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Sovvertire la cultura. Intervista a S.a.L.E. Docks

Da pochi giorni si è chiuso l’ennesimo carnevale veneziano, il periodo dell’anno in cui più di ogni altro la città si rivela inerme e stanca. Pochi giorni prima che l’appuntamento entrasse nella sua fase calda abbiamo incontrato, in una raccolta osteria di Campo Santa Margherita, Valeria Mancinelli e Roberta Da Soller, curatrici rispettivamente di arti visive e arti sceniche, entrambe attivamente impegnate nella programmazione di S.a.L.E Docks, realtà indipendente e ambiente creativamente critico del panorama culturale veneziano. Un’occasione per discutere di produzione culturale, di alternative metodologiche e di rapporto tra arte, cultura e città.

I nove Magazzini del Sale, edificati nel 1400 e adibiti a deposito dell’antico “oro bianco”, sono un luogo storico della città lagunare. Nel 2007 ne avete occupati due. Quali ragioni e desideri vi hanno spinto a scegliere questi spazi?
Valeria: L’esperienza di occupazione dei Magazzini del Sale è figlia di una lunga attività sociale e politica del Morion, il centro sociale di Venezia, da cui provenivano e provengono tuttora molti attivisti del S.a.L.E. Nel 2007 si è preso coscienza di un forte cambiamento che stava avvenendo all’interno della città e si è deciso di dar vita a una realtà che si occupasse esclusivamente di arte e creazione, secondo logiche del tutto differenti e in buona sostanza contrapposte a quelle che regolano comunemente il “mercato dell’arte” e i suoi lavoratori. Abbiamo scelto uno spazio inserito nel famosissimo “chilometro dell’arte”, un quartiere che ospita molti luoghi di cultura come l’Accademia di Belle Arti, la Fondazione Vedova e Punta della Dogana con la collezione Pinault e che registra una forte disgregazione del tessuto sociale e abitativo. Possiamo aggiungere un’ulteriore motivazione: abbiamo sempre riscontrato uno scarso dialogo tra le università e il mondo artistico che transita a Venezia. Bisogna considerare che gli studenti scelgono proprio questa città come luogo di formazione, risiedono qui per alcuni anni: non vi arrivano per pochi giorni attratti da specifiche manifestazioni, ma sono uno strato sociale e una componente essenziale della cittadinanza. Purtroppo però sono spesso costretti a spostarsi una volta terminati gli studi perché il sistema culturale cittadino non dà loro spazio. Noi per primi siamo attivisti che si sono formati in ambito artistico e che si occupano della programmazione e curatela degli eventi, seminari, pubblicazione dello spazio e abbiamo sempre pensato che il potenziale creativo studentesco fosse mal gestito e poco incentivato. Il S.a.L.E quindi, fin dalla sua fondazione, ha espresso la precisa volontà di coinvolgere e coltivare queste nuove energie.

Dopo le occupazioni del 2007, è stato trovato un accordo con il comune per la gestione di uno dei due magazzini, che è oggi la sede del S.a.L.E. Se doveste fare un bilancio di questi primi cinque anni, come descrivereste i cambiamenti avvenuti?
Valeria: Sono cambiati molto gli aspetti concreti del nostro lavoro. Nei primi anni, abbiamo svolto moltissime attività, per la necessità di farci conoscere e affermarci nella realtà cittadina, ma anche perché per un lungo periodo il comune ha confermato l’accordo di mese in mese. Questo non ci permetteva di programmare a lungo termine e ci costringeva a organizzare mostre e allestimenti di breve durata. Attualmente l’accordo viene confermato con scadenza annuale e possiamo dunque avere una progettualità più ponderata. Abbiamo ridotto in parte il numero di iniziative, ma possiamo curarle di più e renderle più stabili nel tempo.

Lo spazio è nato come luogo dedicato a mostre, incontri con artisti e molte altre iniziative legate alle arti visive. Come si è innestata la programmazione relativa al teatro e più in generale alle performing arts?
Roberta: È stata una conseguenza naturale. Fin dall’inizio il S.a.L.E ha guardato attentamente al mondo della performance e negli ultimi anni il teatro ha trovato molti nuovi spazi. Anche le arti sceniche godono di un buon “terriccio studentesco” in città e soffrono di una mancanza strutturale di finanziamenti e spazi adibiti. È quindi coerente e necessario che il S.a.L.E si occupi di arti performative.

