teatri delle mura padova

Schegge della scena contemporanea: al via Contrappunti 2011/12

È stata presentata venerdì 2 dicembre la stagione del Teatro delle Maddalene di Padova, lo spazio che da ormai sedici anni è animato da Tam Teatromusica e che propone eventi – teatrali e non – legati agli scenari di ricerca contemporanei. L’assessore alla cultura Andrea Colasio introduce una programmazione che per la stagione 2011/12 si articola in tre diversi momenti, nel tentativo di far dialogare le politiche culturali della città con lo spazio scenico allestito all’interno del vecchio monastero patavino.

«Contrappunti_1:RAM» è il titolo assegnato alla prima parte della rassegna, che si inserisce infatti nel ciclo di eventi, mostre e laboratori organizzato dal Comune di Padova per promuovere l’arte, con un particolare sguardo ai linguaggi contemporanei e novecenteschi. Il primo appuntamento – previsto per sabato 10 e domenica 11 dicembre – prevede il riallestimento di Canto dell’albero, un lavoro realizzato da Tam Teatromusica nel 1998 e ripreso in occasione dell’anno internazionale delle foreste proclamato dall’ONU. Lo spettacolo costituisce il primo passo in un percorso che pone al centro della sua proposta l’infanzia, creando uno spazio di visioni condivise tra adulti e bambini. Si prosegue infatti con Picablo (in scena dal 16 al 22 dicembre), ultima produzione diretta da Michele Sambin e dedicata a Picasso, dove «i quadri prendono vita, vengono interpretati, abitati e trasformati» grazie a un utilizzo dello strumento tecnologico in quanto elemento per destare stupore e meraviglia; si ritorna poi al 2007 con quell’Anima blu (20, 21 e 22 gennaio 2012) su Marc Chagall e con il quale il Tam ha ottenuto diversi riconoscimenti internazionali. La prima sezione della rassegna si conclude con l’ultimo lavoro di Pantakin Circo Teatro (già presente nella scorsa edizione con Cirk) realizzato con Silvia Gribaudi e Tiziano Scarpa: Emanuele Pasqualini (regista, attore e clown della formazione veneta) racconta di come Circoparola (27 e 28 gennaio) nasca dal bisogno di forzare i limiti dei linguaggi scenici, accogliendo nell’universo espressivo circense una parola con la quale “giocoleggiare”.

Per la seconda sezione («Contrappunti_2: Universi Diversi») Tam Teatromusica decide di chiamare a dialogare – attraverso i propri lavori – i protagonisti della «tradizione dell’innovazione» (come la definisce Maria Cinzia Zanellato, membro della compagnia impegnata in un lavoro con gli adolescenti e con i detenuti della Casa di Reclusione Due Palazzi di Padova) con giovani artisti il cui lavoro difficilmente accede ai circuiti “ufficiali”: accanto a César Brie – presente il 9 marzo con 120 chili di jazz – e a L’archivio delle anime. Amleto (23 marzo) di Massimiliano Donato con il Centro Teatrale Umbro, si esibirà il 17 febbraio l’Aleph Company con Oh Carrot! (spettacolo realizzato con il sostegno di Nu.D.I – Nuova Danza Indipendente e Fondazione Teatro Comunale Città di Vicenza), mentre il 24 febbraio sarà la volta del napoletano Teatringestazione con Canto trasfigurato. L’interesse per le due formazioni nasce nel primo caso dalla ricerca sulla commistione sui linguaggi (musica, danza, teatro e video) avviata dalla danzatrice e coreografa Margherita Pirotto, nel secondo dalla sperimentazione di nuove modalità di produzione e diffusione della cultura teatrale che ha portato la formazione campana a dare vita a luglio 2011 ad «Altofest», una rassegna realizzata in spazi privati che i cittadini hanno offerto agli artisti ospitati. L’attenzione è rivolta quindi sì a orizzonti espressivi che si interrogano su questioni estetiche e poetiche, ma anche circa la costruzione di nuovi spazi in cui impiantare l’esperienza teatrale, favorendo così l’incontro con nuovi pubblici.

