spettacoli alessio pizzech

Gli esclusi di Punta Corsara e Alessio Pizzech

La prima serata del festival si apre con due spettacoli apparentemente slegati tra loro, una tragedia e una commedia, un testo russo e uno francese. Ma i collegamenti si scoprono pian piano vedendoli in scena e poi pensandoci il giorno seguente. Entrambi sono due riscritture in chiave contemporanea di testi classici; entrambi si riferiscono al presente con rimandi precisi alla condizione dell’individuo nella società.

Il signor di Pourceaugnac - foto di Angelo Maggio

Il signor di Pourceaugnac di Punta Corsara è la riscrittura del testo di Molière, un’opera decisamente poco nota e raramente messa in scena, ma che rispetta tutti i canoni della farsa dell’autore francese: primo tra tutti la critica alla società borghese. Un ricco proprietario proveniente dalla Slovacchia arriva a Napoli per sposare la figlia di un nobile (in totale crisi economica) ma la ragazza e i suoi compari fanno di tutto per impedire il matrimonio. La città intera si ribella allo straniero, che veste in modo inusuale e che ha usanze non comuni, caratteristiche che agli occhi della società lo fanno sembrare un pazzo, un malato.
La regia di Valenti è giovane e ritmata, cura l’attenzione al particolare e lavora sulla coordinazione e ascolto del gruppo. L’impianto del testo, basato sulla città di Napoli anziché quella di Parigi, ha permesso al regista di giocare con lazzi e rimandi della commedia dell’arte napoletana, trasponendo i personaggi grotteschi al giorno d’oggi.
Spogliato dalla leggerezza e freschezza interpretativa degli attori, dalle musiche da musical (scelte con gusto e allegria), ne rimane un interessantissimo lavoro di analisi sociologica dove la città esclude e imprigiona, al contempo, il povero malcapitato.
Emerge quindi una Napoli divisa in classi ma unita contro lo straniero, il foresto, l’estraneo che tenta di penetrare questo tessuto fitto fitto fatto di consuetudini e giochi di potere. Il diverso non ha scampo in una città che vive lasciando circolare solo ciò che è già parte di essa.

Che disgrazia l'intelligenza! foto di Angelo Maggio

Un’altra società è quella che accoglie Ciaskij, il protagonista di Che disgrazia l’intelligenza! di Alessio Pizzech. Al suo rientro a Mosca, dopo anni di vita all’estero, il personaggio di Griboedov ritrova una vita totalmente ribaltata: l’amore trasformato in interesse, la stima in disprezzo, l’intelligenza in stupidità. La famiglia che aveva lasciato, le amicizie, si sono trasformate o forse è lui ad essere cambiato e a vedere con occhi nuovi quello che lo circonda: una realtà che gli va stretta, un’esistenza votata all’apatia, alla noia, alla lussuria.
Pizzech presenta questo testo dopo un anno di lavoro, un processo lungo di alleggerimento dell’0pera che ha portato il regista e gli attori a confrontarsi a più riprese con i complessi personaggi dell’autore russo.
Il testo ridotto e compresso è stato riadattato per una regia incentrata tutta sulla parola e sulla presenza dell’attore; nello spazio vuoto gli interpreti si muovono, agendo su più piani di scena e controscena – una compresenza quasi cinematografica che sembra rifarsi alla condizione del personaggio di Ciaskij: completamente immerso, sommerso da una società che non riconosce e che non lo riconosce più, un fuori casta, accusato d’essere pazzo e rivoluzionario perché colto e intelligente. Proprio la compresenza degli attori tutti in scena, perennemente attivi o iperattivi in alcuni casi, rischia di saturare la visione dello spettatore che rimane spiazzato, quasi infastidito dall’esagerazione. Tra gli attori spicca l’ottima interpretazione di Demis Marin, che avevamo già incontrato in alcuni lavori a Venezia, e che stupisce nei panni di Fàmusov un padre-padrone vecchio, perfido e lussurioso. Un lavoro che necessita di essere approfondito, di trovare il giusto equilibrio per restituire ai suoi personaggi una falsità più vera e autentica.