Il flyer di "Creating activism before action", ciclo di laboratori di performing arts al SaLE

Quali sono le principali attività teatrali che avete organizzato in questi anni?
Roberta: Nel 2010 abbiamo costruito un laboratorio con Alessia Zabattino e Pierpaolo Comino, finalizzato alla creazione di uno spettacolo tratto da La mostra delle atrocità di James Ballard. Il lavoro è durato sette mesi ed è stato realizzato con un metodo di coproduzione dal basso. Si è chiesto a molti coproduttori di versare una quota di 12 euro, offrendo loro in cambio la possibilità di partecipare a tre prove aperte e di discutere con gli artisti le scelte e le soluzioni sceniche. (leggi l’articolo). Nel 2011 abbiamo tentato un primo festival “Al limite. Sul teatro imprevisto”, con Motus, Macelleria Ettore, Garten, Arearea e Margine Operativo. Volevamo indagare il rapporto tra la produzione teatrale e lo spazio urbano, concentrandoci in particolare su esperienze sceniche esterne ai grandi circuiti, che operano in semi clandestinità e appunto al limite. Replicheremo l’esperienza festivaliera anche quest’anno, in autunno, ma prima abbiamo organizzato una serie di laboratori con registi e coreografi che cominceranno a marzo (leggi l’articolo).

L’ultima mostra, tuttora in corso, organizzata al S.a.L.E, la collettiva Open 4, indaga il rapporto tra arte e lavoro. Lo scorso 31 gennaio avete ospitato un incontro con la Rete dei Lavoratori dell’Arte. Come avete costruito questo percorso all’interno del mondo lavorativo?
Valeria: Ci interessa indagare la contemporaneità e comprendere come l’arte ci si relaziona. La precarietà è uno dei pilastri del dibattito contemporaneo, attraversa le nostre vite e le condiziona. Il lavoro artistico è per eccellenza precario e spesso privato di diritti minimi che andrebbero garantiti. In questo senso conduciamo un’inchiesta. Cerchiamo di tenere monitorata la situazione degli artisti visivi e degli spazi, con occhio sempre vigile alla speculazione abitativa.

Roberta: Abbiamo un forte legame con tutte quelle realtà teatrali che in Italia protestano e propongono soluzioni ai problemi dei lavoratori dello spettacolo. Penso innanzitutto all’occupazione del Teatro Valle di Roma e al recupero di un teatro abbandonato al degrado come il Marinoni del Lido, operazione che è nata proprio da una collaborazione con gli occupanti del Valle. La realtà e le condizioni dei lavoratori dello spettacolo dal vivo sono indubbiamente critiche e cariche di problematiche. Seguiamo e partecipiamo attivamente al dibattito che si sta portando avanti con l’occupazione del Valle, e in particolare il tema del reddito base, che crediamo possa essere una proposta davvero valida. Ci tengo anche a sottolineare come l’occupazione del Teatro Marinoni abbia avviato un percorso di discussione e dibattito intorno ai temi della produzione culturale e dell’utilizzo degli spazi a Venezia, con la creazione di una mappatura degli spazi inutilizzati e delle compagnie in difficoltà.

Ritorniamo allora proprio alla dimensione locale. Cosa rimproverate maggiormente alle grandi istituzioni culturali veneziane?
Valeria: Prima di tutto il fatto che siano calate dall’alto! Il rapporto che un grande evento come Biennale ha con la città è culturalmente inesistente. Nulla è pensato per includere Venezia nel processo artistico e culturale: molto semplicemente la città viene usata, come vetrina, come prodotto, come spazio da riempire e poi svuotare nuovamente.
Non si può dire però che Biennale non abbia ricadute positive in termini economici sulla città. Il turismo culturale inoltre è considerato decisamente più rispettoso e proficuo rispetto al turismo definito “mordi e fuggi”.

