e20umbria 2013

Si chiude il Festival dei 2Mondi e l’esperienza E20umbria

banner_e20umbriaSi è chiusa la 56edizione del Festival dei 2Mondi di Spoleto e anche l’esperienza di E20umbria, l’aggregatore di blogger turistici e teatrali arrivati dalle diverse città italiane per restituire, attraverso la scrittura, gli spettacoli, i luoghi, gli artisti e l’atmosfera di un festival storico.

Perché Spoleto, perché i due Mondi? Come ha ben scritto in un altro approfondimento Roberta Ferraresi i due Mondi a cui si faceva un tempo riferimento, quello Italiano e quello d’oltreoceano, si sono ad oggi moltiplicati, aprendo ad altre possibilità, non solo territoriali (leggi l’articolo). Con E20umbria si è cercato di collegare ancora altri due mondi: quello reale e quello del web, quello tangibile e quello virtuale; un modo per arrivare a chi non vive il festival fisicamente, ma di riflesso ne legge; un modo altro di attraversare un mondo fondato sulla performance live; un modo per avere e lasciare una traccia che rimanga nel tempo, oltre che nella memoria di chi l’ha vissuto in prima persona.

Chiesa di San Salvatore

Chiesa di San Salvatore

Si è cercato di bloccare schegge di tempo, emozioni, esperienze provando a tradurre in parole le escursioni nel territorio umbro, le passeggiate per i condotti spoletini, le mostre alla Rocca Albornoziana – edificio posto nel punto più alto della città, suggestivo e affrescato con dipinti del 1440 – o a Palazzo Collicola (ne abbiamo parlato in un parallelo tra Mark Morris e Gianfranco Chiavacci e nel Viaggio tra le mostre di Spoleto56), la bellezza eterea delle chiese longobarde, le note dei concerti che si sono susseguiti giorno dopo giorno (dal talentuoso Raphael Gualazzi all’orchestra della Scala diretta da James Conlon che ha chiuso il Festival con il concerto in piazza Duomo); ma soprattutto, mentre compito dei blogger turistici è stato quello di prendere avidamente tutto quello che veniva proposto a livello escursionistico, i blogger di teatro cercavano di incastrare il proprio calendario personale per vedere gli spettacoli dei grandi artisti attesi e passati per la 56edizione di Spoleto. Non stiamo a ripeterli tutti, qui trovate tutti gli articoli che Il Tamburo di Kattrin ha prodotto durante questa esperienza (link).

Parte interessante di questo progetto pilota è stato poter mescolare passeggiate per boschi a visioni di spettacoli teatrali e danzati, mostre a concerti, turismo culinario a scoperte dei beni storico-artistici di Spoleto, dove può capitare, per esempio, di entrare dentro una chiesa del 1700 e poi trovare un cripta risalente al 1200. Sugli spettacoli si sono riversate sensazioni e emozioni acquisite durante l’arco della giornata: impossibile scindere performance e territorio; le location mozzafiato hanno un’incredibile potenziale di suggestione che ricade su un pubblico storico che torna al Festival anno dopo anno, prendendosi ferie e vacanze.

Un progetto pilota che ha visto impegnata una grande quantità di energia, tra coloro che hanno ideato e20umbria e coloro che sono stati chiamati a partecipare. Kattrin ringrazia e saluta con affetto tutti i compagni di viaggio incontrati durante il Festival dei 2Mondi e coloro che hanno reso possibile questa esperienza!

Carlotta Tringali

Questo contenuto fa parte del progetto E20UMBRIA per il Festival 2Mondi di Spoleto

 

 

2mondi. Anzi no, molti di più

L'immagine della 56a edizione del Festival dei 2Mondi, disegnata da Sandro Chia

L’immagine della 56a edizione del Festival dei 2Mondi, disegnata da Sandro Chia

Si dice che quei “due mondi” che danno nome al festival possano rappresentare l’incontro, che qui a Spoleto si è svolto ogni estate per più di trent’anni, fra canone e avanguardia, tradizione e innovazione. In realtà, l’idea del fondatore, Gian Carlo Menotti, pare fosse più di stampo geografico: si trattava di Italia e Stati Uniti – il festival aveva difatti un gemello americano in South Carolina (poi anche a Melbourne) e ha avuto il merito di portare nel nostro Paese le eccellenze della scena internazionale. Ma, comunque sia, in effetti cambia poco, se pensiamo a quando potessero apparire distanti, in quegli anni (la fondazione è del ’58) l’Europa della ricostruzione, appena uscita dal secondo conflitto mondiale, e l’America già in odore di beat, la provincia italiana che stava passando dall’arretratezza rurale alla modernità made in Usa a suon di tv e pin-up, chewing-gum e coca-cola, cult del cinema e della musica e elettrodomestici vari. La sperimentazione (non solo) artistica, anche teatrale, fuggita dalla follia dei totalitarismi del vecchio continente, aveva trovato casa proprio oltreoceano: ai bistrot parigini della belle époque, ecco sostituirsi le vertigini della New York di Pollock, di Cage e Cunningham, degli happening e della performance.