Ed è sulla scia di questa indagine che è pensata la parte conclusiva della rassegna: «Contrappunti_3: festival relAzione Urbana» si interroga infatti sul rapporto tra artisti e città, attraverso spettacoli, momenti performativi e formativi tesi a rivelare la città come palcoscenico dove intessere nuove forme di convivenza umana. Il festival riprende in parte l’esperienza realizzata per le strade di Padova il 27 marzo 2011 per la Giornata mondiale del Teatro, durante la quale le compagnie del territorio animarono le piazze con le loro esibizioni per manifestare il dissenso contro i tagli economici e una politica svilente rispetto al ruolo della cultura e alle sue professionalità. Accanto ai tre spettacoli allestiti presso il Teatro delle Maddalene (Report della città fragile con Gigi Gherzi per la regia di Pietro Floridia, La città fragile. Seppellitemi in piedi di e con Beppe Rosso e Città dentro Città fuori – ispirato a Le città invisibili di Italo Calvino – di Stalker Teatro), Padova si animerà di performance e videoinstallazioni tra le quali il lavoro di  A2, una formazione parigina inserita all’interno del festival grazie alla collaborazione tra Tam e l’area Creatività dell’Ufficio Progetto Giovani di Padova che aderisce a un programma di mobilità internazionale di artisti e operatori culturali.

Con questa edizione di «Contrappunti», Tam Teatromusica e il Comune di Padova sembrano dialogare per dare vita a un progetto culturale che porti alla luce le potenzialità comunicative di un teatro che non sappia solo parlare, ma anche mettersi in ascolto del cittadino, chiamato a essere parte attiva all’interno del processo di costruzione dei percorsi espressivi. Un primo passo – forse – per preparare gli abitanti patavini al ritorno (accennato dallo stesso assessore Colasio) del festival «Teatri delle Mura», secondo una nuova formula di cui ancora non si conoscono i tratti. Rimane solo da sperare che – a partire dalla rassegna curata dal Tam – Padova riapra le porte delle sue mura a orizzonti di sperimentazione e (perché no) di respiro internazionale, come ci avevano abituato le direzioni artistiche di Andrea Porcheddu per lo stesso «Teatri delle Mura».

Giulia Tirelli

Intervista a Dario De Luca – Scena Verticale

Intervista a Dario De Luca / Scena Verticale – a cura di Silvia Gatto e Camilla Toso.

Lo spettacolo che avete presentato al Festival Teatri delle Mura, si intitola U Tingiutu. Un Aiace di Calabria; qual è il rapporto con il mito in questo Aiace che diventa altro?

Il rapporto nasce innanzi tutto dalla lettura: i miti sono sempre fonte di grande ispirazione. Rileggendo l’Aiace, in particolare, mi è sembrato di essere in Calabria: i dialoghi tra i guerrieri sul corpo di Aiace, la diatriba tra “Era un uomo di onore, o non lo era. Facciamolo sparire, il suo corpo non merita sepoltura”. Mi sono venuti in mente tutti i morti per lupara bianca, di cui non si sa che fine abbiano fatto. Il senso dell’onore, poi,  mi raccontava un nostro modo, che è anche della  buona Calabria, perché noi nasciamo con una grande attenzione all’onore e alla famiglia. Il crinale per passare dall’altra parte, nell’estremizzazione di questo concetto, è veramente sottile.
La strage di innocenti che compie Aiace perché non gli hanno dato le armi di Achille mi  ha ricordato tante stragi di innocenti, fatte in Calabria, per regolamenti di conti, o per errori. A Duisburg, per esempio, qualcuno era  semplicemente lì per caso, ed è stato ammazzato. È stato facile quindi pensare alla Calabria, provare a capire come attualizzare la tragedia greca, cioè come darle la stessa forza, forse anche catartica, che aveva nel quinto secolo avanti Cristo. Come poter fare il tragico oggi.

È la prima volta che ti rapporti con il mito Classico?

Sì, con i miti antichi è la prima volta, anche se, con  una trilogia Calabro-Shakespeariana, abbiamo già affrontato dei classici,  riscrivendoli completamente. È capitato nel 2000 con Hardore di Otello, Amleto ovvero cara mammina, e un secondo Amleto che era Kitsch Hamlet. Questi testi diventano funzionali  per raccontare la nostra Calabria attraverso un discorso più vasto.
L’Aiace, inoltre, offriva una struttura drammaturgica particolare. Nella scrittura sofoclea del mito, per la prima volta rispetto alle tragedie pervenute, Aiace ha dei monologhi reali, da solo. Nelle tragedie grecahe anche i lunghi monologhi sono sempre supportati dal coro – Medea, per esempio, è comunque sostenuta dal coro, che commenta e giudica. In Aiace, invece, non c’è nessuno in scena: decide di stare in un luogo da solo dopo aver capito il suo errore; non c’è il coro dei marinai – sono tutti in cerca di lui. Questo è stato, per me, un elemento fondamentale, che offriva un motivo vero, coerente, per creare questa forma monologante. Il mio Aiace, infatti, è distanziato dagli altri, è praticamente da solo, perché, pur torturando Ulisse, non gli dà  la possibilità di parlare. Mi sembrava quindi attinente dargli questa forma di monologo.

