teatro maddalene padova

Appunti su arte, amore e carote

Considerazioni su Oh carrot! (Secondo studio) – di Aleph Company

foto di Andrea Cravotta

È già acceso il piccolo televisore che, rialzato su una cassetta della frutta, occupa un piccolo spazio sul lato destro – vicino al pubblico – della scena del secondo studio di Oh carrot!, della neonata compagnia Aleph Company. Bianco, come uscito da un polveroso negozio di antiquariato all’angolo di chissà quale grande strada americana, ci trasmette delle immagini: è uno spettatore, ancora prima che lo spettacolo, a rivelarmi che si tratta di Ultimo tango a Parigi, celebre pellicola di Bernardo Bertolucci. Pare la miniatura del film stesso, così costretto in quel monitor, minuscolo se confrontato con la megalomania di schermi in grado di riempire l’intera parete delle nostre case (Just what is that makes today’s homes so different, so appealing? si chiedeva Richard Hamilton nel collage che ha segnato la nascita della Pop Art): un cammeo in bianco e nero, reso irriconoscibile per il taglio e il formato dei fotogrammi. Come nella miglior tradizione della storia della televisione, le immagini, mute accompagnano l’intero spettacolo. Un rumore di fondo che conforta, o perlomeno così sembra credere il pubblico. Ed è un brillante Gabriele Bajo, che insieme a Marianna Andrigo è interprete dello spettacolo, ad indicarci in quel piccolo monitor una via di fuga in caso di noia. Sin dalle prime battute, i due protagonisti trascinano lentamente lo spettatore in quella che pare essere la caduta di Alice nella tana del Bianconiglio, servendosi di un’autoironia dai toni metateatrali che non scade nel posticcio grazie alla naturalezza con cui il pubblico viene fatto scivolare all’interno del gioco teatrale che narrerà la storia di Paul e Jeanne, del loro incontro, del loro amore, della loro vita. Una vicenda già vista, ma soprattutto già scritta sui mattoni che, al pari delle vecchie luci di ribalta, separano lo spazio dell’arte da quello della realtà, ponendo le basi di una quarta parete che lo stesso Gabriele afferma non esistere. E dopo aver indossato la maschera degli interpreti sino a non riconoscere se stessi, Jeanne e Paul danno inizio allo spettacolo che li condurrà nella loro nuova vita di coppia, sino alla morte e alla poesia.

foto di Claudia Fabris

Ad osservare bene la messa in scena, Oh carrot! (realizzato con il sostegno di Nu.D.I. – Nuova Danza Indipendente e della Fondazione Teatri Comunale Città di Vicenza) si configura come un gioco di lente esasperazioni capace di catturare lo spettatore grazie alla bellezza dei quadri composti, inseriti in una struttura che richiama alla mente il Se una notte d’inverno un viaggiatore di Italo Calvino per l’agilità con cui ci si sposta da un genere all’altro: un’orchestrazione di registri la cui umiltà riesce ad attanagliare, mantenendo costante quello sprofondamento a cui si è accennato. In questo senso, l’abilità con cui Vincenzo Manna dirige i frammenti che sulla scena vanno a comporre il mosaico delle vicende dei due innamorati, è da riconoscere proprio in virtù di quella dialettica che si crea tra azioni sceniche, immagini video e televisore. Lo spettacolo si arricchisce infatti delle elaborazioni video di Raffaella Rivi, che si serve dell’immagine elettronica per aprire finestre in grado di collegare e offrire nuovi elementi che approfondiscano la vita di coppia dei due protagonisti, evitando inutili digressioni recitate che renderebbero la messa in scena ridondante. In questo alternarsi di azioni e proiezioni, il televisore sembra ricoprire un ruolo fondamentale: se infatti la rappresentazione si costruisce su una successione di episodi che piano piano tendono all’esasperazione degli aspetti trattati (l’innamoramento, la passione, i figli), un valore aggiunto va riconosciuto alla regia per la capacità di creare nel pubblico una tensione che – in ciascun episodio – sembra spingere verso quella noia alla quale il televisore porrebbe rimedio, per poi ricatturare l’attenzione, allontanando lo sguardo dal monitor. Relegato di nuovo l’elettrodomestico a un angolo della visione periferica, l’occhio torna a essere attratto dalle vicende e dai movimenti sinuosi di Marianna Andrigo/Jeanne e del suo compagno, le cui coreografie sono curate da Margherita Pirotto per musiche ed elaborazioni musicali di Carlo Carcano.