Per cui, sì: Italia e Stati Uniti. Ma con tutto quel coté di immaginario, politiche, culture e conseguenze tutto intorno, a stringere e disegnare i termini della relazione. Dunque anche tradizione e avanguardia, se si pensa alla pietra immutata di un pacifico borgo del sud dell’Umbria che ha visto passare per le proprie strade l’Orlando di Ronconi-Sanguineti, il teatro povero di Grotowski come Visconti, De Filippo e Nino Rota, poeti come Pound, Neruda, Ginsberg e via così, ogni estate, di spettacolo in spettacolo. La lirica e la prosa, la sperimentazione e la rappresentazione. Per una nuova eresia visiva di Bob Wilson, ecco una Napoli milionaria, per il ritualismo del maestro polacco, gli ultimi frutti di una regia critica ormai in via di estinzione. Il tutto affiancato in un unico programma, che fin dai suoi esordi ha provato a richiamare insieme, nei bei vicoli spoletini, arti visive e teatro, musica, opera e cultura a tutto tondo.

Ma che succede quando, in questi tempi cosiddetti e presunti post-ideologici, si dice che sia finita la storia, così come le grandi narrazioni, che siano crollati i canoni e i riferimenti? E, di conseguenza, tutto è già stato fatto, nessuna avanguardia è più possibile, neanche come idea? Una parola ormai dal forte retrogusto vintage, che nessuno usa quasi più, che implica un’altra faccia della medaglia che sconfina nell’esasperazione del consumismo, nell’ansia del nuovo che ha portato, oltre che sperimentazioni di indimenticata bellezza, anche il recente crollo socio-finanziario; una parola che si sussurra a bassa voce peggio di un pettegolezzo, accantonata, abusata e bistrattata. Ormai dimenticata, ma mai a sufficienza.
A Spoleto, tuttora, si possono fortunatamente visitare i preziosi monumenti di quella stagione di ribellione e speranza, annusarne le poetiche che furono a volte scandalose e immaginarne le potenzialità dirompenti; coglierne, in parte, i sensi e le aperture, serbarne frammenti di un ricordo come in un libro, vivente e ancora vivace, di storia dell’arte. Calder e Sol LeWitt, che hanno entrambi donato alla città proprie creazioni site-specific; gli universi labirintici e immaginifici di Bob Wilson e gli insidiosi, sorprendenti, percorsi decostruttivi di Luca Ronconi.

E che possono fare un festival e una città che hanno consacrato i propri anni d’oro alla ricerca internazionale, all’avanguardia, all’arte e al teatro, in un momento storico e sociale come questo? Il Festival di Spoleto sembra puntare sulla moltiplicazione di quei “due mondi” – entrambi oggi, con pudore, superati, ma non certo risolti – che l’anno portato alla ribalta, nella strada tracciata, come abbiamo visto, da una tradizione di apertura e interdisciplinarità originarie: quindi non solo eventi live, ma anche esposizioni e una nuova attenzione al web. E poi convegni (presente la psicoanalisi, la scienza), talk, premi, interviste a cielo aperto. La prosa vicino alla lirica, la musica classica e il jazz, la danza contemporanea e quella più consolidata. Una prospettiva molteplice che vuole essere, con forza, trasversale, quasi opponendo alla verticalità che fu della ricerca – e che, a volte, ne ha determinato un rischio di chiusura – un’orizzontalità diffusa: moltiplicando i “due mondi” che danno il nome al Festival in una quantità e varietà di rivoli, declinazioni, opportunità e eventi differenti.

Roberta Ferraresi

Questo contenuto fa parte del progetto E20UMBRIA per il Festival 2Mondi di Spoleto

 

Nella Tempesta. Dalla parte di Calibano

"La Tempete!" di Irina Brook (credits Forster)

“La Tempete!” di Irina Brook (credits Forster)

Selvaggio? Certo. Indecente? Forse. Improponibile, fuori luogo, violento. Nè uomo nè bestia, nè uccello nè pesce. Ma anche schiavo, servo, oggetto di insulto e di sdegno. È Calibano, l’indigeno dell’Isola della Tempesta shakesperiana; con la sua sapienza antichissima, il rapporto non previsto con la natura, l’istinto e la vita.
Tutto il contrario di Prospero, il protagonista naufragato sull’isola che vuole addomesticarla a suon di “civilizzazione”, che fra magia e manipolazione cerca di controllare tutto, incluse naturalmente le forze della natura, imponendo la propria lingua e il proprio ordine a priori. Prospero è il cosiddetto progresso, l’idealismo buono e cattivo del miglioramento occidentale; mentre Calibano ha avuto la responsabilità di rappresentare, nei numerosi riallestimenti dell’opera shakespeariana, l’alterità per eccellenza: attraverso il suo filtro è possibile provare a indovinare quali forme assumesse l’idea del “diverso” in un certo posto, in un tal momento, in una cultura.

