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La drammaturgia fuori dall’Italia

Cormann, Carpinato, Carpi e Ruperti

Non è facile parlare oggi di drammaturgia contemporanea, soprattutto se si pensa al mondo che ci circonda, che affronta ogni giorno problemi sociali ed economici legati a una crisi che ci pervade e che sembra far passare in secondo piano il teatro, che vive momenti di avversità. Ma la difficoltà di un’analisi approfondita risiede forse nel dover riflettere sul presente, per cui è necessaria a volte una certa distanza che purtroppo solo il passare del tempo permette. Alcuni studiosi, accademici e scrittori stessi, hanno provato ad analizzare le diverse scene teatrali che si presentano in Europa e in Oriente.

La tradizione teatrale che pervade il Giappone è ancora carica di spessore e importanza, tanto da caratterizzare un presente che non può disfarsi di un patrimonio antico e prezioso. Il professore di Lingua e Letteratura Giapponese Bonaventura Ruperti ha spiegato come il Nō, il Kyōgen, il Kabuki e il teatro dei burattini – il cosiddetto Bunraku – siano diventati con il tempo patrimonio dell’Unesco e si siano evoluti nell’epoca moderna in forme come lo Shingeki, ispirato al modello occidentale, e lo Shimpa. La bellezza di questa tradizione è nel forte legame tra testo spettacolare, che si è tramandato con il tempo, e le tecniche del linguaggio del corpo (dato dalla danza e dai costumi): la forte interazione tra parola e gesto rende il teatro “totale”. Oggi il teatro giapponese non ha fondi statali, a parte gli spazi che vengono concessi in gestione: ma questo non blocca le rappresentazioni, che, anzi, vengono anche proposte nel mondo occidentale, con tanto di sottotitoli e testi che appartengono alla scena europea, come i drammi shakespeariani.

Kleist e Büchner sono stati invece gli autori da cui è partita Anna Maria Carpi per tracciare un breve ritratto della scena tedesca: la docente ha infatti riflettuto sulla sensibilità e l’interesse dei tedeschi per la classicità. Se Kleist scriveva in versi ed era più legato ad Aristotele e a un mondo arcaico, con Büchner si ha una svolta: la prosa caratterizzava il suo stile e il presente era ciò che lo interessava. Ma nella seconda metà del ‘900 troviamo autori che ritornano alla classicità, drammaturghi della Germania dell’Est come per esempio Christa Wolf, scrittrice che lavora sulla “grecità”, o come il noto Heiner Müller che riprende il costume greco-romano per parlare di attualità.

Se i tedeschi si rifanno alla “grecità”, interessante è invece notare come le popolazioni elleniche rimandino a riferimenti occidentali, fino al teatro veneziano. La docente di Lingua e Letteratura Neogreca Caterina Carpinato ha sottolineato come le opere teatrali veneziane venissero rielaborate in maniera originale. Le varie isole greche hanno vissuto direttamente queste influenze, ma solo negli ultimi vent’anni si è sviluppato un interesse per quella che è stata definita letteratura “neogreca”, che si concentra sullo specifico socio-culturale ed estetico del Paese. A partire dal ‘900 si è manifestata l’esigenza di tradurre opere classiche in una lingua moderna, volgare. La perplessità, la riluttanza e financo le rivolte nei confronti di questo tipo di operazioni sono innumerevoli e diffuse, in quanto la Grecia classica era legata a un certo, notissimo, ideale, che nelle nuove traduzioni sembrava screditato. Non c’erano più gli eroi mitici in cui tanti europei d’Occidente hanno voluto riconoscersi. Oggi la scena è cambiata e in Grecia è possibile trovare il doppio di sale teatrali che a Roma:  dato indicativo di una vitalità scenica e di un’attenzione vivace, anche in relazione all’interesse nel mettere in scena non solo drammaturgie, ma anche testi non nati per il teatro.