In questa vostra tragedia moderna quello che manca, rispetto  a quella antica, è la figura eroica…

Certo, non ci sono più eroi. E forse non lo erano nemmeno loro; sono entrati nell’immaginario comune per le generazioni a venire come degli eroi, come dei miti. Sono come personaggi di riferimento di qualcosa, ma in realtà facevano la guerra: erano comunque portatori di morte, come lo sono i nostri boss di oggi. Quindi questo abbassamento alla terra, renderli più grassi, meschini, cinici, arroganti e violenti, racconta una nostra mala società. Ma non penso che i mitici guerrieri greci fossero esattamente lontani da come li abbiamo dipinti noi.

Partendo dall’Aiace, come si è poi sviluppato il testo, la reinvenzione del mito e la costruzione drammaturgica?

La struttura è nata per una mia scelta, determinata da un dato di fatto: l’Aiace sanno tutti come va a finire, con la morte del protagonista. Allora mi sono domandato come spiazzare il pubblico, e la risposta che ho trovato è stata: smontiamo lo spettacolo. Spezziamo la storia come tante tessere di puzzle, le buttiamo sul tavolo e poi ognuno le ricompone a suo piacimento.  Da questo processo è nata, quasi subito, una riflessione sul cinema, con la ricostruzione a quadri che vanno avanti e indietro nel tempo. La scena iniziale è la scena finale: i primi 18 minuti dello spettacolo sono, in realtà, l’ultima scena. Iniziamo con la fine, per poi proseguire con un continuo sbalzo temporale. Stabilito ciò, tutto è stato pensato come al cinema, con un po’ di iper realismo – le pistole, il tipo di recitazione. Anche la musica è stata commissionata e composta come la colonna sonora di un film, con tappeti sonori spesso costanti sotto il nostro parlato. Ho chiesto ai musicisti di  pensare a dei temi, quello del guerriero, quello della tortura, che ritornano più volte. Proprio come nei film.
Anche le tapparelle, che calano dopo la prima scena, diventano un filtro, uno schermo cinematografico, ma non solo. In realtà il concetto iniziale era creare la quarta parete per scagliare un piccolo atto d’accusa nei confronti dello spettatore che vede la ‘ndrangheta ma fa finta di niente – la vediamo, ma attraverso le tapparelle,  e facciamo finta che non ci appartenga.
Da quando calano le tapparelle ha inizio la tragedia, c’è un cambio di cifra stilistica nello spettacolo.

A proposito di tragedia, per l’anteprima calabra è stata catartica questa messa in scena? Come i tuoi corregionali hanno accolto questo lavoro?

Credo di sì. Naturalmente ci sono maggiori deterrenti in Calabria; c’è paura che quello che stai raccontando sia duro, e faccia male. Abbiamo avuto una bellissima accoglienza calorosa, ma sentivamo che c’era un irrigidirsi del pubblico,  un desiderio di sottolineare che “non siamo tutti così. Non è solo questa la Calabria”. Qualcuno dice che c’è una Calabria produttiva – ed è verissimo; Scena Verticale fa parte di questa Calabria – ma non si può nascondere la testa sotto la sabbia. Quando abiti in quella terra inizi ad avere delle urgenze, ti nasce il bisogno di non stare sempre con la bocca chiusa; provi a dire una cosa e la dici. Forse hai il diritto di dirla proprio perché abiti in quei luoghi, non sei l’artista andato a vivere altrove.  Noi abbiano sede a Castrovillari, per cui il nostro è anche un bisogno di dire per cambiare perché questa realtà la viviamo, con le nostre famiglie, quotidianamente.

Dario de Luca – U’Tingiutu un aiace di Calabria

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In occasione della presentazione del libro U’Tingiutu un aiace di Calabria, riproponiamo l’intervista fatta a Dario De Luca sullo spettacolo andato in scena al Festival Teatri delle Mura di Padova. Questa sera la presentazione avverrà alle 18.00 nel chiostro del Protoconvento.