Ecco allora che abbiamo orde di attori extra-europei per il ruolo di Calibano. Personaggio il cui nome è tutto un programma (pare etimologicamente l’anagramma di “cannibal”, cannibale, come venivano chiamati gli abitanti dei Caraibi all’epoca), viene rappresentato come instintivo, pericoloso, che minaccia i singoli e l’ordine precostituito, il buon costume e le sue regole.
Certo ci sono Il ritratto di Dorian Gray e le distopie fantascientifiche; in mezzo, tutta una tradizione post-coloniale e post-sessantottina che ne ha tentato (e spesso conquistato) una possibile riscossa, utilizzando la figura di Calibano in chiave sovversiva; forse approfittandone di nuovo, seppure in altri sensi, ben più contemporanei: addomesticandolo ancora una volta alle proprie (anche se altre, diversamente pressanti, pure incontestabilmente giuste) urgenze.

A guardare a volo d’uccello tutte le sue versioni, sceniche e non, resta poco di “salvabile” del povero Calibano, invaso, schiavizzato e deriso; sia che fosse visto come alterità da omologare che come possibilità di riscatto, è comunque una minaccia, considerato il male fino a diventare sinonimo stesso di diabolico, come insegna nientemeno che Il dottor Zivago. Certo le sfumature sono innumerevoli, dall’ubriacone pericoloso al “buon selvaggio” di rousseauiana memoria, ma la storia, in fondo in fondo, è una: Calibano è l’altro, il ribelle da addomesticare, l’indigeno da civilizzare, lo schiavo da controllare. Così è anche nella Tempête!, una delle tre “isole” che compongono La trilogie des iles, progetto multi-linguistico fra Shakespeare e Marivaux che Irina Brook, figlia del celebre Peter, ha allestito nella splendida Chiesa di San Simone per il 56° Festival dei 2Mondi di Spoleto.

Ma che ne è di Calibano, il selvaggio (in)soggiogato per eccellenza, in un’epoca in cui – almeno apparentemente – non ci sono più colonie, le lingue e le culture si mescolano a proprio piacimento e gli equilibri geopolitici sono così cambiati da diventare irriconoscibili? Basti pensare al destino di potenze coloniali come Olanda e Portogallo, al riassetto dei rapporti fra Gran Bretagna e India; a quali sono i paesi che compongono il gruppo dei cosiddetti Bric emergenti (e ai Pigs, invece, in affanno permanente), all’Africa che sperimenta in certi casi forme democratiche, ai nuovi poteri del Golfo Persico, del Medio ed Estremo Oriente.

Non che le cose siano facili o che tutto sia andato a posto, con il ridimensionamento e il formale ritiro del dominio coloniale: il segno di quell’epoca resta chiaramente ben vivo, con le sue implicazioni materiali e culturali, non solo in loco, ma anche in quest’Occidente al tramonto incapace di gestire le conseguenze di una egemonia globale secolare.
In un eterno presente in cui lingue, culture, identità si intrecciano per ridefinirsi di volta in volta, chi è l’altro per eccellenza? In un mondo in cui tutto si mescola, chiunque è straniero, riemergono estremismi e fanatismi non solo geografici, chi va a rappresentare quell’incommensurabile differenza che fu del mostro Calibano? È ancora possibile rappresentarlo come il selvaggio violento e maldicente, insultato e asservito, ribelle e incompreso che ci ha tramandato il Bardo? Risposte e soluzioni facili non ce ne sono, congetture immediate nemmeno. Ma per scoprirlo, forse, basterà aspettare la prossima Tempesta.

Roberta Ferraresi

Questo contenuto fa parte del progetto E20UMBRIA per il Festival 2Mondi di Spoleto

Chi ha paura del minimalismo?