Franco Farina ed Enzo Cormann

La Francia ha avuto il suo rappresentante in Enzo Cormann, romanziere e drammaturgo emblematico della scena contemporanea. Ultimo relatore della giornata – conclusasi con la lettura curata dall’Associazione Questa Nave, del testo Cairns da lui firmato – il dramaturg ha sottolineato come la scrittura teatrale abbia avuto momenti di crisi dovuti a due motivi. Il primo parte dallo stesso concetto di “messinscena”: senso e forma, dopo il punto di non ritorno del silenzio beckettiano, dovevano essere rinnovate da un gesto frivolo come quello di scrivere un dramma. Un malessere culturale che coincideva con un malessere istituzionale, ma soprattutto estetico. Se tra gli autori contemporanei più significativi Koltès è stato portato in scena grandi registi, Lagarce non è stato altrettanto fortunato: se il celebre drammaturgo non si fosse preso in carico egli stesso l’allestimento dei propri testi, forse oggi sarebbe sconosciuto a più. Ed è proprio Lagarce a rompere un tabù: oggi anche i più grandi autori francofono firmano la regia dei propri scritti, nel contesto di quella innovativa tradizione recente soprattutto francese che porta originalmente a coincidere autore e regista dello spettacolo. In secondo luogo, sempre nella prospettiva di individuare le ragioni della attuale crisi drammaturgica, Cormann segnala difficoltà di combattere il cosiddetto “nemico aristotelico”: c’era un’estenuazione della forma a cui sembrava non esistere un’alternativa. In chiusura Cormann accompagna il pubblico attraverso due categorie della drammaturgia francese: la prima viene definita dei “neoparabolisti”, testi in cui c’è una particolare attenzione alla parabola, ma senza una vera univocità del testo; la seconda è quella dei “neoverbalisti” in cui si torna indietro, a un teatro che è parola.

Carlotta Tringali

Trasformazioni d’Occidente: scena e società

Partendo dalla cultura greca, ossia quella che ha fondato la teatralità occidentale, Roberto Tessari segnala come la relazione fra scena e società sia sempre risultata fondante: è Plutarco il caso esemplare citato dallo studioso, che, nei panni di Solone (personaggio a cui Plutarco affidava la prospettiva dell’uomo politico, del legislatore), racconta la nascita del teatro e, attraverso i temi legati alla finzione, si concentra sulle possibilità del debordamento del fatto teatrale nella vita quotidiana, nella politica, nella società. In questo passaggio – che, alla base della cultura teatrale occidentale, segna il passaggio dal rito ad una realtà estetica – emerge con evidenza tutta la problematicità dei rapporti fra teatro e società e delle loro reciproche contaminazioni, dal teatro dei gesuiti alle radici del Marat/Sade all’animazione teatrale, dagli studi di Mircea Eliade sullo sciamanesimo a Grotowski, Piscator e Kantor. Il teatro implica, dunque, da sempre, enormi potenzialità di trasformazione dell’individuo (che lo agisce e che lo vede): è un’idea contenuta nella catarsi aristotelica, ma anche in tutte quelle pratiche non teatrali che hanno considerato indispensabili le tecniche attoriali. Prezioso eppure pericolosissimo, emarginato dalla politica ma sempre utilizzato, il teatro è uno spazio o un momento in cui la finzione può intervenire considerevolmente sulle persone che vi partecipano. In questo contesto Tessari porta l’attenzione su una forma di teatro politico, fino a poco tempo fa accusata di eccessivo formalismo, capace di concentrarsi sulle forme di comunicazione fra scena e platea e di coniugare così i contenuti ad una ricerca estetica, che forse oggi sarebbe utile, se non doveroso, riprendersi in carico: non un teatro vicino a quella “mitologia dello straniamento” tutta italiana che ha importato Brecht nel nostro Paese, ma un teatro “che renda di nuovo strano ciò che è concreto”, nella prospettiva di un rinnovamento e di un nuovo consolidamento dei rapporti fra teatro e società.
Gerardo Guccini indaga, in una prospettiva di intreccio e comparazione, continuità e divergenze fra la scrittura teatrale italiana e quelle europee. Ma quello che lo studioso stesso definisce un “luogo” (piuttosto che un contributo o una lezione) dove si confronteranno i diversi caratteri della drammaturgia contemporanea, necessita di una premessa ad hoc per il caso italiano: a differenza degli altri Paesi europei in cui il ’68 dura al massimo un anno (e infatti se ne parla in termini di mesi o di stagioni), in Italia esso si prolunga per un decennio intero, dando luogo a quella “tradizione dell’innovazione”, come la chiamava Leo de Berardinis, che dilata le esperienze della sperimentazione dell’utopia e permette un radicamento (anche e innanzitutto materiale) nel nostro Paese di quelle esperienze teatrali della neoavanguardia– Grotowski, il Living e Barba – che nel resto d’Europa hanno vissuto, appunto, soltanto una stagione e che invece qui hanno trovato un luogo di rifugio e di continuità per le loro ricerche. In questo contesto del tutto peculiare si colloca la drammaturgia italiana contemporanea, perciò difficilmente avvicinabile, pur nei punti di prossimità alle coeve esperienze europee: la scrittura per il teatro, ad esempio, consiste più in una “drammaturgia dei corpi”, come la definì Annibale Ruccello, che in un vero e proprio ritorno al testo in senso convenzionale. A fianco a tale particolarità si collocano anche evidenti punti di avvicinamento, come la centralità dell’elemento relazionale (che non trova nella messinscena solo un momento di verifica, ma, anzi, l’innesco del proprio farsi parola) e il problema delle origini (che in Italia si riscontra nel diffuso uso dei dialetti), così come nella recente attenzione per il teatro di narrazione.
A Maria Teresa De Gregorio il compito di un affondo specifico sul caso della lingua veneta in teatro: in un vario e denso panorama di esperienze che spazia dalla nascita di tale lingua, con Ruzante e Goldoni, fino alle sue sperimentazioni novecentesche e contemporanee, la De Gregorio compone un’agile mappatura del passato e del presente della lingua teatrale veneta, fra scena e platea, anche aprendo confronti, sul frangente del contemporaneo, con altre esperienze eccellenti del teatro italiano, come il caso di Emma Dante e il nuovo teatro napoletano. La studiosa, nei suoi efficaci attraversamenti, si sofferma un momento in più su quel caso esemplare di teatro a Nordest che è Babilonia Teatri, ormai celebrato ensemble a livello nazionale, capace di coniugare italiano e veneto, rinnovando in modo del tutto originale le potenzialità di una lingua, il nostro dialetto, sempre teatrale per eccellenza.
I preziosissimi interventi si incontrano, oltre che nelle loro esposizioni, alla fine della mattinata, in un momento dedicato al dibattito e al confronto: Guccini riflette sul teatro di narrazione, notando come al principio di rappresentazione, da sempre legato al teatro, si sia andato sostituendo un principio di “nominazione”, per cui questo linguaggio è capace di creare un’omogeneità di luogo che pone scena e platea come parte di una stessa realtà. Tessari evidenzia come la funzione del teatro di narrazione non sia, dunque, quella di trasformare la realtà, rappresentandola, come avveniva nella scena tradizionale (sostituendo un altro reale al reale), ma che si tratti piuttosto di presentazione e, dunque, di svelamento: un teatro “che ti rende partecipe dell’atto teatrale, ti mette in crisi, ti modifica” – andando appunto a provocare quella crisi, nello spettatore, attraverso cui è possibile rispondere alle altre crisi del teatro e della società, citate dal titolo della rassegna.