 

Illusioni di salvezza

Recensione a Nascita di una nazioneAccademia degli Artefatti

foto di Andrea Cravotta

foto di Andrea Cravotta

Quattro personaggi arrivano in una città devastata dalla guerra  provocata dalla loro stessa fazione. Cercato il contatto con gli abitanti, si presentano, narrando la propria storia e il modo in cui l’arte ha dato senso alle loro vite e guarito i loro traumi. Giunti di fronte alla provata cittadinanza tentano, a loro volta, di portare pace e serenità attraverso l’insegnamento dell’arte. Questa è la breve trama di Nascita di una nazione nella versione scritta da Mark Ravenhill per il ciclo Spara, trova il tesoro e scappa, composto in occasione dell’Edimburgh International Festival del 2007.
Gli attori, con disinvoltura, entrano in scena trainando ognuno il proprio trolley da viaggio. Lo spazio è estremamente semplice, solo un piano in legno a delimitare lo spazio performativo. La condizione fondamentale è la frontalità con il pubblico, che ricorda l’atmosfera delle assemblee cittadine e al contempo delle esibizioni teatrali in genere – ed in effetti riassume efficacemente l’intento di entrambi i livelli comunicativi dei personaggi: parlare ai cittadini e dimostrare la propria arte.
A caratterizzare fortemente l’Accademia degli Artefatti è la naturalezza nella recitazione, non priva di tentennamenti e balbettamenti che in alcuni casi paiono però eccessivi (soprattutto nella parte iniziale dello spettacolo che ne viene rallentata ed appesantita). Molto interessante la scelta di entrare in scena come semplici uomini che osservano l’ambiente e solo successivamente assumono il ruolo di artisti posizionandosi sotto le luci del ‘palco’.
La relazione con il pubblico è fatta di vicinanza, di relazione tanto concreta da chiedere esplicitamente risposte, gli attori in un occasione distribuiscono carta e penna, in un crescente approccio al coinvolgimento. Addirittura, quando una donna tra gli spettatori acconsente ad alzarsi, scatta spontaneo l’applauso del pubblico, che ingenuamente ignora, almeno per qualche attimo, che la coraggiosa signora sia in realtà attrice.
Estremamente apprezzabile la doppia valenza data al testo, che mantiene il filo della narrazione originale, ma sdoppia contemporaneamente il significato del linguaggio leggendone ogni parola su un piano semplicemente fattuale – spesso comico nella sua ambivalenza –  condizionando e determinando le dinamiche di relazione tra i personaggi e con gli spettatori.

foto di Andrea Cravotta
foto di Andrea Cravotta

Grande forza del testo di Ravenhill, che nel finale assume un ribaltamento amaro: la donna che gli artisti vorrebbero aiutare ha subito traumi e perdite tali che è evidentemente e tragicamente  illusiorio credere di poterla aiutare, mentre la povera donna rotola al suolo, continuando a sputare sangue, i loro occhi di artisti non vedono la realtà, ciechi di fronte una sofferenza che in quel momento dell’arte non se ne fa proprio nulla. Scena finale che quindi riesce a far evaporare in un attimo ogni teoria esposta e calorosamente approvata dagli ‘artisti’.
Bravi i quattro attori, tra i quali colpiscono in particolare le interpretazioni di Gabriele Benedetti e Pieraldo Girotto. Finale che lascia coinvolti e desiderosi che lo spettacolo possa continuare ancora, anche perché risate sentite e riscontro emotivo riescono ad emergere solo a performance ampiamente inoltrata.

Agnese Bellato

Il riscatto dell’arte

Recensione a Nascita di una NazioneAccademia degli Artefatti

foto di Andrea Cravotta

foto di Andrea Cravotta

«La vostra città è in rovina.» Esordisce così lo spettacolo Nascita di una nazione, scritto da Mark Ravenhill e portato in scena dall’Accademia degli Artefatti. Luci accese in platea, nessuna scenografia, gli attori entrano in scena come appena sbarcati dall’aeroporto. È un gruppo d’artisti occidentali appena arrivati in una città distrutta dalla guerra. Il dialogo è aperto con il pubblico, domande che non trovano risposta: si parla di responsabilità, chi ha ridotto così la città, come fare a risollevarla. La risposta è semplice: gli artisti si propongono di ricominciare dalla cultura, dall’arte, far rinascere un sentimento comune, iniziare ad esprimere per ritrovare la libertà.
Incredibilmente attuale il testo del drammaturgo inglese e intelligente la scelta di metterlo in scena da parte di Fabrizio Arcuri, regista di Accademia degli Artefatti. Nascita di una nazione fa parte di una serie di 17 frammenti teatrali basati sulla tematica della seconda Guerra del Golfo, ed ispirati ad altrettanti poemi o film famosi (tra cui La guerra dei mondi, Odissea, Le troiane, Orgoglio e pregiudizio). Nonostante il riferimento all’oriente sia chiaro, non si può non pensare all’Italia ed alla situazione culturale attuale: tagli, censure e limitazioni. Una riflessione sicuramente valida, ed un operazione drammaturgica e registica di valore.
La compagnia, ormai famosa per la ricerca di drammaturgie ipercontemporanee o post moderne che dir si voglia, compie l’ennesima azione spiazzante. La ricerca e lo studio su personaggi non personaggi coinvolge il pubblico, lasciandolo a volte disorientato, provocando reazioni diverse tra riso e perplessità. Il risultato però è garantito: la giusta sensazione di impotenza di fronte a disastri che toccano da lontano, si ripercuote sulla platea, coinvolgendola in un gioco di Voi/Noi, un rapporto attore spettatore che non lascia scampo.