Visto a Primavera dei Teatri, Castrovillari

Camilla Toso

La morte ti fa donna

Foto di Omar Padilla

La morte e la solitudine: temi cari, forse ossessivi nella scrittura di Bernard-Marie Koltès, giovane autore morto nel 1989, a 41 anni. La sua opera è stata riscoperta, esplorata e portata sulle scene in Italia, come simbolo di un macabro incastro tra arte e vita, biografia e creazione. E, in un gioco inquietante di coincidenze, è proprio della morte che parla il testo ritrovato in una tasca dei suoi vestiti, incompiuto come la vita dell’autore. Coco descrive gli ultimi istanti di vita, non ancora infranta ma già sottratta, del personaggio che ha fatto delle sue spigolosità e della sua durezza una leggenda. Gabrielle Bonheur Chanel in arte Coco, sul letto di morte è sola, nella sua casa, incapace di godere di tutti i piaceri della vita di cui si era circondata. Solo Consuelo, la sua serva, le è accanto. Questo il punto da cui partono Alessio Pizzech e Dario Marconcini dell’Associazione Teatro Buti, per dialogare, servendosi della scena, sul senso della morte, della solitudine e delle gerarchie. I due registi portano sul palco due differenti letture del testo, a cui hanno lavorato separatamente, con musiche e scenografie distinte. Punto di contatto tra le due messe in scena Elena Croce e Giovanna Daddi, le due attrici che, in uno scambio schizofrenico di identità, interpretano alternativamente entrambi i ruoli, mostrandosi nella duplice veste di schiava e padrona. Un artificio che rispecchia perfettamente il gioco drammaturgico su cui Koltès costruisce il testo: laddove la vita aveva consacrato Coco come “regina”, ora la morte la relega in una condizione di umana sofferenza, difficile da accettare, ma della quale non può liberarsi, mentre Consuelo la osserva e le parla incurante delle critiche che la padrona le rivolge e del dolore che la sta divorando. Un sottile capovolgimento che i due registi portano sulla scena secondo visioni differenti. Se Pizzech vede in Consuelo un’umanità che le permette a tratti di avvicinarsi alla sua padrona, fino a farle coincidere nella stessa figura, entrambe sdraiate, entrambe con lo sguardo rivolto al pubblico, mantenendo però quella gerarchia che vede Coco sopraelevata, sul letto di morte, rispetto alla serva ancora ai suoi piedi; Marconcini relega Coco in una posizione immobile, a tratti statuaria nella sua veste bianca, mentre la sua schiava si muove libera sul palcoscenico sovrastandola e guardandola da quell’alto in basso di cui è forte chi sovrasta e prevarica.

foto di Omar Padilla

Elena Croce nella parte di Consuelo per la regia di Dario Marconcini

Scenografie di impianti opposti rispecchiano esattamente queste discordanti visioni. Per la Coco di Pizzech un letto bianco, immacolato, dietro il quale si innalza una parete che la celebra, incorniciandola come in un grottesco fotoritratto, mentre Consuelo siede ad un tavolino, immerso nel nulla, dall’altro lato del palco. Più monumentale, seppur nella sua essenzialità, l’allestimento di Marconcini, che vede due blocchi bianchi convergere in un unico punto, lo stesso dal quale Consuelo osserverà con compiaciuta freddezza la sua padrona, lasciando trapelare la sua natura di sciacallo, mentre Coco muore lentamente, sulle note e sulla ancor più straziante voce di Barbara, cantautrice francese che affianca nella storia della musica il nome di Edith Piaf.

Grazie alla bravura delle due attrici e la semplicità delle messinscene, Pizzech e Marconcini rivelano con questa doppia regia la duplice natura umana e crudele della morte, in un confronto dialettico la cui sintesi è affidata all’esperienza personale dello spettatore.

Giulia Tirelli

Visto a Estate a Radicondoli