Bob Wilson "The Old Woman" (foto di Luigi Narici)

Bob Wilson “The Old Woman” (foto di Luigi Narici)

L’hanno chiamato, per decenni, teatro immagine, visivo e visionario. Il punto è stato, da sempre, quello del disegno scenico, dell’ambiente scenografico, della cura delle luci, delle atmosfere, delle proporzioni. Della concretizzazione, in scena, di un universo iconografico inafferrabile. Più istallazione che spettacolo dal vivo? Forse. Piuttosto, i modi in cui la presenza (la realtà) può affiorare alla percezione – emblematica è la progressiva apparizione di A e B (Mikhail Baryshnikov e Willem Dafoe), in apertura dell’ultima creazione di Bob Wilson, The Old Woman, al debutto al Festival di Spoleto: due volti bianchi, in tutto e per tutto espressionisti, sospesi a mezz’aria, piano piano si scoprono appartenere ai due straordinari attori, e poi ancora, si riconosce che sono sospesi su un’altalena a centro scena. Critica della presenza, della realtà; quanto del soggetto che la osserva.
Non a caso, sono molti, infatti, i critici e gli sguardi che hanno ceduto alla seducente tentazione di lasciarsi andare alla descrizione: un approfondimento di Franco Quadri (che ha avuto il merito di diffondere in Italia l’opera dell’artista americano) su Einstein on the Beach comincia con “un treno, un tribunale, un campo e una macchina del tempo” – la successione delle scene dello spettacolo. Distanza, incomunicabilità, predominio del percettivo e del visivo, astrazione forse; questi sono alcuni degli elementi con cui si è presentata in Italia l’opera di Bob Wilson, spesso in (più o meno dichiarata) opposizione con altre forme sceniche coeve, cosiddette “politiche” – più legate all’allenamento dell’attore, al coinvolgimento dello spettatore, alla condivisione e alla partecipazione. Teatro come valore d’uso, come strumento per fare qualcos altro. Meno estetica, più etica, incontro, autenticità.

Ma gli ultimi esiti di quello che è stato appunto chiamato “teatro immagine”, sembrano rimescolare le carte, illuminando con un segno diverso il valore d’uso dell’arte, la sua dimensione politica, finanche il sistema di (auto-)referenzialità. Non fosse per i recenti allestimenti che hanno visto insieme al lavoro Bob Wilson con il Berliner Ensemble fondato da Bertolt Brecht.

Si potrebbe dire qualcosa di simile per il minimalismo di Richard Serra e Donald Judd, Flavin, Morris, cui l’opera di Wilson, in particolare in questi ultimi anni, sembra ancora più prossima. È stato preso come esperienza-limite del monumento, rapita dalla propria cosalità, intrappolata nel materialismo, nel sovradimensionamento, in una vertigine puramente estetica. Ultima spiaggia di un moderno che non accettava il proprio decadimento, più che le prime incrinature di una crisi che poco dopo avrebbe rimesso in discussione canoni, certezze e abitudini. Solo col tempo si è dovuto riconoscere che proprio qui, invece, si ritrovano le radici di quell’arte concettuale destinata a cambiare per sempre, di lì a poco, condizioni e poetiche di tutta l’estetica occidentale. Di Fluxus, di Kosuth, perfino di tutto il post-concettuale che ha invaso mostre e musei dalla fine del Novecento. Perché le opere erano troppo grandi, invendibili, intrasportabili. Per cui, quello che arrivava alle mostre, alle gallerie, come alle case dei collezionisti, era piuttosto il progetto, il disegno. L’idea.

Bob Wilson "The Old Woman" (foto di Luigi Narici)

Bob Wilson “The Old Woman” (foto di Luigi Narici)

Vedere il teatro di Bob Wilson, anche il primo, sotto questa luce di un “pre-concettuale” − una relazionalità ante-litteram volta a mettere in crisi l’univocità delle logiche, a valorizzare (invece che misconoscere) l’esperienza del singolo, a smontare (anziché celebrare) i dispositivi della società di massa e delle sue tecnologie − è forse una delle più consistenti opportunità di queste sue ultime regie.

Per decenni, in quegli anni di operosi estremismi e inconciliabili opposizioni che hanno segnato il secondo Novecento, si è voluto − più o meno esplicitamente − contrapporre un teatro impegnato, autenticamente rituale, sostanzialmente politico, ad un altro metropolitano, più cinico e presunto autoreferenziale, incastrato nelle nuove tecnologie e in una volontaria incomunicabilità. Insinuando, a volte, l’esistenza di un’arte di resistenza, per tutti, e un’altra elitaria, (presunta) a suo agio con la seduzione e il potere dell’estetica tardo-capitalista. Le due facce della società dello spettacolo, l’una che la contesta, l’altra che la celebra; la prima alternativa, la seconda al servizio dell’immagine e del simulacro.
Forse i confini non erano e non sono così netti e riconoscibili come potevano sembrare.