foto di Andrea Cravotta
foto di Andrea Cravotta

Ancora una volta il confronto con le nuove drammaturgie provoca un sansazione destabilizzante: testi brevi, battute sintetiche, un grosso lavoro di interpretazione delle stesse parole declinate in mille sfumature diverse. Semplicità ed efficacia, rendono la regia quasi invisibile, lasciando l’opera proprio nel momento in cui sembra prendere il via. La chiusura è infatti un inizio, un’apertura concettuale verso tutto quello che potrebbe succedere se ‘la città’ iniziasse ad esprimersi attraverso l’arte. Lo spettacolo basato sull’impossibilità d’esprimersi, una stimolazione ed invito all’espressione, si chiude proprio nel momento in cui l’arte inizia a manifestarsi: «Sta succedendo». Sta succedendo?

Visto al Bastione Alicorno, Padova

Camilla Toso

Solitudini estreme

Recensione a Pop Star – di Babilonia Teatri

foto di Andrea Cravotta

foto di Andrea Cravotta

La prima regionale di Pop Star, nuovo spettacolo della compagnia Babilonia teatri, strappa ripetuti ed entusiasti applausi alla quasi totalità del pubblico del Bastione Alicorno, dove si è svolta la performance. In scena solo tre bare rigorosamente sigillate. Sulle note di Sei Ottavi (Rino Gaetano), Simone Brussa, che agli occhi degli spettatori appare alla consolle come tecnico audio, avvitatore alla mano, scoperchia le bare scoprendo tre corpi. I colori sgargianti degli eccentrici costumi ideati da Franca Piccoli, fanno da contraltare al minimalismo dell’impianto scenografico, precorrendo visivamente il clima di vorticosa follia che si imporrà da subito come tratto dominante e matrice comune dei tre personaggi.
Enrico Castellani, Valeria Raimondi e Ilaria Dalle Donne, imprigionati in una fissità che appartiene solo al rigore mortuale, snocciolano parole atone, metà in italiano e metà in dialetto veneto, tramite le quali il pubblico ricostruisce le deliranti vicende di una madre che seduce il fidanzato della figlia per impedire che lei se ne vada con lui, di una ragazza che trova nell’alcool e nella compagnia di false amicizie l’unico mezzo per fuggire alla monotonia della vita e di un giovane “sfigato” che per sentirsi qualcuno, infrantosi il sogno di diventare famoso, preda della psicosi, inizia ad uccidere.
Poi, accompagnata dalle parole di Pippo Baudo che annuncia Laura Pausini come la vincitrice del seguitissimo Festival di San Remo, una montagna di scintillanti fiori finti piove sull’essenziale scenografia di Gianni Volpe, creando un variopinto tappeto nel quale si rotoleranno euforici gli attori a fine spettacolo, in un’atmosfera da delirio collettivo.
A differenza dei precedenti spettacoli di Babilonia Teatri, costruiti sulla martellante ripetizione di parole ordinate per associazione di idee, qui ogni personaggio presenta un ritmo proprio. Si passa così dall’ incisiva e tagliente velocità di Valeria, alla tragica rassegnata lentezza di Ilaria, alle urlate peripezie di Enrico, gridate fino a rimanere quasi senza fiato. La cantilena è una forma necessaria, l’unica possibile ai protagonisti per convincersi e convincere, agli attori per richiamare una realtà drammatica e smarrita senza scadere nel patetismo o nella banalità.

foto di Andrea Cravotta
foto di Andrea Cravotta

Le costanti litanie del trio sono spezzate solo da alcuni stacchetti musicali che vedono gli attori improvvisarsi in comici balletti sexy e dissacranti. Gli inserti sonori curati da Luca Scotton, uniscono e separano, riuscendo abilmente a non far mai calare la tensione. Valeria Raimondi e Enrico Castellani firmano una regia al vetriolo, che con acume e sarcasmo porta sul palcoscenico paure e speranze di individui vittime dei propri sogni (siano essi il principe azzurro o il raggiungimento della fama), specchi della società, caratterizzati da una sconcertante incapacità di superare i propri piccoli grandi drammi personali e andare avanti.

