico), tra interno ed esterno, che rimanda direttamente all’apertura dello spettacolo: su uno schermo nero si delineano parole e frasi battute in diretta su un computer dallo stesso perfomer, sino a costruire un muro di luce che ne invade il corpo. Le parole di Mishima si fondono qui alle parole dell’artista, innescando una reazione a catena che produce nuove interpretazioni e chiavi di lettura in grado di trascinare tutto lo spettacolo: è l’interiorizzazione di quelle parole, l’appropriarsene per piegarle alla propria visione che innesca il detonatore da cui ha origine l’inizio del rituale. Una preparazione che culmina in unico movimento, deciso, fermo e preciso: l’affondo. Al contrario degli schermi di proiezione continuamente ridefiniti per ospitare la propria immagine, è però una tela bianca quella che si trova ad accogliere questo ultimo gesto dell’artista, richiamando alla mente di noi spettatori occidentali i concetti spaziali dell’italo-argentino Lucio Fontana.

Nonostante gli innumerevoli rimandi concettuali (consapevoli e non) che costellano la messa in scena, IAI costituisce l’espressione di una necessità tecnica ed emotiva, come chiarito dagli artisti stessi nel corso dell’incontro con giovani critici provenienti da tre diverse testate (Il Tamburo di Kattrin, Teatro e Critica, e KLP). Un’occasione significativa, soprattutto in tempi come questi in cui è facile sostenere che la cultura non serva a nessuno perché sempre e comunque troppo lontana dall’esperienza quotidiana. È stata infatti la possibilità dell’incontro a permettere al pubblico di confrontarsi direttamente con i creatori e realizzatori dello spettacolo, esprimendo i propri apprezzamenti e i propri dubbi: un momento che ha permesso di fare così chiarezza su sfumature che si perdono nella fedeltà della restituzione temporale dell’azione, ma che conservano tutta la potenza visiva e la suggestione create da immagini e suoni che richiamano alla mente l’incontro tra Alva Noto e Ryuichi Sakamoto, tra tecnologia e poesia.

Visto al Teatro delle Maddalene, Padova

Giulia Tirelli

Erri De Luca prova in Nome della madre

Recensione a Provando in nome della madre – di e con Erri De Luca, regia di Simone Gandolfo

Erri De Luca

Tiene i pugni stretti sulle ginocchia Erri De Luca. Seduto su una sedia di legno a bordo del palcoscenico e immerso in una penombra che a poco a poco lo inghiotte, ripete a memoria in silenzio tra sé e sé le parole che compongono il suo In nome della madre, libro pubblicato nel 2006 dove la gravidanza di Miriam/Maria, donna che porta in grembo Iosha/Gesù, è raccontata in maniera intima e naturale. Non parla molto il signor De Luca in Provando in nome della madre, uno spettacolo diretto da Simone Gandolfo, basato proprio su quel suo testo dove la storia religiosa lascia posto a quella più umana di una femmina che, parafrasando una canzone del grande Fabrizio De André, sarà poi madre per sempre. Nonostante la sua voce si faccia sentire poco, su di lui si regge l’intera messa in scena, un modesto tentativo inizialmente metateatrale in cui due attori provano il racconto di De Luca e proprio per questo invitano l’autore a parteciparvi. È una regia che non aggiunge, ma che si basa totalmente su una drammaturgia trascinante e di una delicatezza estrema e toccante. E se l’inizio è zoppicante per quella sua esplicitata volontà di fingere di essere alla prima lettura del testo, il resto della pièce scivola via in modo veloce proprio per quelle frasi travolgenti scritte da Erri De Luca. Lo spettacolo diventa un pretesto per ascoltare un’anima che unisce semplicità a poesia, in un vortice di parole in gran parte monologanti che descrivono lo stato emotivo della giovane Miriam, presa in sposa da Iosef, nonostante aspettasse già un figlio non concepito con lui. Piano piano la giovane Sara Cianfriglia, che dà voce qui alla più famosa donna di tutta la Galilea, acquista consapevolezza e forza in quel vortice di parole che la innalzano allo stato di grazia, facendola sembrare piena di lucentezza: perché è questa la condizione in cui si trova chi porta dentro sé una vita. Sembra scritto da un punto di vista femminile questo racconto; e De Luca, alla iniziale sorpresa dell’attrice che solleva proprio la questione, risponde che egli è solo il redattore di questa storia scritta non da un uomo ma da un figlio; non è altro che servo di una parola incarnata. Quel che vien proferito diventa suono di dolcezza e mentre al centro della scena c’è lei, Miriam/Maria, De Luca produce un eco silenzioso: i suoi occhi cerulei sembrano ripercorrere mentalmente immagini che provengono da un passato misterioso e che acquistano lì in quel momento un’altra vita. Una gravidanza semplice e allo stesso tempo divina quella di Maria, sostenuta da Iosef che come puntualizza l’autore durante lo spettacolo, è colui che aggiunge; e ciò che aggiunge è fede, una conseguenza dettata dal suo amore. Provando in nome della madre avvolge con delicatezza una storia classica e religiosa ma che con De Luca acquista una sublime umanità.