Roberta Ferraresi

Così lontano così vicini /1

Daniele Timpano (foto di Andrea Chesi)

Artisti al convegno di Teatro in Tempo di Crisi

Daniele Timpano, giovane autore-attore romano, ha abituato il pubblico a curiose performances, in cui certo, la parola è al centro dello sviluppo drammatico, ma non si tratta di testi tradizionali: quella di Timpano – dalla grande Storia in Dux in scatola, alla saga popolare di Mazinga in Ecce robot! – esiste e vive in scena esclusivamente in quanto parola incarnata. I suoi sono testi composti a partire da frammenti (documentari o biografici, in un intenso intreccio in cui è impossibile distinguere pubblico e privato), esplosi, re-impastati, riassemblati e cuciti addosso all’interprete, che è anche ideatore e autore dei suoi spettacoli, all’insegna di una lunga tradizione d’attore-artista tutta italiana. Anche Giuliana Musso, giovane eccellenza del teatro del Nordest, prende in carico l’autorialità, assieme all’interpretazione dei suoi spettacoli. E, anche se in maniera del tutto diversa da Timpano, nei suoi lavori si intravvede, similmente, una particolare predilezione verso il reale. Qui come altrove, dopo tanti anni di post-teatro, non si tratta di una relazione quieta e lineare, ma negli spettacoli della Musso la realtà irrompe con forza, conducendo lo spettatore a confrontarsi con temi-tabù del contemporaneo, che spesso vengono accantonati dalla quotidianità, come la morte in Tanti saluti o la prostituzione nel recente Sexmachine. Per chi segue il lavoro di Anagoor, ensemble emergente di Castelfranco Veneto (segnalazione speciale Premio Scenario 2009), la loro presenza, a un convegno di drammaturgia, può sembrare strana: negli spettacoli più visti, infatti, non c’è traccia di drammaturgia tradizionale, di dialoghi e di battute, e men che meno di quelle unità drammatiche che furono e sono canoni per tanta scrittura occidentale. Teatro immagine – si direbbe, con una formula ormai un po’ antica – in cui, quasi, non si fa parola. Ma la stratificazione della ricerca di Anagoor, così complessa, ampia e trasversale, seppur ricondotta in scena soprattutto attraverso la potenza delle immagini, non ha molto a che vedere con quelle esperienze teatrali in cui si proponevano carrellate di visioni connesse tramite l’unicità della poetica dell’autore. Anzi: il lavoro di questa giovane compagnia è fortemente radicato nella realtà (senza per altro dimenticare l’intensa attività di promozione e diffusione teatrale sul territorio di cui sono promotori) e sembra, più che altro, tentare di entrare in contatto col passato comune e provare a restituirlo, in varie forme, alla memoria collettiva degli spettatori. Anche il lavoro di Oscar De Summa, fra i più interessanti autori-registi-interpreti della sua generazione, si colloca in un percorso di riscoperta e di riproposizione di un canone: se in Timpano e nella Musso è l’autore-attore, mentre negli Anagoor la potenza visiva dell’immaginario collettivo, in De Summa si trova, negli ultimi lavori, una ricerca rigorosissima intorno ai pilastri della cultura occidentale, soprattutto Shakespeare.