Visto al Bastione Alicorno, Padova

Sara Furlan

Nuovo passo per i Babilonia

Recensione di Popstar – Babilonia Teatri

foto di Andrea Cravotta

foto di Andrea Cravotta

I giovani ed esplosivi Babilonia Teatri abbandonano alcuni elementi caratterizzanti del proprio lavoro per confrontarsi per la prima volta con un testo e una storia. Piuttosto che prendere una tematica, sviscerarla e analizzare in modo irriverente tutto ciò che gira intorno al mondo da loro preso in considerazione – che è per lo più l’universo del Nord Est italiano da cui provengono – Valeria Raimondi, Enrico Castellani e Ilaria Dalle Donne compiono un grande passo, iniziando anche a prendere piccole distanze da uno stile che li ha lanciati. Non sono più in tre a urlare in maniera martellante, all’unisono, rafforzando ciò che viene detto, ma, rappresentando tre diversi personaggi in scena, provano a differenziarli attraverso vari stili del loro parlato. Se Enrico urla sia verbalmente che fisicamente – dato che il suo corpo non riesce a contenere la sua agitazione -, Valeria rigetta tutte le sue parole sul pubblico in modo serratissimo, ma senza gridarlo; l’unica a cambiare quasi totalmente tendenza è Ilaria che, sempre senza alcuna intonazione, sembra recitare una litania: rallenta il ritmo e per questo andrebbe più frequentemente alternata agli interventi degli altri due interpreti.

Il dialetto veneto rimane protagonista del loro parlato, che diventa ancora più ironico e colorito nella sua quotidianità. Assente il linguaggio decostruito e rimontato in maniera divertente e allusiva che era proprio dei lavori precedenti: con Popstar lasciano più spazio alle storie delle tre identità in scena, ciascuna rinchiusa dentro una bara, che raccontano della loro personale realizzazione raggiunta solo nel momento del trapasso. I tre non rappresentano dei personaggi approfonditi: protagonisti del racconto  sono tre lettere, A, B e C, ossia una madre che fa volontariato, una figlia depressa e un serialkiller.

foto di Andrea Cravotta
foto di Andrea Cravotta

Ad unirli un destino grottesco proprio nel momento del passaggio in un aldilà poco consono ai canoni dell’immaginazione classica. Il testo totalmente spersonalizzato acquista un’ennesima potenza reinterpretato dai Babilonia, attraverso l’aiuto drammaturgico anche di Vincenzo Todeschi. I giovani veronesi creano un cortocircuito interno: rendono ancora più anonimi i personaggi, non dandogli spessore, intonazione e immobilizzandoli nella loro gestualità. il testo dei tre defunti diventa con il loro stile, ancora più surreale e straniante, raggiungendo il massimo dell’assurdità quando i tre si gettano sopra il letto di fiori finti, in terra, cantando a squarcia gola la canzone di Laura Pausini, La solitudine. Inserendo il testo irlandese di O’Rowe in un contesto italianissimo come quello del festival di San Remo si apre uno spiraglio verso qualcosa di nuovo per il loro percorso; ma che ancora deve essere rodato per non perdere troppo la carica esplosiva che li ha contraddistinti finora, che qui tende un poco a diminuire per lasciare più spazio alla narrazione della storia.

Visto al Bastione Alicorno, Padova

Carlotta Tringali

Intervista a Valeria Raimondi -Babilonia Teatri

Intervista a Valeria Raimondi di Babilonia Teatri, a cura di Camilla Toso

I vostri lavori iniziano a farsi spazio tra quelle che possiamo definire Nuove Drammaturgie, sono ricchi di materialei proveniente dai media contemporanei, usano un linguaggio diretto e  sintetico. Qual’è il tipo di ricerca che fate quando iniziate a lavorare su un testo, come trovate ed assemblate i materiali, come nasce un copione?

