Claudio Longhi

Quando Ti ho visto

Recensione a La notte poco pirma della Foresta – Claudio Longhi

Lino Guanciale, foto di Andrea Cravotta

Lino Guanciale, foto di Andrea Cravotta

Piove. La situazione è quella dell’attesa, qualche chiacchiera, le sedie sparse qua e là: certamente questo spettacolo inizia in modo inusuale. Niente palco, niente spazio scenico, se non qualche vuoto tra le sedie del pubblico. La regia di Claudio Longhi inizia attraverso un’azione sullo spettatore, prima che sull’attore o sul testo. Una riflessione sullo spazio e sul contesto, indotta dal copione: La notte poco prima della Foresta, di B.Marie Koltès nasce come monologo ma ha la struttura di un dialogo, un lungo dialogo con un interlocutore che non risponde. A parlare è quello che si potrebbe definire uno straniero, un reietto – a dargli voce da Lino Guanciale. Abiti lisi, fradicio dalla testa ai piedi, questo altro, di cui non sappiamo nemmeno il nome, cerca di stabilire subito un rapporto. Si avvicina, guarda dritto negli occhi, chiede d’accendere, sfiora alcuni spettatori in un contatto diretto e spiazzate. Coinvolge e racconta il suo mondo fatto di camere d’albergo, puttane tristi, amori notturni su ponti di città, bulli “infighettati” attaccati alla gonna della mamma. Racconta quello che non è più il suo mondo: una città divisa in zone di lavoro settimanale, zone per il divertimento, la tristezza, per il sesso e per le chiacchiere, zone del venerdì sera. Il racconto disperato si trasforma in propaganda ideologica e teorizza la formazione di un Sindacato Internazionale di Difesa.

Un avvertimento ed una preghiera, tutto vomitato addosso in una prosa vertiginosa, priva di punteggiatura ferma, un discorso fluente e senza fiato. Un testo improntato sulla necessità di comunicare, rivolto ad un interlocutore che è sempre un Tu, singolo e collettivo, a cui denunciare e chiedere aiuto. Uno specchio agghiacciante della società contemporanea, che esprime l’intimo bisogno di trovare qualcuno a cui affidare quel che si ha di più segreto.

Il linguaggio, contemporaneo e tagliente, coinvolge e colpisce immediatamente. La regia è leggera, semplice ed efficace. Lavora sul testo dall’esterno, inizialmente, agendo sulla situazione e sullo spettatore, mettendolo nella condizione di spaesamento: questo avvicinamento diventa, così, inaspettato. In un secondo momento, il lavoro si sposta all’interno del testo, mettendo in scena la pioggia di cui tanto parla il protagonista: una pioggia che è più una doccia fredda, paradigma di ciò che spetta a chi contesta ed inveisce contro il sistema: «le colombe si alzano e volano sopra il fogliame, e i soldati sparano».

foto di Andrea Cravotta
foto di Andrea Cravotta

Toccante performance di Lino Guanciale, la cui energia arriva dritta allo stomaco, colpisce e affonda per la verità e la credibilità del personaggio. A ricordare che stiamo assistendo ad uno spettacolo sono solo i piccoli inserti musicali che accompagnano la scena, accuratamente scelti ma forse inutili. Spettacolo semplice e ben riuscito, grazie ad un testo che riflette il rapporto tra attore e spettatore, un’ulteriore riflessione sulla necessità dell’uno verso l’altro, sulla necessità e importanza delle parole nella società odierna.

«…vedi compagno, io vorrei tanto  una stanza, perché qui quello che voglio dirti, non te lo posso dire..»

Camilla Toso

Implorante e fradicio desiderio

Recensione a La notte poco prima della foresta – Claudio Longhi / Mimesis

foto di Andrea Cravotta

foto di Andrea Cravotta

Fatti accedere negli umidi ambienti sotterranei del Bastione Alicorno, gli spettatori giunti a vedere La notte poco prima della foresta di Bernard-Marie Koltès, prendono autonomamente una sedia e si dispongono a piacere all’interno dell’ambiente proposto. L’impronta registica di Claudio Longhi – che con questo spettacolo dà inizio al ‘Progetto Koltés’-  è fin da subito d’impatto: il pubblico seduto e in attesa, senza un palco cui convogliare gli sguardi, viene scosso da un incipit di rissa finito in una secchiata d’acqua lanciata addosso a colui che, ben presto, si capirà essere il protagonista. Il giovane ( interpretato da Lino Guanciale)  prova a spiegare, raccontarsi, abbordare un pubblico incuriosito e stupito soprattutto di trovarsi immerso nelle sue elucubrazioni vaneggianti; lo strano ragazzo si rivolge loro faccia a faccia, in una vicinanza fisica inusuale rispetto agli spazi di fruizione teatrale tradizionali. Durante il racconto, alcuni spettatori diventano interlocutori privilegiati, occhi negli occhi con il protagonista, che , al contempo, si rivolge all’intero pubblico, che si sente , quindi, interamente coinvolto dietro al “tu” che gli rivolge il giovane.

Il luogo non è l’ambientazione prevista, infatti all’originario bar all’aperto del Bastione Santa Croce è stato preferito un ambiente chiuso – immune quindi dai pericoli del maltempo sempre in agguato. Probabilmente nell’atmosfera mondana di un luogo di ritrovo in cui il pubblico è riunito in situazione di convivialità comune, ma seduto a dei tavolini a creare unità indipendenti, la relazione con quest’individuo, così istintivamente invadente, avrebbe forse avuto maggiore impatto.

Il giovane è un individuo che appare instabile, a tratti infervorato e soprattutto rapito dalla necessità di esprimere ciò che ha dentro, ma che non riesce a dire fluidamente e completamente fino alla fine. Emerge il tema del “diverso”, – ancora una volta uno straniero non voluto –  il tema dell’individualità incompresa, con un’attenzione politica al rapporto tra società e solitudini marginali che è insito nel testo scritto nel ’76 dal drammaturgo francese. Il brano, tanto divagante, vario, ma legato aripreseda stessi temi e fili conduttori, è in realtà un’unica lunga frase priva di punteggiatura,  un flusso di pensieri che riesce a contenere al suo interno racconti, mondi, relazioni, ricordi, speranze.
Dell’intenso spettacolo rimane nella memoria lo sguardo di un ragazzo che ha sete di comunicare, che ha sete di incontro: i suoi occhi sono calamite imploranti, alla ricerca di agganciare attenzione, ascolto, amore. Indimenticabili la frenesia e il costante corpo fradicio dell’attore che – a puntuali riprese – subisce cariche d’acqua che gli impediscono di asciugarsi, riportandolo ad un costante stato di inzuppamento fresco da pioggia.

Agnese Bellato