Visto al Teatro Mpx, Padova

Carlotta Tringali

A faccia a faccia con… Se stessi!

Recensione a Romeo e RomeoTeatro Instabile di Aosta

Romeo e Romeo - foto di Puzzutiello Angelo

Tra amicizie (reali e virtuali) e rapporti di lavoro, il mercato offre sempre più possibilità per ritagliarsi quel tempo necessario per riflettere su se stessi − basti pensare alla riscoperta/scoperta delle discipline orientali e ai nuovi percorsi tracciati dalla psicologia occidentale. Eppure, banalmente, oggi ci si trova a districarsi tra quella che è la nostra vera interiorità e quella che invece è il frutto di condizionamenti sociali e mediatici, in un labirinto di specchi all’interno del quale è difficile riconoscere con certezza la propria immagine. Riecheggia nella mente “lo stadio dello specchio” descritto dal filosofo e psichiatra francese Jacques Lacan: tra i sei e i diciotto mesi il bambino, in braccio alla madre, davanti allo specchio reagisce dapprima all’immagine come se appartenesse a un Altro reale, e solo nel momento in cui incrocia lo sguardo della madre nello specchio, riconosce nel suo riflesso la sua immagine. È quindi in presenza di un elemento esterno (la madre) che l’infante si riconosce ed accetta. Ed è in un analogo gioco di riflessi e tentativi di ri-conoscersi che ha inizio Romeo e Romeo, nato dalla collaborazione tra la compagnia del Teatro Instabile di Aosta e la regista Daniela De Panfilis: un uomo rincorre l’immagine di un essere umano, un corpo che, coperto dalla maschera e da un lungo vestito nero, si muove sulla scena, sinuoso e sensuale, in una danza quasi sciamanica, in grado di disegnare curve dal forte potere ipnotico. Dall’incontro tra la maschera e l’attore, gli interpreti Eugenio Di Vito e Marco Augusto Chenevier innescano un percorso che ripercorre a balzi la creazione della propria individualità, muovendosi in un reticolo di riferimenti (tra cultura alta e bassa, se ancora si vuole mantenere una distinzione di “genere”, e non qualitativa, delle forme espressive) ai quali gli spettatori possono aggrapparsi per seguire il vagare di questi amanti tra passato e presente. Se infatti tutto ha inizio dal testo shakespeariano di Romeo e Giulietta, la linea drammaturgica riesce a condurci in un viaggio senza tempo, fatto di ellissi e flashback che ripercorrono il background culturale di più generazioni: partendo dal testo del drammaturgo inglese, si passa alla Francia della Rivoluzione con Lady Oscar e André, all’Ottocento cupo e grottesco di Frankenstein e della sua creatura, per poi ritornare a quello dei due innamorati veronesi che hanno ormai attraversato i secoli, fissandosi nell’immaginario come allegoria di Amore. Anche se di Giulietta in questo lavoro non ne rimane alcun segno di passaggio: unico vero protagonista, Romeo, nella duplice immagine dei due interpreti, il cui nome compare anche in quelle parti di testo che vedrebbero interpellata la nostra cara Capuleti.