Vedere il materialismo di Wilson, così come quello dei minimalisti americani, spogliato di tutte le incrostazioni della contingenza ideologica che ne hanno segnato i primi passi − anche consacrandoli al successo internazionale, beninteso −, permette forse di riannodare un filo rosso, in parte nascosto, in parte rimosso, del teatro politico novecentesco; e, allo stesso tempo, di riassestare croci e delizie della cosiddetta società dello spettacolo, fra consenso e contestazione. Quindi, in questo caso, di immaginare di poter ricontestualizzare i panorami mozzafiato dell’artista americano − così come tutto il ferro di Serra, le luci di Dan Flavin, il chiaroscuro di Sol LeWitt − alla luce di un engagement di lunga data, solidamente incardinato in un tentativo di critica e smantellamento dell’egemonia coeva. Scavando sotto le immagini, interrogando i limiti dell’estetica, sollevando il velo posato dalla cura visiva di superfici così seducenti, colpi di scena sorprendenti o di un disegno luci indimenticabile.

Roberta Ferraresi

Questo contenuto fa parte del progetto E20UMBRIA per il Festival 2Mondi di Spoleto

Gombrowicz con vista. Il romanzo (teatrale) di Luca Ronconi

La piazza del borgo di Bevagna (foto ProLoco Bevagna)

La piazza del borgo di Bevagna (foto ProLoco Bevagna)

Gombrowicz “con vista” per il nuovo lavoro di Luca Ronconi, Pornografia, romanzo dell’autore polacco del 1960. E non solo perché l’allestimento – in anteprima per il Festival dei 2Mondi di Spoleto – è incastonato nel cuore medievale della suggestiva Bevagna, uno dei più bei borghi del nostro Paese, in quel gioiellino che è il Teatro “Francesco Torti”. Panorami mozzafiato e scorci che sorprendono ad ogni passo in una quiete millenaria incorniciata dai boschi e dalla pietra; ma non è soltanto questa, naturalmente la prospettiva di cui parliamo nell’introdurre l’ultima creazione di Ronconi, oggetto di una sessione laboratoriale al vicino Centro di Santacristina. La “vista” che dà il titolo a questo articolo, piuttosto, vuole riferirsi all’attraversamento che il regista ha compiuto a più riprese all’interno della testualità teatrale, in particolare della forma-romanzo; sguardo che, come vedremo, può raccontare molto del presente e del passato, non solo teatrali, dell’Italia del secondo Novecento.

Una delle lezioni che ci ha regalato la lunga e vertiginosa opera di Luca Ronconi è forse l’inesauribilità delle risorse drammaturgiche, della parola teatralizzabile, delle potenzialità del testo per la scena, fin da quel memorabile Orlando Furioso, che l’ha consacrato all’avanguardia internazionale, in una riscrittura di Edoardo Sanguineti, proprio per l’edizione del Festival spoletino nel ’69. Non c’è, forse, forma testuale che Ronconi non abbia frequentato nei suoi lavori: i canoni del teatro occidentale (dalla tragedia classica all’assurdo, da Shakespeare a Ibsen) e i suoi esiti più contemporanei e insidiosi (Pasolini, Bond); saggi e testi poetici, l’epica, l’economia, la scienza e la fantascienza. E poi il romanzo, vero rovello di un artista che è tornato più volte a questa forma letteraria, spesso nelle sue forme più estreme. Celebre è l’incontro con Il Pasticciaccio di Gadda, ma poi anche Celine, Lolita di Nabokov e i Karamazov di Dostoevskij.

Se un regista del calibro di Ronconi è tornato così spesso a confrontarsi con la forma-romanzo – proprio in questi tempi ormai ben oltre la fine della storia, il crollo delle grandi narrazioni, la critica del soggetto –, inseguirne le ragioni potrebbe aprire a tracciare strade differenti nella storia della regia italiana, della sua parabola e della sua avanguardia.
Provando a scavare le strategie, gli approcci, le scelte che legano l’artista a questa tipologia di creazioni, il primo dato che salta all’occhio consiste nell’evitare il più possibile adattamenti o riscritture, versioni teatrali insomma, portando invece in scena la parola stessa del romanzo in questione, come accade del resto in questo ultimo incontro con Gombrowicz.

L'immagine dello spettacolo "Pornografia" (foto di Luigi Laselva)

L’immagine dello spettacolo “Pornografia” (foto di Luigi Laselva)

L’esito è quello di una presenza scenica e di una interpretazione che intrecciano l’irriducibilità dell’immedesimazione (dello spettatore nell’attore e nel personaggio, dell’attore nel proprio ruolo) e invece quei copiosi effetti di straniamento che hanno reso celebre la cifra del regista in tutto il mondo. Le figure in scena in Pornografia parlano di sè in terza persona; quasi mai dialogano fra loro, piuttosto descrivono i propri pensieri, le proprie azioni e le altrui. Il filo narrativo sembra avere la meglio su quello scenico-drammaturgico, se non fosse per la tessitura minuziosa, quasi maniacale del dettaglio, nella costruzione delle posizione e delle azioni che invece sembra insistere sull’affiatamento dell’ensemble di attori. Come se lo spettacolo si svolgesse su (almeno) due percorsi vicini ma non identici, quello della parola e quello dei fatti – coerentemente con un impianto narrativo che intreccia e oppone il mondo dell’immaginazione, della supposizione, della parola e della congettura a quello della realtà degli accadimenti (questa forse è l’ultima “pornografia” al fondo della pièce così come la disegna la regia di Ronconi).