Anagoor

Scene in frantumi, prospettive caleidoscopiche, ricerca sulla soggettività interpretante – non sono soltanto questi spunti estetici ad avvicinare naturalmente i percorsi di alcuni artisti di quella generazione che ha vissuto, ad esempio, l’avvento dei social network, della tecnologia digitale e delle soap-opera di seconda generazione. Quello che portano in comune queste diverse poetiche ed estetiche, così lontante eppure così vicine fra loro, non è nemmeno solo l’impossibilità di essere avvicinate a un canone teatrale (passato, presente, futuro) riconoscibile: non è teatro di narrazione quello di Timpano e della Musso, non è regia critica quella di De Summa e non si tratta di teatro-immagine per Anagoor. O almeno, non solo. Tutti vivono di un particolare rapporto nei confronti del reale. Si potrebbe parlare di post-realismo, di materialismo esploso – le definizioni si sprecano e stanno sempre strette. In ogni caso si tratta di creazioni composte a partire (e per) interpreti specifici, sbozzate e concretizzate su di loro (e in alcuni casi la scrittura si contamina anche direttamente con l’improvvisazione e la ricerca performativa),

Oscar De Summa

anche se questo non implica che non possano essere assunte e rappresentate da altri. E, come in risposta alle accuse apocalittiche di Baudrillard, sembrano offrire una seconda chanche al mondo attuale in cui tutto è virtualizzato: se la televisione ha ucciso la realtà (questo teorizzava il celebre filosofo francese negli anni Ottanta, proprio mentre questi giovani artisti crescevano e si formavano) e il cinema ha surclassato la teatralità, forse, allora, è compito del teatro prendersi in carico la ricostruzione possibile del rapporto dell’uomo con il reale, al di qua e al di là della scena, tanto nel processo compositivo che nella scelta delle tematiche e dei dispositivi drammaturgici. Non si può dire se sia per queste ragioni che la parola sta tornando (tanto negli spettacoli, quantonegli studi) al centro del dibattito sulla performatività. Però è indiscutibile un particolare momento per il teatro contemporaneo, soprattutto a Nordest (ma non solo). E in questo è possibile intravvedere l’individuazione, del tutto empirica e varia, di un nuovo ruolo per lo spettacolo dal vivo che, a quanto pare, forse può funzionare.

Roberta Ferraresi

Mafia: istruzioni per l’uso

Recensione a Parole d’Onore – di Attilio Bolzoni, con Marco Gambino

foto di Alvise Nicoletti

Mai come in questo caso dire che Marco Gambino ha recitato le Parole d’Onore raccolte dal giornalista Attilio Bolzoni sembra appropriato; perché recitare significa citare di nuovo: frammenti di dichiarazioni, interviste, frasi urlate o dette a mezza voce dai mafiosi compongono la partitura drammaturgica di uno spettacolo toccante e necessario.