Eppure, nonostante la compagnia dica che il lavoro porti «in scena con intensa leggerezza, ironia e drammaticità un duetto che parte dalla tragedia shakespeariana, per scivolare in maniera suggestiva nella tematica dell’amore omosessuale, nel conflitto di un uomo che si innamora di un altro uomo», è un interrogativo importante quello che risuona nella mente: e se Romeo altro non stesse cercando che Romeo, ovvero se stesso? E se quella coreografia che vede i due protagonisti muoversi all’unisono rappresentasse un ricongiungimento con il proprio Io, sepolto, ormai nascosto? Oltrepassando lo stereotipo dell’anima gemella in grado di completarci, è forse questo bisogno spasmodico di comprendere noi stessi che si va rafforzando col procedere della messa in scena, tra picchi di profonda poesia, comicità e metateatralità, il tutto legato da “dissolvenze in passi di danza”.

Nonostante la struttura vicina alla frammentarietà dello zapping televisivo, Romeo e Romeo ci offre un palinsesto estremamente coerente e intelligente, che mai lascia cadere l’attenzione e la tensione dello spettatore. Grazie alla grandissima abilità dei due interpreti nell’impossessarsi di moduli interpretativi differenti − muovendosi tra cabaret, recitazione drammatica, danza e mimo − lo spettatore si trova immerso nelle pagine di un saggio sull’Amore: un sentimento che trova sempre il suo epicentro nell’interiorità di ciascuno di noi e le cui manifestazioni altro non sono che una proiezione del nostro Io. È lo stesso Lacan ad associare il godimento all’immagine di sé: d’altra parte «l’investimento del bambino si attua prima ancora che sul proprio corpo, percepito come frammentato, sull’immagine completa dello specchio, sull’Altro riflesso nello specchio». Questa prima identificazione − immaginaria − è due volte alienante, in quanto legata allo sguardo della madre: in assenza di questo secondo sguardo, il bambino non sarebbe in grado di riconoscersi. La realtà del corpo è quindi sostituita dall’immagine del corpo e ciò che viene coinvolto non solo è l’Altro nello specchio, ma è anche il desiderio di quell’Altro stesso. Ed è in questo stato di confusione tra il sé e l’Altro, in un movimento di pulsioni che dall’esterno si proiettano all’interno e viceversa, che il nostro Romeo, quello del XXI secolo, si trova a rincorrere i bagliori di quel riflesso, nel tentativo di rompere quello schiacciante senso di frammentazione che gli impedisce di riconoscersi in quanto Individuo.

Visto al Teatro de LiNUTILE, Padova

Giulia Tirelli

Croci e delizie del teatro contemporaneo veneto

Veneziainscena/Questanave - "Il ragazzo dell'ultimo banco"

Tre giorni per ventun spettacoli, capaci di condensare croci e delizie del teatro veneto contemporaneo, offrendo uno spaccato “a caldo” di ciò che accade sui palcoscenici della regione – questo l’obiettivo di Sguardi, festival-vetrina itinerante al suo numero “zero”. Risultato ottenuto in pieno fin dalle brochure che annunciavano la programmazione: una tre giorni di letture, danza, prosa, ricerca che non ha lasciato fuori quasi nessuno dei numerosi artisti che popolano i teatri del nord-est. Ecco, quindi che la piccola rassegna diventa una – seppur serratissima – occasione per fare i conti con la creatività di una regione dai celebri trascorsi spettacolari e dal passato recente un po’ stagnante, che da qualche anno è tornata alla ribalta, imponendosi a sorpresa, dal celebre quasi en plein di Scenario 2007, al centro dell’attenzione della scena nazionale. Azzardando un’ipotesi dal di dentro, il merito (a Sguardi lo si può ben vedere) è dell’instancabile attività di  produzione, promozione e formazione di cui sono protagonisti i coraggiosi operatori del territorio, dall’originaria Opera Prima curata a Rovigo dal Teatro del Lemming fino al più recente B.Motion di Bassano, all’attività nelle città e nelle vivacissime province.

