spettacoli biennale danza

Un terzo paradiso lontano

Recensione a Babilonia – Il terzo paradiso – coreografia di Ismael Ivo

foto di Akiko Miyake

Ultimo anello di una trilogia iniziata nel 2009 con The Waste Land e proseguita l’anno scorso con Oxygen, Babilonia – Il terzo paradiso è la nuova coreografia di Ismael Ivo che si avvicina più degli altri spettacoli a un forte concettualismo.
Anche al puro astrattismo, se non è strettamente necessaria una chiave di lettura, si richiede di diffondere emozioni, regalare in maniera indiretta sensazioni, per trovare un significato di esistenza. Davanti a un quadro non figurativo, con qualità comunicanti pur nel suo apparente non-sense, il nostro corpo è a volte attraversato da vibrazioni difficilmente descrivibili e che non sempre richiedono una razionalizzazione: semplicemente veicolano impressioni grazie alle quali si comprende di essere vivi. Babilonia – Il terzo paradiso ha forse la pretesa di paragonarsi a un quadro, come sottolinea il coreografo Ismael Ivo nelle note di regia: «un percorso astratto. Di esplorazione e libertà (…). Come su una tela bianca, si incidono le immagini delle performance fatte di visioni, suoni, passioni, gesti e movimenti che si offrono alla riflessione». Il lavoro – portato in scena da 25 giovani ballerini, tutti allievi dell’Arsenale della danza, la scuola di perfezionamento diretta dallo stesso Ivo – è composto da diverse scene che purtroppo rischiano di rimanere piccoli momenti di pura esibizione di tecnica e virtuosismo, dove i ragazzi mostrano il loro alto livello qualitativo e il loro consapevole utilizzo del corpo. Entra prepotentemente nello spettacolo, seppur in un breve momento, anche la parola: alla Babilonia danzante si aggiunge così una Babilonia linguistica come da manuale. Ecco che l’astrattismo segue, in alcuni punti, una schematicità didascalica, data non solo dalle frasi pronunciate in lingue differenti, ma anche dalla scelta di separare gli uomini dalle donne in alcune delle coreografie proposte e di lasciare che i loro corpi si connotino di una forte sessualità conforme agli stereotipi tanto combattuti nella danza contemporanea. E una volta lasciata da parte la rigorosa schematicità tornano continuamente i momenti sconnessi tra loro. I ballerini entrano ed escono dal palco dando vita a immagini molto differenti tra loro, spaziando dal balletto a movimenti meno convenzionali e attraenti, a tentativi registici di rendere un’atmosfera onirica – come il ballerino dalla testa di cavallo che più volte appare in scena, o uno specchio con cui una danzatrice tenta una interazione . Seppur curate nei movimenti, queste immagini vengono lanciate come fossero dei sassi piatti in mezzo al mare: ma chi coordina l’azione non riesce a far saltare più di una volta la stessa pietra sulla superficie dell’acqua perché sprofonda immediatamente. Rimane forte l’assenza di un legame che unisca queste piccole esibizioni e le faccia esistere e sopravvivere nel tempo, anche se solo in quello mentale. Le stesse musiche, parte integrante di tutta Babilonia, non aiutano lo spettacolo a essere coerente: regalano frammenti di leggiadra poesia le bellissime melodie barocche di Sacrificium interpretate dalla potentissima voce di Cecilia Bartoli e associate ai corpi danzanti; ma allo stesso tempo fanno rimanere perplessi se accostate a suoni mistici e distorti che in alcuni momenti interromponol’atmosfera secentesca ricreata per tentare di portare lo spettatore in una sospensione misteriosa. Sospensione suggestiva solo inizialmente su un palco attraversato da una folta nebbia dove delle pareti bianche altissime circoscrivono un interno non facilmente riconducibile a un luogo: uno spazio vuoto in cui dei corpi corrono per poi cadere e diventare un unico ammasso significante. Nell’atmosfera rarefatta – ricorda per certi versi Tristi tropici di Virgilio Sieni dove in una sorta di atemporalità apparivano corpi come provenissero da un aldilà – i ballerini rendono vibrante lo spazio, lo attraversano e lo squarciano. Dopo un inizio promettente si cade però da quel terzo paradiso promesso e si scende verso un limbo dove i corpi si fronteggiano nel tentativo di risalire verso l’alto; solo nelle ultime scene ritrovano la giusta via: con l’utilizzo di tavoli, i ballerini creano delle coreografie più convincenti, destreggiandosi tra fermo-immagine a effetto – come moderni apostoli di un’ipotetica ultima cena danzante – e regalando composizioni e movimenti che si intrecciano in una danza ben amalgamata.  Ma non bastano questi momenti per raggiungere quel paradiso cercato: esso rimane un miraggio ancora lontano.