In scena solo lui, vestito di nero; come supporto una sedia e la sua bravura, che gli consente di scivolare da un personaggio all’altro attraverso minuziosi cambiamenti di postura, gesticolazione, mimica e voce. E i protagonisti sono loro, gli uomini d’onore, i mafiosi, perché, spiega l’autore del testo, «chi meglio di loro può raccontare il loro mondo?». Eccoli tutti lì, questi mafiosi, con i loro folli moti d’orgoglio, le loro regole, teorie, i loro codici: una carrellata che ricostruisce, con perizia giornalistica e poesia drammaturgica, quel viaggio intrapreso da Bolzoni in questa incredibile realtà, la mafia, che vive e si nutre dell’ombra.  Portarla alla luce – dei riflettori, ma soprattutto delle coscienze degli spettatori – è il primo atto, civile e sociale, per far nascere finalmente in Italia una vera cultura anti-mafia, che, nonostante le stragi, le estorsioni, i crimini, tarda ancora ad affermarsi. Un lavoro intenso, una sintesi impietosa ed antieroica – perché di eroico hanno ben poco – che restituisce a questi uomini d’onore la loro vera immagine: personaggi abietti, anche insignificanti seppur potenti, insensati al limite della pazzia in quanto totalmente sommersi in un mondo altro, con regole e riti precisi, impegnati a decantare virtù e moralità senza conoscere il significato di queste parole.

Qualcuno, magari anche famoso, addirittura un Capo di Governo ipotizziamo, potrebbe pensare che Parole d’Onore offra una cattiva immagine del nostro Bel Paese, facendo addirittura pubblicità alla mafia.  Ma è proprio del “non parlarne”, del fare finta che non esiste che questo fenomeno criminale si è continuamente alimentato. E lo spettacolo non solo ricorda gli anni in cui erano in molti a giurare che la mafia non esisteva (dando magari definizioni colorite a questo termine: una marca di formaggi, un detersivo…) ma soprattutto dimostra quanto, invece, le persone vogliano saperne, parlarne, capirla. Il fervido e intenso dibattito che è scaturito tra pubblico e artisti alla fine della replica veneziana – per la rassegna Settimana di Drammaturgia Contemporanea – ne è una prova lampante.
Domande, considerazioni, testimonianze hanno ulteriormente arricchito di senso la serata confermando che Parole d’Onore aveva colpito nel segno: uno spettacolo al contempo freddo e straziante – perché in scena c’è un’umanità viva, reale, presente e orribile – che ha saputo accendere la curiosità ed un pensiero attivo nel pubblico, e di fronte a una prova così schiacciante non si può non rendergliene merito.

Visto al Teatro G.Poli, Venezia

La galleria delle immagini di Parole d’Onore saranno on-line a partire dal 26 aprile.

Silvia Gatto

Riflessioni sul linguaggio

Se, spesso, ogni testo letterario racchiude in sé una riflessione sul linguaggio stesso, ciò vale ancora di più per un testo teatrale, in quanto meditato e composto per divenire parola detta, che vive dell’immediatezza effimera della messa in scena ma, anche, di una forza potenziata dall’enunciazione. Per la drammaturgia, quindi, questa riflessione è ancor più legata al potere del linguaggio, e non può tralasciare, in questo suo intrinseco ragionamento, il rapporto con il pubblico.

In linea con queste considerazioni, importanti contributi sono stati elaborati in seno alla produzione drammaturgica spagnola, che a buon diritto occupa un ruolo di rilievo anche nella programmazione della Settimana di Drammaturgia Contemporanea  – Il teatro in tempo di crisi, che prevede infatti, tra gli altri, la presenza di José Sanchis Sinisterra (fondatore nel ’77 a Barcellona del gruppo sperimentale Teatro Fronterizo, autore, critico e studioso), Juan Mayorga (con la messa in scena da parte di VeneziaInScena del suo Il ragazzo dell’ultimo banco) e di Beth Escudé (autrice di Aurora De Collata, uno degli spettacoli in cartellone della rassegna).

Autori che hanno elaborato interessanti ed originali strategie drammatiche, volte alla costruzione di un rinnovato rapporto con il pubblico ma aperte, anche, a riflessioni metalinguistiche dal più ampio respiro filosofico che affondano le loro radici nella ormai millenaria discussione sul linguaggio umano. A partire da Socrate, esso è stato scarnificato, studiato, smascherato nelle sue capacità demagogiche, nelle sue più pericolose potenzialità, e nel suo più ontologico paradosso: in questa analisi oggetto e mezzo coincidono inevitabilmente. Un teatro in grado di coniugarsi con la filosofia alla ricerca di una riflessione più profonda e consapevole sul linguaggio; un teatro, quindi, capace di rendere concreto l’astratto, facendo leva sulle caratteristiche dialettiche che gli sono proprie per presentare la complessità senza aver bisogno di semplificazioni.