A Sguardi si è visto tanto del teatro che si frequenta da queste parti – un intrecciarsi di sperimentazione e conservazione entrambe attente soprattutto alla drammaturgia; la persistenza di una vivace linea post-amatoriale, tanto nella ricerca quanto nella tradizione; qualche sopravvivenza di quel teatro civile che una volta aveva reso celebre il Veneto sui palcoscenici di tutta Italia e soprattutto la coesistenza di una varietà di generi come di rado si vede nelle programmazioni, dalla prosa alla performance al circo, fino al teatro sociale e al teatro ragazzi. Attraversamenti di un terzo paesaggio, direbbe Gilles Clément: sempre troppo pieno (di oggetti, di significati o di parola), certo un po’ isolato nei suoi circuiti, con regole e codici tutti suoi, è un territorio artistico e non solo che sopravvive con vivacità, anche  alla (o nonostante la) cosiddetta scena nazionale.
Nell’esplosione di estetiche e di stili, di concetti e di contesti, di contro all’etichetta proposta dal titolo della rassegna – “teatro contemporaneo veneto” – sembra si possano individuare, senza forzature acrobatiche, alcune linee-guida che ritornano con forza fra i diversi lavori presentati e li mettono in corrispondenza a quello che sta accadendo sui palcoscenici del resto d’Italia.

Tib Teatro - "Galileo"

Innanzitutto un dato si trova nella monumentalità della quarta parete: fatta a brandelli, superata, derisa e decostruita dal lavoro di tante generazioni del teatro di ricerca e non, questa membrana è tornata ad essere un leitmotiv raramente messo in discussione nei teatri italiani. C’è chi ne fa una protezione, collocandosi nell’alveo tradizionale dell’incorniciamento filo-cinematografico che da un paio di secoli confeziona la vitalità della scena, da Il ragazzo dell’ultimo banco di Veneziainscena-Questanave a Galileo del Tib. E c’è chi ne avvicina i vezzi, le funzioni, i limiti, alle caratteristiche più osmotiche dello schermo, dispositivo rappresentativo per eccellenza della quotidianità contemporanea, del rapporto con se stessi e con gli altri; la “quarta parete-display” torna con continuità soprattutto nei lavori della teatralità emergente, dalla frontalità esasperata di cui Babilonia Teatri ha fatto una cifra stilistica (e politica) a Rivelazione di Anagoor, fino agli attraversamenti di Insorta distesa di Plumes dans la tête. Sembra – non solo a Padova – che dopo decenni di impero mediatico televisivo, con tutte le sovversioni tentate dal teatro, il pubblico sia tornato ad essere innanzitutto voyeur e l’interprete, di frequente, si conferma sulla linea di quell’attore-soma i cui albori si trovano nelle creazioni della cosiddetta Romagna Felix. Proscenio-cornice e proscenio-schermo, naturalmente, si muovono insieme, in contraddittoria simbiosi, destinati a collocarsi allo stesso tempo come muro e come soglia, separazione e unione, fruizione passiva e comunicazione attiva. Sono le facce di una stessa medaglia performativa, forse ulteriore segnale (altri se ne trovano in questioni logistico-organizzative, oltre che estetiche) di un avvicinamento considerevole della scena alle modalità d’azione dell’arte contemporanea. Di più – e non è solo il caso, dichiarato e fortunato, della lezione-spettacolo di Anagoor – dalla protezione monumentale della quarta parete fra scena e platea, o in sua prossimità, emerge a tratti un retrogusto che si potrebbe dire di intenzione didattica. In Galileo, ad esempio, gli attori del Tib vorrebbero far apprendere i nodi dell’esistenza dell’astronomo, attraverso una sua versione umanizzata, più accessibile; mentre Teatro Scientifico tenta di insegnare la cultura dei migranti (attraverso l’esperienza di una giovane moldava) e la giovane Marta Dalla Via conclude il suo Veneti Fair con una rivelazione moral-autobiografica sulla natura documentaristica del proprio lavoro.