Il segno rimanda con lucida chiarezza, quasi schiacciante, al proprio significato: la relazione è dichiarata, sempre insistita, univoca e lampante: se si va in chiesa c’è l’altare immacolato, la carrozza si muove per davvero e, a cena, troneggia una zuppiera in ceramica. Ma, allo stesso tempo, pur difendendo il filo che lega l’oggetto a ciò che rappresenta (un momento della giornata, ma anche un sentimento, un pensiero, una volontà), il lavoro di Ronconi ne denuncia la fragile instabilità, la precarietà essenziale – della cena resta solo quell’imponente zuppiera, della messa l’altare, la carrozza è senza cavalli – in una vertigine spiccatamente decostruttiva, capace di spogliare le sovrastrutture che incorniciano gli eventi e svelarne la sostanza. Sempre accennata e altrove, quasi negata, mai afferrata del tutto – come nelle zone più estreme e liminali della tradizione decostruzionista.

Un’anomalia tutta italiana, diceva Segre, è che strutturalismo e post-strutturalismo sono arrivati quasi all’unisono, andando a costituire un unicuum inestricabile, la cui eredità è ancora oggi saldamente presente (e con cui non si è ancora finito di fare i conti). Coerentemente con l’osservazione che molti hanno dedicato al repentino passaggio, quasi inafferrabile, che ha condotto il nostro Paese da una società all’antica, eminentemente contadina e per certi versi arretrata alla metropoli post-moderna, alla globalizzazione e alla rete. Il tutto nel giro di pochi, pochissimi anni; quasi un batter di ciglio. O poco più, fra il nostro lungo ’68 e, d’altra parte, le successive Repubbliche; fra ordine e anarchia, i blocchi della guerra fredda, la cultura di massa e l’irriducibile campanilismo nostrano.

Al cuore di questo gap, di questo vibrante grumo irrisolto della nostra cultura e società sta (anche) l’opera di un maestro come Luca Ronconi, che, capace di smontare i più imponenti canoni della drammaturgia occidentale ma anche di disegnarne ricostruzioni insuperate, torna più volte sulla forma-romanzo anche quando tutti ne denunciano l’estinzione, che frequenta tanto l’epica che la fantascienza, l’economia e la scienza. Per un teatro che si presenta ancora oggi come un’insaziabile strategia di conoscenza, riflessione, interrogazione del presente e del passato.

Roberta Ferraresi

Questo contenuto fa parte del progetto E20UMBRIA per il Festival 2Mondi di Spoleto

Animazioni digitali, installazioni e ritratti: viaggio tra le mostre di Spoleto56

gian carlo menotti

Teatro Nuovo Gian Carlo Menotti

Il Teodelapio di Alexander Calder: è la scultura che ci guarda appena scesi dal treno e fatti due passi in Piazza Polvani. La Cattedrale di Santa Maria Assunta: è l’edificio per il quale ci emozioniamo, dall’alto, nel nostro volo sopra la città. Antichità e contemporaneità attraversano Spoleto, nei vicoli e negli slarghi, nelle fortezze e nelle basiliche. Così, ogni volta che entriamo in un teatro, guardando la volta affrescata e il grande lampadario, torniamo indietro nel tempo: succede al Teatro Nuovo Gian Carlo Menotti, progettato da Ireneo Aleandri, decorato da Francesco Coghetti, inaugurato nel 1864. Accade al Teatro Caio Melisso, prima Nobile Teatro, devastato da un incendio, ricostruito a fine Ottocento e risorto grazie al processo di restauro, a cura della Fondazione Carla Fendi. Avviene mentre si scende la scalinata verso il Duomo, quando si gira l’angolo di Piazza della Signoria, andando verso il Teatrino delle 6, piccola e bellissima sala, o salendo verso Colle Sant’Elia. Tanti gli spazi spoletini che si aprono al Festival dei 2mondi, accogliendo non solo spettacoli, ma anche conversazioni, omaggi, eventi, mostre.