Noi non arriviamo mai  a provare con un copione scritto, arriviamo con tanto materiale, che può essere una canzone, una pubblicità, un testo da noi scritto, un’immagine, una suggestione, un assemblaggio. A volte fotocopiamo, prendiamo i risultati delle ricerche su google, ad esempio per la parola ITALIA, le sparpagliamo tutto su un tavolo e iniziamo ad assemblarle in una playlist. Una serie di pezzi, accostati con canzoni e telecronache registrate. E’ un lavoro di montaggio tutto fatto a tavolino, il che fa pensare al vecchio teatro a quando il regista si sedeva a tavolino con gli attori e discutevano sulle intenzioni; invece il nostro è un lavoro completamente diverso. Non c’è un lavoro di improvvisazione, su palcoscenico ma tutto il pre in cui accumuliamo parole accumuliamo immagini che è fondamentale. Il lavoro di scrittura procede di pari passo con tutto quello che succede nella scena, il tutto però deve essere provato e testato, perché usando la tecnica dell’unisono i testi devono essere detti, e quindi ciò che sulla carta può funzionare molto bene  nel momento in cui la devi dire, nel modo in cui noi diciamo le battute, la devi tagliare o ricontrollare la metrica.

Come è nato PopStar?

Inizialmente era Terminus e ci era stato commissionato da Rodolfo di Gianmarco per la sua rassegna di Teatro anglosassone. Il lavoro è partito con la suggestione di un testo di uno scrittore irlandese che però abbiamo completamente abbandonato, perché era molto lontano dal nostro immaginario. Era ambientato in Irlanda a Dublino: un testo bellissimo ma che non parlava la nostra lingua, ed era troppo letterario. A noi interessava invece parlare di quello che ci preme addosso. Questo spunto iniziale ci ha messo a confronto con una storia. Abbiamo deciso di raccontare una storia, che non ha più nulla a che fare con l’Irlanda, abbiamo abbandonato molti riferimenti iconografici di O’Rowe che non appartengono al nostro mondo, per trasportare la trama nella nostra realtà. Quindi è diventata una storia di osterie venete, in cui raccontiamo tre solitudini tipicamente  nostrane.

La vostra è una recitazione-non recitazione, che tipo di lavoro fate sull’attore?

Noi cerchiamo di non recitare, il tentativo è quello di essere veri, di trovare un modo per cui la gente ti stia ad ascoltare e creda alle cose che tu dici, ben sapendo di trovarsi a teatro. Secondo noi la recitazione tradizionale non riesce più ad arrivare a questo. Così abbiamo trovato questa possibilità del parlare all’unisono ed in un tono neutro. In PopStar questa modalità viene declinata in un modo completamente diverso, perché se negli altri spettacoli c’è questo tentativo di secchezza, in quest’ultimo lavoro, siamo riusciti veramente a creare dei personaggi. Per cui la tecnica attoriale c’è, ed è fatta di rigore e caos, precisione ed esplosione, in ogni nostro lavoro ci sono dei momenti di esplosione che cerchiamo di non codificare. Ad esempio in Made in Italy e Underwork, si lavora su blocchi di lavoro quadrati e precisi, alternati a momenti di pura follia e improvvisazione. C’è tanto allenamento e lavoro di gruppo, che è alla base dello stare in scena.

Sogni lontani

Recensione a Il Sogno – reading di e con Roberto Citran

Scritto sul finire degli anni quaranta e pubblicato nel 1962, Sogno di una cosa è il romanzo d’esordio di Pier Paolo Pasolini, che in questo esperimento narrativo descrive, a suo modo, il mondo contadino friulano dell’immediato dopoguerra.

Roberto Citran, foto di Claudia Fabris

Roberto Citran, foto di Claudia Fabris

Protagonisti sono il “Lodo De Gasperi”, la ricerca di una vita migliore emigrando all’estero, i difficili rapporti tra i due sessi, le sagre di paese dove i ragazzi si incontrano e nascono nuove amicizie e le rivendicazioni nate al fine di far rispettare una legge che stabiliva rapporti di lavoro più equi tra proprietari terrieri e contadini,
Roberto Citran porta queste situazioni in scena, facendo di Sogno di una cosa il testo da cui attingere per costruire uno spettacolo di teatro di narrazione. L’attore padovano racconta la storia di un gruppo di giovani amici che lotta contro la disoccupazione, vive le prime avventure amorose, inneggia al comunismo e non perde occasione per far festa. Un gruppo destinato a crescere, a prendere parte della propria spensieratezza, ad imbattersi negli oneri di una famiglia più o meno voluta, a scontrarsi con la pericolosità e la necessità di un lavoro che può finire con l’uccidere.
In scena solo un tavolo, due sedie e, in un angolo, illuminata, una bicicletta abbandonata. Sul tavolo una bottiglia e un bicchiere di vino. Vino che qui assurge a ruolo di collante sociale, simbolo della vita quotidiana colta nei suoi momenti più gioiosi ed elementari, come il bere e il mangiare, e di quell’aspetto di condivisione insito nella convivialità.
Mentre Citran narra le vicende di Eligio, Milio e Nini, sullo schermo alle sue spalle scorrono i video curati da Antonio Panzuto che si impongono come sfondo visivo, richiamo ai paesaggi friulani tanto amati da Pasolini. In dissolvenza incrociata si alternano immagini di lunghi fili d’erba ingialliti dal sole che ondeggiano al vento, verdi campagne delimitate dalle folte chiome degli alberi e ancora una bicicletta che percorre strade lastricate e sentieri dissestati, quasi a voler condurre il pubblico direttamente dentro la realtà di cui sta sentendo parlare.
Spettacolo ancora da rodare e tecnicamente da rafforzare, Il Sogno si presenta come un’anteprima sulla quale c’è ancora molto da lavorare. Forse cominciando da una riflessione sul perché scegliere oggi un testo come questo.

