Recensione a La notte poco pirma della Foresta – Claudio Longhi
Piove. La situazione è quella dell’attesa, qualche chiacchiera, le sedie sparse qua e là: certamente questo spettacolo inizia in modo inusuale. Niente palco, niente spazio scenico, se non qualche vuoto tra le sedie del pubblico. La regia di Claudio Longhi inizia attraverso un’azione sullo spettatore, prima che sull’attore o sul testo. Una riflessione sullo spazio e sul contesto, indotta dal copione: La notte poco prima della Foresta, di B.Marie Koltès nasce come monologo ma ha la struttura di un dialogo, un lungo dialogo con un interlocutore che non risponde. A parlare è quello che si potrebbe definire uno straniero, un reietto – a dargli voce da Lino Guanciale. Abiti lisi, fradicio dalla testa ai piedi, questo altro, di cui non sappiamo nemmeno il nome, cerca di stabilire subito un rapporto. Si avvicina, guarda dritto negli occhi, chiede d’accendere, sfiora alcuni spettatori in un contatto diretto e spiazzate. Coinvolge e racconta il suo mondo fatto di camere d’albergo, puttane tristi, amori notturni su ponti di città, bulli “infighettati” attaccati alla gonna della mamma. Racconta quello che non è più il suo mondo: una città divisa in zone di lavoro settimanale, zone per il divertimento, la tristezza, per il sesso e per le chiacchiere, zone del venerdì sera. Il racconto disperato si trasforma in propaganda ideologica e teorizza la formazione di un Sindacato Internazionale di Difesa.
Un avvertimento ed una preghiera, tutto vomitato addosso in una prosa vertiginosa, priva di punteggiatura ferma, un discorso fluente e senza fiato. Un testo improntato sulla necessità di comunicare, rivolto ad un interlocutore che è sempre un Tu, singolo e collettivo, a cui denunciare e chiedere aiuto. Uno specchio agghiacciante della società contemporanea, che esprime l’intimo bisogno di trovare qualcuno a cui affidare quel che si ha di più segreto.
Il linguaggio, contemporaneo e tagliente, coinvolge e colpisce immediatamente. La regia è leggera, semplice ed efficace. Lavora sul testo dall’esterno, inizialmente, agendo sulla situazione e sullo spettatore, mettendolo nella condizione di spaesamento: questo avvicinamento diventa, così, inaspettato. In un secondo momento, il lavoro si sposta all’interno del testo, mettendo in scena la pioggia di cui tanto parla il protagonista: una pioggia che è più una doccia fredda, paradigma di ciò che spetta a chi contesta ed inveisce contro il sistema: «le colombe si alzano e volano sopra il fogliame, e i soldati sparano».
Toccante performance di Lino Guanciale, la cui energia arriva dritta allo stomaco, colpisce e affonda per la verità e la credibilità del personaggio. A ricordare che stiamo assistendo ad uno spettacolo sono solo i piccoli inserti musicali che accompagnano la scena, accuratamente scelti ma forse inutili. Spettacolo semplice e ben riuscito, grazie ad un testo che riflette il rapporto tra attore e spettatore, un’ulteriore riflessione sulla necessità dell’uno verso l’altro, sulla necessità e importanza delle parole nella società odierna.
«…vedi compagno, io vorrei tanto una stanza, perché qui quello che voglio dirti, non te lo posso dire..»
Camilla Toso