Sri Astari Rasjid - Undercover, Underwear, Underworld troops

Sri Astari Rasjid – Undercover, Underwear, Underworld troops

Alcune sale della Rocca Albornoziana ospitano Sconfinamenti, esposizione multimediale, collettiva, multidisciplinare, curata da Achille Bonito Oliva con direzione creativa di Elisabetta di Mambro e Franco Laera. Cinque schermi compongono The ice time – 40,000 years in 4 minutes di Peter Greenaway, fredda indagine ambientale e digitale, seguita dalle immagini calde proposte da Ahmet Günestekin nel video Belek (Memorie) proiettato tra la parete, dove scorre la cronaca in forma di didascalia, e il pavimento, che restituisce il massacro degli Armeni di Adana e gli scontri in Piazza Taksim, distanti nel tempo, vicini per orrore. Continua, la mostra, tra gli affreschi quattrocenteschi del piano nobile, con i ritratti di Shirin Neshat, raccolti nell’installazione fotografica Il teatro è vita. La vita è teatro. Don’t ask where the loves is gone: attori e attrici del teatro underground napoletano, uno in fila all’altro, sembrano osservare l’opera di Sislej Xhafa, Shhhhhhhhhhht: un corpo avvolto da una coperta, un uomo o una donna, le forme non lo rivelano, un homeless dormiente, un ubriaco svenuto, o forse morto. Mescola film muto, miniature persiane, azioni teatrali e animazioni digitali Shoya Azari in The king of black, tra allegoria e critica sociale. Chiude il percorso espositivo la sensuale e raffinata installazione di Sri Astari RasjidUndercover, Underwear, Underworld troops, rilettura delle tradizioni culturali di Giava, con corpetti e gonne in acciaio inox e fibra di vetro.

Antonio Marras e Danilo Bucchi

Antonio Marras e Danilo Bucchi

Dalla Rocca a Palazzo Collicola, dalle Mostre del Festival alle Mostre del Comune, curate da Gianluca Marziani e installate tra il seminterrato e il secondo piano dell’edificio gentilizio, residenza nobile nella quale hanno soggiornato Carlo di Borbone, Pio VI e Carlo Emanuele IV. Vive, la collezione permanente, al pianterreno dello spazio espositivo, tra l’arcobaleno di Sol Lewitt, nella stanza realizzata nel 2000, e gli universi di Calder, Ceroli e Richard Serra. Non vogliono dialogare con lo spazio ma accostarsi agli arredi del piano nobile, mantenendo la propria specificità, le opere di Antonio Marras e Danilo Bucchi, che con il titolo Insieme siamo altro denunciano la volontà di fondere disegno e sartorialità, tele e tessuti, matite e bottoni. Piccoli collages sbucano dai cassetti, trittici al femminile si adagiano contro le pareti, ruote di bicicletta vestite di vecchie giacche e polverosi gilet ciondolano in un corridoio luminoso, poetico affaccio tra stanze serrate e generose vetrate. Opere non stanziali, che dichiarano un attraversamento di spazi e un incontro di linguaggi. Un percorso scritto con l’inchiostro su tele bianche, cucito con punti lenti su tessuti antichi.

Stazione di Spoleto

Stazione di Spoleto

Un passaggio, come il nostro, per vivere il festival in ogni suo aspetto, per restituirne atmosfere e sapori, tra il calore delle luci sul proscenio e la fresca aria serale. E20umbria è dormire tra le mura romane dell’Hotel Aurora, volare sul biposto guidato da Pino Cirimele del Trevi Avio Club, saziare gli occhi e stuzzicare il palato con le opere d’arte culinaria del Ristorante Apollinare. E per qualcuno che prende un treno trascinando una valigia, c’è qualcun altro che arriva, per vedere nuovi spettacoli, incontrare altri artisti, sentire suoni diversi e assaporare mutate sensazioni. L’esperienza, per Il Tamburo di Kattrin, continua…

Rossella Porcheddu

Questo contenuto fa parte del progetto E20UMBRIA per il Festival 2Mondi di Spoleto

European Young theatre: la Silvio d’Amico per Duncan MacMillan

18062013-DSC_4458Sono più di cinquanta. Vengono da Cordova, Strasburgo, Parigi, Glasgow. Vivono gli spazi dell’incompiuto Palazzo della Signoria. Tra le volte del Teatrino delle 6 studiano, provano e si esibiscono. Dal 28 giugno, data di avvio del Festival dei 2mondi, e fino al 13 luglio, portano in scena testi di Sarah Kane, Fedor Dostoevskij, Harold Pinter, Euripide e William Shakespeare. Sono giovani attori e registi di accademie, scuole e conservatori francesi, polacchi, scozzesi. Sono ospiti dell’Accademia Nazionale d’Arte Drammatica Silvio d’Amico, che coordina il progetto European Young theatre in collaborazione con Union of Theatre Schools and Academies e l’insegnamento di Storia del Teatro Inglese del Dipartimento di Studi Europei, Americani ed Interculturali dell’Università La Sapienza di Roma.

