2mondi. Anzi no, molti di più

L'immagine della 56a edizione del Festival dei 2Mondi, disegnata da Sandro Chia

L’immagine della 56a edizione del Festival dei 2Mondi, disegnata da Sandro Chia

Si dice che quei “due mondi” che danno nome al festival possano rappresentare l’incontro, che qui a Spoleto si è svolto ogni estate per più di trent’anni, fra canone e avanguardia, tradizione e innovazione. In realtà, l’idea del fondatore, Gian Carlo Menotti, pare fosse più di stampo geografico: si trattava di Italia e Stati Uniti – il festival aveva difatti un gemello americano in South Carolina (poi anche a Melbourne) e ha avuto il merito di portare nel nostro Paese le eccellenze della scena internazionale. Ma, comunque sia, in effetti cambia poco, se pensiamo a quando potessero apparire distanti, in quegli anni (la fondazione è del ’58) l’Europa della ricostruzione, appena uscita dal secondo conflitto mondiale, e l’America già in odore di beat, la provincia italiana che stava passando dall’arretratezza rurale alla modernità made in Usa a suon di tv e pin-up, chewing-gum e coca-cola, cult del cinema e della musica e elettrodomestici vari. La sperimentazione (non solo) artistica, anche teatrale, fuggita dalla follia dei totalitarismi del vecchio continente, aveva trovato casa proprio oltreoceano: ai bistrot parigini della belle époque, ecco sostituirsi le vertigini della New York di Pollock, di Cage e Cunningham, degli happening e della performance.

Per cui, sì: Italia e Stati Uniti. Ma con tutto quel coté di immaginario, politiche, culture e conseguenze tutto intorno, a stringere e disegnare i termini della relazione. Dunque anche tradizione e avanguardia, se si pensa alla pietra immutata di un pacifico borgo del sud dell’Umbria che ha visto passare per le proprie strade l’Orlando di Ronconi-Sanguineti, il teatro povero di Grotowski come Visconti, De Filippo e Nino Rota, poeti come Pound, Neruda, Ginsberg e via così, ogni estate, di spettacolo in spettacolo. La lirica e la prosa, la sperimentazione e la rappresentazione. Per una nuova eresia visiva di Bob Wilson, ecco una Napoli milionaria, per il ritualismo del maestro polacco, gli ultimi frutti di una regia critica ormai in via di estinzione. Il tutto affiancato in un unico programma, che fin dai suoi esordi ha provato a richiamare insieme, nei bei vicoli spoletini, arti visive e teatro, musica, opera e cultura a tutto tondo.

Ma che succede quando, in questi tempi cosiddetti e presunti post-ideologici, si dice che sia finita la storia, così come le grandi narrazioni, che siano crollati i canoni e i riferimenti? E, di conseguenza, tutto è già stato fatto, nessuna avanguardia è più possibile, neanche come idea? Una parola ormai dal forte retrogusto vintage, che nessuno usa quasi più, che implica un’altra faccia della medaglia che sconfina nell’esasperazione del consumismo, nell’ansia del nuovo che ha portato, oltre che sperimentazioni di indimenticata bellezza, anche il recente crollo socio-finanziario; una parola che si sussurra a bassa voce peggio di un pettegolezzo, accantonata, abusata e bistrattata. Ormai dimenticata, ma mai a sufficienza.
A Spoleto, tuttora, si possono fortunatamente visitare i preziosi monumenti di quella stagione di ribellione e speranza, annusarne le poetiche che furono a volte scandalose e immaginarne le potenzialità dirompenti; coglierne, in parte, i sensi e le aperture, serbarne frammenti di un ricordo come in un libro, vivente e ancora vivace, di storia dell’arte. Calder e Sol LeWitt, che hanno entrambi donato alla città proprie creazioni site-specific; gli universi labirintici e immaginifici di Bob Wilson e gli insidiosi, sorprendenti, percorsi decostruttivi di Luca Ronconi.

E che possono fare un festival e una città che hanno consacrato i propri anni d’oro alla ricerca internazionale, all’avanguardia, all’arte e al teatro, in un momento storico e sociale come questo? Il Festival di Spoleto sembra puntare sulla moltiplicazione di quei “due mondi” – entrambi oggi, con pudore, superati, ma non certo risolti – che l’anno portato alla ribalta, nella strada tracciata, come abbiamo visto, da una tradizione di apertura e interdisciplinarità originarie: quindi non solo eventi live, ma anche esposizioni e una nuova attenzione al web. E poi convegni (presente la psicoanalisi, la scienza), talk, premi, interviste a cielo aperto. La prosa vicino alla lirica, la musica classica e il jazz, la danza contemporanea e quella più consolidata. Una prospettiva molteplice che vuole essere, con forza, trasversale, quasi opponendo alla verticalità che fu della ricerca – e che, a volte, ne ha determinato un rischio di chiusura – un’orizzontalità diffusa: moltiplicando i “due mondi” che danno il nome al Festival in una quantità e varietà di rivoli, declinazioni, opportunità e eventi differenti.

Roberta Ferraresi

Questo contenuto fa parte del progetto E20UMBRIA per il Festival 2Mondi di Spoleto

 

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