Marta Dalla Via - "Veneti Feir"

L’unica strategia per ragionare sull’antica e sempre attuale separazione fra scena e platea, fra attivo e passivo – con la doverosa eccezione dell’Amleto del Lemming, spettacolo che segna uno sviluppo di tutto rilievo nel lavoro della compagnia – sembra trovarsi nelle aperture del comico. La gag (e la risata) riesce qui come altrove a spaccare barriere (fra gli attori, fra gli spettatori, fra palco e realtà), ponendosi come condensatore socio-culturale, attivatore di solidarietà, collasso della critica nell’ironia. Ma attenzione, oggi come nella tradizione, la comicità possiede uno spirito duplice: se tante volte è la strada più efficace per fare critica, d’altro canto resta sempre un po’ deliziosamente complice. C’è una tradizione, filosofica e non solo, per cui si ride di ciò di cui ci si sente (o si desidera sentirsi) migliori, per distaccarsene. E non è un caso, probabilmente, che tali strategie entrino più spesso in gioco proprio quando si tratta di parlare di cultura, di società, di politica: la tipizzazione che può edulcorare lo stereotipo, la derisione di modelli tanto atroci quanto buffi, la trattazione (auto)critica a tratti affettuosa, sono linee di azione che emergono soprattutto in quei lavori che intendono dichiaratamente riferirsi alla situazione politica del territorio, alle sue paure razziste più o meno giustificabili, alla sua avidità di lavoro e denaro, ai suoi “vizi” più evidenti, dal lavoro nero, giù giù, fino al pettegolezzo di paese e al culto dell’aperitivo.

Oltre gli stili, la tecnica, i formati, occorre dunque un passaggio intorno e dentro la questione tematica dell’identità locale che è a inquietante innesco della rassegna ma, senza tante sorprese, si colloca anch’essa al centro di un interesse più italiano che veneto. Fare i conti con le contraddizioni di un territorio è sulla pelle di tutti (compresi gli scriventi), ma non è sufficiente operare scelte di ordine tematico – forse anche un po’ trendy, di questi tempi – per affrontare il problema. Non è un caso se il lavoro (anche se in fase embrionale) che dimostra più potenza (espressiva, estetica, anche politica) è La bancarotta, riscrittura del dramma goldoniano ad opera di Vitaliano Trevisan presentata in forma di lettura scenica. Non accomodandosi su facili stereotipi, lontano dalla derisione per “tipi”, dalla tentazione documentaristica, dall’azzardata sperimentazione di coincidenze extra-territoriali fra le periferie padane e altre anche oltreoceano, questo lavoro sembra assumersi la responsabilità della contraddizione che, da queste parti, esplode immediatamente nel tema dell’identità. Il percorso nella “venetità” passa qui attraverso un coraggioso uso dei dialetti e la ricerca di una lingua materica ben lontana dallo slang omologato che si sente in teatro o in tv, un affondo altrettanto interessante nella ferocia concreta della piccola imprenditoria di provincia, dei suoi vizi e dei suoi crimini, delle sue mollezze micidiali, così vicine a quelle che si trovano di questi tempi sui mezzi di informazione di tutta Italia. La rielaborazione di questo testo è capace di fare di un industrialotto in fallimento l’incarnazione locale di Scarface, assumendosi la responsabilità della tematica e riuscendo dunque a proporsi come un lavoro che ha il coraggio di puntare seriamente il dito al cuore del tema dell’identità e di girarlo e di rigirarlo sapientemente nella piaga.

Roberta Ferraresi

“No, non ci vado. Perché non so bene neanche quello che c’è a volte sono spettacoli noiosissimi.” “non ci vado perché penso che sia noioso.”