Roberta: L’impatto economico è evidente, ma è un dato di fatto che le ricadute culturali, produttive e di arricchimento sociale sono inesistenti. Questo è un problema che pochi considerano, ma è centrale. Il tessuto sociale urbano non riesce a reggere il gigantesco problema degli affitti e l’aumento dei costi quotidiani che questo modo di produrre cultura ha indubbiamente incentivato. Non si tiene conto della città, dei suoi abitanti e delle sue esigenze. Pensiamo agli studenti, ingaggiati come volontari o mal retribuiti per qualche mese di lavoro a condizioni contrattuali più che discutibili. Questo è un ottimo esempio di come i grandi eventi utilizzino risorse cittadine senza inserirle in alcun tipo di processo positivo.

Quali alternative concretizza il S.a.L.E?
Valeria: Porto un semplice esempio che dimostra come ci voglia davvero pochissimo per sovvertire alcune logiche. Da anni ormai Biennale utilizza sempre più spazi cittadini per eventi paralleli e collaterali. Lo scorso anno ci è stato chiesto in affitto lo spazio del S.a.L.E, come sede del Padiglione Catalano. Abbiamo rifiutato i soldi dell’affitto e abbiamo invece proposto una serie di incontri seminariali da costruire in partnership. In altre parole, invece di ottenere un compenso economico immediato, abbiamo scelto di partecipare attivamente e costruire significato all’interno di una collaborazione.

Roberta: Da anni seguiamo un progetto di recupero che abbiamo chiamato Re-biennale. Raccogliamo e ricicliamo materiali e oggetti che andrebbero buttati alla chiusura dei padiglioni nazionali. Li mettiamo a disposizione di altri artisti e li riutilizziamo. Abbiamo da poco inaugurato il nuovo soppalco del S.a.L.E., creato dall’artista visivo Thomas Kilpper e realizzato proprio a partire da materiale di scarto di Biennale. Tutti gli allestimenti del nostro spazio sono stati costruiti con questo metodo.
Riutilizzare, ricercare ostinatamente spazi di produzione e riflessione, riconquistare territorio e dialogo con la cittadinanza. Da anni si dibatte di impatto economico e sociale delle iniziative culturali e spesso l’approccio al tema è ideologico e superficiale. È comprovato che la cultura, pur nelle sue logiche di anti-mercato, produce valore economico e ricchezza, ma Venezia rappresenta in modo emblematico l’ambiguità di questa affermazione che, se assunta a paradigma dogmatico, rischia di essere fuorviante e talvolta pericolosa. Come si inserisce la cultura nei tessuti sociali è il vero nodo da affrontare. Questo comporta un’apertura e un abbandono delle logiche autoreferenziali e un ascolto profondo delle necessità dei territori. Il S.a.L.E. Docks ha da poco deciso di riservare una parte del suo spazio alla cittadinanza, alle associazioni e ai progetti che richiedono aiuto concreto e un luogo fisico in cui incontrarsi. Che se ne continui a fare buon uso!

Margherita Gallo

Cani senza padroni oggi

foto di Diego Beltramo

Sono passati quasi otto anni da quando lo spettacolo di Motus Come un cane senza padrone ha debuttato all’interno dell’ex complesso Italsider di Bagnoli, nella periferia di Napoli. Un lavoro innovativo che mostrava la modernità del gruppo riminese nella forte connotazione cinematografica aggiunta a quel loro viaggio teatrale iniziato negli Anni ’90. Dopo la fascinazione per Fassbinder, Genet e De Lillo, Motus abbracciava per la prima volta un autore a noi molto più vicino, un personaggio scomodo che ha fatto molto parlare di sé negli anni ’70 e che continua come un fantasma ad essere presente e contemporaneo ancora oggi: Pier Paolo Pasolini. 2003-2011: a Venezia per il Festival Al Limite – curato e organizzato all’interno del S.a.L.E. Docks– si è avuta l’occasione di vedere una piccola perla di uno dei gruppi di ricerca teatrale più importante a livello nazionale e che poco gira in terra veneta. Come un cane senza padrone è uno spettacolo che non dimostra la sua età, è sempre attuale e graffiante; e soprattutto l’esperienza di Motus si adatta come un guanto alla situazione ricreata da Al Limite: uno spazio alternativo completamente autogestito per dare voce a ciò che sta al margine e che proprio per questa sua caratteristica ha un valore aggiunto. Il margine e, più propriamente parlando, la periferia sono protagoniste in questo lavoro che intreccia differenti proiezioni video alla lettura di alcuni frammenti tratti da Petrolio, il romanzo incompleto scritto da Pasolini. La voce profonda di Emanuela Villagrossi racconta un momento rivelatorio dell’esistenza di Carlo, un dipendente dell’Eni abituato a una vita borghese, che si ritrova immerso in un’esperienza di estrema rottura: l’incontro sessuale con Carmelo, un “ragazzo di vita”.