Non si tratta mai di considerazioni autoreferenziali, ma di riflessioni interne al lavoro autoriale in vista di una messa in scena pubblica: per instaurare un nuovo rapporto con lo spettatore, per attivare in esso processi creativi, attivi e produttivi; affinché divenga in grado di completare il testo liberamente, di trasformarlo, di “digerirlo”. Come racconta Sinisterra in un’intervista di pochi anni fa: «Per me il teatro deve esprimere quello che la parola non dice. Ci deve essere spazio per la “attivazione del ricettore”, deve essere stimolata la capacità del pubblico di interpretare e di diventare coautore. Mi interessa cioè che ci sia una lettura diversa da parte di ogni spettatore, in modo che l’opera prosegua dopo la sua messa in scena».

Qui il carattere eminentemente politico del teatro, nel senso più ampio e positivo del termine (perché, direbbe Mayorga è «un’arte della comunità, un’arte che fa società, che fa tessuto») si esprime alla massima potenza, e trova proprio nel linguaggio e nel suo uso drammaturgico il veicolo principale, in quanto strumento di disvelamento del potere del linguaggio stesso, e quindi di prevenzione da facili ipnosi comunicative. Un uso della parola che vuole aprire la mente di chi la ascolta, e non saturarla: per lasciare libero il pubblico di meditare, riflettere, elaborare ed allenare quel pensiero critico che sta alla base della vera Democrazia.

 

Silvia Gatto

Riflessioni etiche attraverso testi contemporanei

In un mondo che corre rapsodicamente verso il fare, il produrre e il crescere, senza soffermarsi troppo a riflettere su quello che accade, ci sono degli scrittori che, in controtendenza, assumono su loro stessi la responsabilità di una società sempre più impermeabile e indifferente. Scrittori che cercano di raccontare la loro – e la nostra – realtà, analizzando con un’accuratezza magistrale ciò che ci circonda. Temi e problematiche attuali che diventano spesso universali, abbattendo limiti temporali e spaziali: non restano circoscritti in un periodo preciso, ma si spingono oltre, mettendo l’uomo in condizione di doversi interrogare  sul proprio ‘essere’ in un presente tormentato.

Roberto Scarpa

Roberto Scarpa

Per fortuna questi signori esistono. E l’altra fortuna è che alcuni si dedicano al teatro, scrivendo delle pièce nuove, portando la drammaturgia a una contemporaneità da scoprire e indagare. La necessità di scrivere indagando in modo più approfondito un argomento o una condizione si essere, è spesso ciò che accomuna questi uomini: è un’urgenza, è il richiamo di una parola che chiede di essere scritta e in seguito pronunciata e ascoltata.

Per questo il teatro diventa un posto in cui riflettere, in cui ci si può soffermare a pensare, almeno per qualche attimo in mezzo alla frenetica vita quotidiana.

Molti sono i drammaturghi che popolano oggi la scena europea e non solo: proprio di questo se ne occupa la rassegna Il Teatro in tempo di crisi in cui diversi studiosi si confronteranno per analizzare che cosa si sta muovendo nelle diverse aree del mondo. E di drammaturgia non se ne parlerà soltanto, dato che verranno messi in scena ben quattro testi contemporanei, in cui si toccheranno temi differenti che parlano di noi, del nostro presente. La mafia e l’utopia di poter regalare una condizione migliore ai lavoratori delle fabbriche sono le questioni affrontate da drammaturghi italiani: Parole d’onore del giornalista Attilio Bolzoni e Sogni d’oro. La favola di Adriano Olivetti di Roberto Scarpa.

Juan Mayorga

Movimentata è la scena spagnola: saranno infatti ben due le drammaturgie presentate dalla manifestazione. Beth Escudé e Juan Mayorga riflettono su questioni etiche come la violenza dell’uomo sulla donna e il degrado del livello culturale della scuola e della morale borghese “progressista”.

Entrambi gli scrittori utilizzano però una formula innovativa, come può essere la particolare storia di Aurora De Collata in cui una donna si interroga sul significato della propria esistenza una volta morta, o Il ragazzo dell’ultimo banco che applica una ricerca formale sperimentando una scrittura frantumata, come del resto è la nostra realtà.

Quattro pièce per riflettere sulla nostra contemporaneità, su quello che ci circonda e su noi stessi. Per non lasciarsi travolgere inconsapevolmente dalla vita ma per, almeno una volta, interrogarla.

Carlotta Tringali