Coerentemente con questo tiro alla corda con l’attenzione dello spettatore, Oh carrot! rivela delle fratture profonde che forse, più che la vita, minano il terreno del fare teatrale. Ad osservare bene i due protagonisti (con i costumi realizzati da Claudia Fabris), il registro ironico lascia intravedere un inquietante risvolto: le personalità fittizie sembrano ribellarsi all’interno dei corpi degli interpreti, conducendoli a liberarsi dei loro ruoli per un istante e spiegare le loro azioni, rompendo uno di quegli imbarazzanti momenti in cui tutto tace nel teatro, sospesi in un limbo in cui non si sa se la messa in scena sia finita e si debba applaudire. La realtà irrompe quindi per un istante nella finzione, per poi lasciarla consumare in un ultimo, poetico e avvolgente episodio che torna a consolare il pubblico. Un’invasione che, più che sancire la distanza tra i due universi, sembra suggellarne l’unione: arte e vita appaiono inscindibilmente legati l’una all’altra, portando alla luce una confortante coincidenza che ricorda come il teatro sia ancora in grado di parlare al proprio pubblico.

Visto al Teatro delle Maddalene, Padova

Giulia Tirelli

La parola al circo!

Recensione a Circoparola – di Pantakin Circo Teatro

Sono piccole luci della ribalta quelle che occupano il fondale bianco di Circoparola, l’ultima fatica messa in scena dalla compagnia Pantakin Circo Teatro, che già l’anno scorso aveva deliziato il pubblico di grandi e piccini del Teatro delle Maddalene di Padova con un divertentissimo Cirk. Con questo ultimo lavoro, la compagnia veneziana forza i limiti del linguaggio circense, attraverso la parola poetica di Tiziano Scarpa, autore del testo che conduce la spettacolarità delle azioni dei performer in scena.

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Sulla scena, un gruppo di teatranti combatte contro il proprio successo, stanco delle risposte sempre positive ed entusiaste di un pubblico che sembra amarlo troppo: «Noi guadagniamo troppi soldi! Smettetela di darci soldi!» esclama il clown/capomastro della piccola compagnia – interpretato da un sempre divertentissimo Emanuele Pasqualini, regista dello spettacolo. Il gioco scenico è tutto basato su un meccanismo in cui esibizioni e pause riflessive si incastonano, facendo perdere in alcuni momenti i confini tra l’arte e la vita sulla scena. Lontano dall’essere una semplice successione di gag divertenti e circensi, Circoparola accoglie sulla scena un testo che riesce a essere poetico senza rinunciare a un’ironia sottile, capace di strappare un sorriso anche nei momenti più lirici della rappresentazione. Il trio in scena – che vede la presenza, oltre al già menzionato Pasqualini, dell’acrobata e contorsionista Alice Macchi e del giocoliere-acrobata Marcel Zuluaga Gomez – sembra raccontare se stesso, il proprio passato, i propri dubbi e le proprie paure, nascosto dalla maschera di chi, nella vita, non ha più nulla da chiedere. Lo spettacolo scava nell’interiorità di questi personaggi, senza timore di rivelarne le fragilità. Ne nascono momenti di pura spettacolarità, che accompagnano e marginalmente toccano le parole recitate, in un meccanismo in cui è difficile determinare quale dei due elementi sia didascalia dell’altro. Ed ecco allora che temi quali l’amore, i giornali e la politica si riempiono di immagini capaci di meravigliare un pubblico che si perde tra i movimenti coreografici ideati da Silvia Gribaudi e Gaetano Ruocco Guadagno, tra acrobazie, giocolerie e clownerie. Ed è forse a causa di questa capacità fascinatoria che i protagonisti si trascinano stanchi da un palco all’altro, nel tentativo di staccarsi da un pubblico avido di immagini e intrattenimento: un attacco sferrato gentilmente e candidamente, ma reso evidente sin dall’inizio dello spettacolo, in cui Pasqualini riesce a far alzare gli spettatori di fronte a sé e a far intonare l’inno italiano. Grazie al testo di Scarpa, la narrazione procede dinamica – seppur in alcuni momenti si perdano gli snodi che collegano i diversi episodi l’uno all’altro, anche a causa di bruschi cambi di registro –  muovendosi tra i poli opposti della critica a un pubblico “troppo televisivo” e ad artisti troppo impegnati a stupire, più che a comunicare: un’urgenza che emerge timidamente nel corso della rappresentazione, per poi esplodere in uno sfogo finale che porterà i protagonisti ad abbandonare il teatro, per improvvisarsi imbianchini, idraulici ed elettricisti.

Con Circoparola, Pantakin cerca di riaffermare la propria identità, sottolineando in chiusura di spettacolo la situazione attuale in cui versa il teatro. Togliendosi di fronte al pubblico la maschera indossata sino a pochi minuti prima, Pasqualini – con un coupe de théâtre anomalo – rivela ciò che continua a essere il centro del fare teatrale, nonostante tagli, ostacoli e giochi di potere: mettendo in scena il paradosso di teatranti ricchi e mitizzati dai propri spettatori (che forse in alcuni casi appartengono alla realtà più di quanto siamo abituati o vogliamo credere), la finzione viene smontata pezzo dopo pezzo, per rivelare che ciò che conta – afferma il clown con la sua nuova veste di imbianchino – è che «Si può fare meglio».

Visto al Teatro delle Maddalene, Padova

Giulia Tirelli