estratto dal video di Simona Diacci

Contemporaneamente alla calda tonalità dell’attrice uno schermo proietta le immagini sfocate di un film – realizzato da Simona Diacci proprio per questo spettacolo – in cui Carlo, interpretato da Danny Greggio, e Carmelo, un disinvolto Franck Provvedi, vivono la loro breve ma intensa storia. Intensa solo per lo stesso Carlo: se per Carmelo l‘incontro con uomini altolocati rappresenta un modo di sostentamento danaroso, il protagonista di Petrolio, abituato a una vita borghese e priva di stimoli, solamente con questa esperienza, che unisce incredulità, violenza e una lacerante vitalità, comprende il vuoto che lo abita. E questo vuoto diventa un grido urlato nel proprio silenzio, in un deserto in cui ci si ritrova nudi e soli con se stessi, metafora di un Io interiore privo di significato. È in questa zona arida che Carlo capisce di essere stato per tutta la vita circondato da un “pieno”, da un mondo in cui il centro non era altro che una falsa illusione; è la periferia, la zona dimenticata da tutti che in Petrolio, e soprattutto in Come un cane senza padrone acquista una bellezza ritrovata, dimenticata e boicottata in cambio di quella vita borghese in cui Carlo “dormiva il sonno del suo corpo”. Oltre la lettura della Villagrossi e lo schermo in cui il film sulla storia di Carlo e Carmelo è proiettato, su tre pannelli scorrono le immagini di strade, di baracche, carcasse di automobili: zone periferiche in cui Pasolini si ritrovava a vagare con la sua macchina e che hanno ispirato tutto il lavoro di Motus. L’immagine della periferia – estesa su un campo visivo che presenta tre diverse inquadrature sincronizzate – acquista il fascino dei vecchi ciclorama e aiuta lo spettatore ad entrare in un viaggio di pura poesia. Questa esperienza inizia ma non ci si sente accompagnati; piuttosto si è soli di fronte a ciò che terrorizza e non si conosce, e che d’altra parte invita a essere incontrato. Come Carlo prova una pulsione mai sperimentata prima verso Carmelo, si prova la stessa fascinazione nell’entrare in una zona che sembra deserta ma che forse ha molto più da offrire rispetto ad un’altra affollata e più nota. In periferia si possono incontrare dei cani che vagano senza padroni: sono abbandonati, sono soli; cercano ciò che li soddisfi immediatamente, senza essere fedeli a nessuno, neppure a loro stessi. Semplicemente vivono di eccessi: ecco Carlo che, attraverso quell’angelo impuro personificato in Carmelo, vive una frattura interna sentendosi “come una cagna senza padrone”. Comprendere il deserto della propria esistenza risulta sempre attuale, oggi come ieri: Pasolini continua a essere a noi contemporaneo.

Visto a Al Limite Festival, S.a.L.E. Docks, Venezia

Carlotta Tringali

E.S.P. per un teatro sostenibile

Se ogni spettatore diventasse co-produttore diretto di uno spettacolo, cosa succederebbe al mondo del teatro?

Un’utopia, un sogno, una grande opportunità: questo è quello che sta cercando di realizzare E.S.P. esperimenti scenici permanenti, un giovane gruppo di formazione eterogenea, con sede a Venezia, che da novembre ha iniziato la sua attività teatrale e produttiva.