Visto al Teatro Malibran, Venezia

Carlotta Tringali

Lo spessore della stratificazione

Recensione a cut-outs & trees Cristina Caprioli / ccap

ccap - Biennale di Venezia

Frammenti. Parti di un insieme che non è più possibile ricomporre. Parzialità che assumono valore di interi di per sé e che, se accostati ad altri, consentono la creazione di una nuova totalità. A ruotare attorno a questa idea di frammentarietà è cut-outs & trees, la nuova creazione di Cristina Caprioli, presentata in prima assoluta al 7. Festival Internazionale di Danza Contemporanea e nata dal progetto ENPARTS (European Network of Performing Arts), il programma quinquiennale (2007-2013) avviato dalla Biennale di Venezia in collaborazione con festival e istituzioni europee quali Dance Umbrella di Londra, il Berliner Festspiele e il Dansens Hus di Stoccolma, che ha coprodotto quest’anno i lavori di Cristina Caprioli e di Virgilio Sieni.

L’ampio e vuoto spazio del Teatro alle Tese si è prestato a diventare, come spiega la Caprioli, «un bosco pieno di fogliame, di forme, di passati e di pensieri». Una moquette grigia, disposta lungo il perimetro del palco (una pedana rettangolare leggermente rialzata dal pavimento), si fa seduta per gli spettatori, liberi allo stesso tempo di sostare o muoversi per scegliere la propria visione. Al soffitto, un ingranaggio di corde e cantinelle, consente lo scorrimento di lunghe strisce bianche in pvc forellato. La disposizione ritmica regolare di questi filamenti crea un’alternanza di pieni e vuoti perfettamente in linea con il principio di frammentarietà delle immagini che vi vengono proiettate: “trees” intesi come diramazioni in alto e basso, complicazioni e ritagli. Il “cut-out” coreografico di Caprioli si arricchisce, infatti, del lavoro video del programmatore digitale Panajotis Michalatos e dello scenografo e light designer Jens Sethzman, una collaborazione tesa a identificare una relazione tra la stratificazione reale e virtuale, idea concettualmente accativante ma che ha corso il rischio, in alcuni momenti dello spettacolo, di costringere i diversi linguaggi a procedere su due binari paralleli senza mai intrecciarsi.

Lo spazio, per la coreografa e teorica italiana ma di adozione svedese, non può più essere inteso come superficie piatta e luogo da riempire, ma va concepito come spazio concreto che si somma al corpo coreografato. La densità di questa scena consente di adoperare uno sfilacciamento e una distorsione della visione al fine di provocare nel corpo nuove forme slegate da un controllo ontologico. Per parlare della stratificazione corporea, la Caprioli ha creato una partitura coreografica (su musiche di Alva Noto) per sei danzatrici della sua compagnia ccap di Stoccolma, partitura apparentemente alogica ma estremamente pulita, che sviluppa, tramite ripetizioni e sovrapposizioni, sequenze suggestive e a volte disorientanti. La molteplicità di livelli spazio-temporali ha messo in evidenza bellissime dilatazioni gestuali e la scenografia ha stimolato lo spettatore a porgere attenzione al dettaglio, al ritaglio scelto liberamente senza alcuna imposizione registica.

La poco svillupata comunicazione tra i diversi linguaggi artistici presenti in cut-outs & trees ha riacquisito il suo valore di interazione nel momento in cui, a fine rappresentazione, la scena di Cristina Caprioli si è fatta choreographic object e gli spettatori, incuriositi, si sono intrufolati all’interno della visionaria foresta.

Visto al Teatro alle Tese, Venezia

Elena Conti