Visto al Teatro alle Maddalene, Padova

Sara Furlan

Quando Ti ho visto

Recensione a La notte poco pirma della Foresta – Claudio Longhi

Lino Guanciale, foto di Andrea Cravotta

Lino Guanciale, foto di Andrea Cravotta

Piove. La situazione è quella dell’attesa, qualche chiacchiera, le sedie sparse qua e là: certamente questo spettacolo inizia in modo inusuale. Niente palco, niente spazio scenico, se non qualche vuoto tra le sedie del pubblico. La regia di Claudio Longhi inizia attraverso un’azione sullo spettatore, prima che sull’attore o sul testo. Una riflessione sullo spazio e sul contesto, indotta dal copione: La notte poco prima della Foresta, di B.Marie Koltès nasce come monologo ma ha la struttura di un dialogo, un lungo dialogo con un interlocutore che non risponde. A parlare è quello che si potrebbe definire uno straniero, un reietto – a dargli voce da Lino Guanciale. Abiti lisi, fradicio dalla testa ai piedi, questo altro, di cui non sappiamo nemmeno il nome, cerca di stabilire subito un rapporto. Si avvicina, guarda dritto negli occhi, chiede d’accendere, sfiora alcuni spettatori in un contatto diretto e spiazzate. Coinvolge e racconta il suo mondo fatto di camere d’albergo, puttane tristi, amori notturni su ponti di città, bulli “infighettati” attaccati alla gonna della mamma. Racconta quello che non è più il suo mondo: una città divisa in zone di lavoro settimanale, zone per il divertimento, la tristezza, per il sesso e per le chiacchiere, zone del venerdì sera. Il racconto disperato si trasforma in propaganda ideologica e teorizza la formazione di un Sindacato Internazionale di Difesa.

Un avvertimento ed una preghiera, tutto vomitato addosso in una prosa vertiginosa, priva di punteggiatura ferma, un discorso fluente e senza fiato. Un testo improntato sulla necessità di comunicare, rivolto ad un interlocutore che è sempre un Tu, singolo e collettivo, a cui denunciare e chiedere aiuto. Uno specchio agghiacciante della società contemporanea, che esprime l’intimo bisogno di trovare qualcuno a cui affidare quel che si ha di più segreto.

Il linguaggio, contemporaneo e tagliente, coinvolge e colpisce immediatamente. La regia è leggera, semplice ed efficace. Lavora sul testo dall’esterno, inizialmente, agendo sulla situazione e sullo spettatore, mettendolo nella condizione di spaesamento: questo avvicinamento diventa, così, inaspettato. In un secondo momento, il lavoro si sposta all’interno del testo, mettendo in scena la pioggia di cui tanto parla il protagonista: una pioggia che è più una doccia fredda, paradigma di ciò che spetta a chi contesta ed inveisce contro il sistema: «le colombe si alzano e volano sopra il fogliame, e i soldati sparano».

foto di Andrea Cravotta
foto di Andrea Cravotta

Toccante performance di Lino Guanciale, la cui energia arriva dritta allo stomaco, colpisce e affonda per la verità e la credibilità del personaggio. A ricordare che stiamo assistendo ad uno spettacolo sono solo i piccoli inserti musicali che accompagnano la scena, accuratamente scelti ma forse inutili. Spettacolo semplice e ben riuscito, grazie ad un testo che riflette il rapporto tra attore e spettatore, un’ulteriore riflessione sulla necessità dell’uno verso l’altro, sulla necessità e importanza delle parole nella società odierna.

«…vedi compagno, io vorrei tanto  una stanza, perché qui quello che voglio dirti, non te lo posso dire..»

Camilla Toso