Prima ancora dei risultati, quel che attrae l’attenzione è il procedimento verso la realizzazione – sebbene questo collettivo sia appena nato parte subito con un’idea innovativa quanto semplice e stupefacente. Alessia Zabatino e Pierpaolo Comini propongono un metodo produttivo decisamente non convenzionale: la produzione dal basso. Per realizzare il loro spettacolo, incentrato su testi di Ballard, sono ricorsi ad una vera e propria sottoscrizione popolare, mettendo in pratica le ultime teorie in fatto di economia, comunicazione e sostenibilità di un progetto culturale. Una volta stabiliti i fondi necessari alla realizzazione dello spettacolo, il capitale necessario alla produzione culturale viene suddiviso in micro capitali «i quali non verranno conferiti da un unico soggetto finanziatore, ma dai futuri spettatori dello spettacolo».

Una nuova strategia di raccolta fondi e finanziamenti che non era mai stata applicata nel campo delle arti performative. Il metodo della produzione dal basso, infatti, è già stato usato in Italia dove è stato brevettato nel 2005 con l’apertura della piattaforma orizzontale www.produzionidalbasso.com, uno spazio internet libero e dedicato a progetti auto-finanziati. La produzione dal basso ha avuto successo soprattutto nell’ambito cinematografico, è arrivata sotto i riflettori con  il caso de II lupo in calzoncini corti, documentario volto a far conoscere l’universo delle famiglie gay. In questo caso la quota di produzione corrispondeva alla prevendita del dvd che sarebbe stato inviato al co-produttore una volta finito. Ma nel caso di uno spettacolo – per definizione effimero – è davvero difficile “pre-vendere” qualcosa di cui non si può sapere il risultato.

La struttura del progetto prevede anche questo: rendere partecipe il co-produttore nella fase operativa è un passo fondamentale per la realizzazione del progetto. E.S.P. nasce come un laboratorio di sette mesi che forma un team di aspiranti attori, tecnici e scenografi per arrivare alla messa in scena di uno spettacolo. In quest’arco di tempo una serie di prove aperte, newsletter, e incontri tiene aggiornati i co-produttori sull’attività del gruppo. Tra i costi da sostenere vi sono principalmente i costi di produzione dello spettacolo, non vi rientrano i costi del laboratorio di sette mesi, né tanto meno stipendi.

Per ridurre i costi al minimo sono nate alcune interessanti collaborazioni con il S.a.L.e Docks – uno spazio autogestito ormai simbolo della comunità studentesca veneziana – che ospita le prove e la rappresentazione finale – e con Rebiennale un progetto che utilizza i materiali di scarto della Biennale per riutilizzarli in progetti architettonici e artistici. Tenendo ben stretto il budget ai costi di produzione e cercando altre fonti per il sostentamento del gruppo, gli organizzatori sono riusciti ad ottenere una quota di soli 12 euro a persona, per un totale di 177 quote. Ovviamente la cifra non è stata ancora raggiunta, ma speriamo non tarderà ad esserlo. Si tratta certamente di un esperimento che deve essere ancora brevettato e collaudato ma merita di avere una chance.

Le porte che aprono questo tipo di produzione sembrano, infatti, molte. Prima di tutto quella di un teatro sostenibile, anche solo in piccola scala questo metodo consentirebbe a una moltitudine di giovani compagnie di autoprodursi senza dover cercare appoggio in enti esterni. Basando i suoi principi sulla fiducia del co-produttore, sulla trasparenza e sulla comunicazione diretta, il rapporto produttore-artista diverrebbe un importante legame aumentando anche la consapevolezza dello spettatore nei confronti stessi dell’arte.

Certamente ci sono anche i dubbi sull’effettiva riuscita a lungo termine di un progetto del genere, ma trattandosi di un primo esperimento in campo teatrale, possiamo sicuramente pensarlo integrato ad altri sistemi di produzione come premi e concorsi, che magari eviterebbero “la corsa” al finanziamento pubblico che vede tante giovani compagnie mutare la loro produzione in base al tema dell’anno. Rendere uno spettacolo totalmente libero da ogni tipo di mecenatismo oltre ad essere una fantastica utopia potrebbe rivelarsi realizzabile, fattibile e di vitale importanza per il sistema teatrale italiano.

Camilla Toso