18062013-DSC_3637Inaugura la serie di spettacoli l’Italia, con Lungs di Duncan MacMillan, nella traduzione di Matteo Colombo e per la regia di Massimiliano Farau. Venti gli attori in scena, allievi del II anno del Corso di Recitazione della Silvio d’Amico, che si alternano in un dialogo di coppia, attraversando una scena vuota – come da indicazioni testuali di MacMillan, che immagina il palco “privo di mobilio, attrezzeria, azioni mimate” – abitata soltanto dal suono delle parole e dallo scambio di voci e di fisicità. Hanno maglietta e scarpe marroni gli uomini, pantaloni rossi e camicia bianca le donne, sono uguali negli abiti, diversi per intensità.
Comincia tra gli scaffali dell’Ikea il confronto tra un lui e una lei di cui non conosceremo mai il nome, innamorati, fidanzati, conviventi sulla trentina, un dottorato lei, un lavoretto in un negozio di dischi e l’ambizione di fare il musicista, lui. Il desiderio di un figlio che si insinua nella vita di coppia, fra l’incoscienza di lui e la paura di lei. Le incertezze per la crisi globale, le catastrofi ambientali, le letture sulle radiazioni, le fissazioni ecologiste, e, su tutto, la paura di diventare adulti.
gruppo-Lungs-1Continua, il dialogo confuso, più volte abbandonato più volte ripreso, fra le pareti di un appartamento che non vediamo, tra il letto, dove provare a concepire e il pavimento dove stringersi in un abbraccio. La gioia per un test positivo, soffocata subito dallo strazio per un aborto spontaneo, l’incapacità di guardassi negli occhi, il congelamento dei sentimenti, e la separazione, dolorosa ma necessaria. Un crescendo, temporale e emozionale, un sovrapporsi di voci, e un accelerazione finale che ci trasporta in un futuro possibile. Asseconda, la regia di Massimiliano Farau, le evoluzioni del testo, si accordano, i venti attori, alle temperature del dialogo amoroso, per uno spettacolo asciutto, una struttura essenziale, che apre scenari reali, e contemporanei.
Oggi, alle 18, il secondo appuntamento con l’Escuela Superior de Arte Dramatico “Miguel Salcedo Hierro”, E.S.A.D. di Cordoba, che porta in scena Medea Banished, con drammaturgia di Nerea Garciolo Ruiz, Raúl Muñoz Camacho e regia di Raúl Muñoz Camacho.

Rossella Porcheddu

Questo contenuto fa parte del progetto E20UMBRIA per il Festival 2Mondi di Spoleto

Al via il Festival dei 2Mondi con il ritorno alla danza della Ferri

262404802052013211326_galleriaico1Dalla Piazza del Mercato alla Rocca Albornoziana, dal Teatrino delle 6 a Palazzo Mauri. Prime teatrali, esposizioni multimediali, rassegne di cinema, operette buffe, concerti, per un totale di 120 aperture di sipario e oltre 20 eventi dal 28 giugno al 14 luglio. Il Tamburo di Kattrin vive la 56esima edizione del Festival dei 2mondi di Spoleto, sedendo in platea, attraversando le sale museali, salendo e scendendo nei vicoli spoletini, scoprendo angoli nascosti. E restituendo, nello spirito di E20umbria.it, l’atmosfera sfaccettata di una manifestazione storica. Non solo recensioni, ma impressioni, conversazioni, suggestioni. Un diario di bordo a più mani, tra palchetti e locande, chiostri e palazzi.

Una pioggerella sottile ha bagnato il ritorno alla danza di Alessandra Ferri, in un Teatro Nuovo Gian Carlo Menotti affollato di personalità, saturo di pubblico dalla platea al loggione. Firma, l’ètoile, le coreografia di The piano upstairs, scritto dal drammaturgo John Weidman.

262423329062013115825_galleriaico1Lascia il palco, il pianoforte a coda, all’inizio della pièce, per ritornare soltanto alla fine, testimone muto di un matrimonio fallito. Una scenografia scarna, con divani sul proscenio e affaccio su uno skyline americano, accoglie le battute finali di una storia d’amore. Si alterna, il racconto di Boyd Gaines, marito abbandonato, agli assoli, ai pas de deux, ai pas de trois, che l’esile danzatrice esegue insieme a Attila Csiki, Stephen Hanna e Andrea Volpintesta. Si aggrappa, lei, alle braccia di possibili amanti, fantoccio abitato dall’infelicità, svuotato dalla nostalgia di figli mai nati, svilito da un rapporto sfibrato, logoro, consumato. È incapace, lui, di comprensione, indisposto al dialogo, ossessionato da una fine alla quale non riesce ad arrendersi. Una struttura classica, lineare, una regia sobria, essenziale, che vive di sottrazioni, firmata dal direttore artistico del Festival dei 2mondi, Giorgio Ferrara, per uno spettacolo che scorre, fluido, sulle note di Arvo Pärt, Fabrizio Ferri e Giovanni Allevi, i tre capisaldi della colonna sonora. E se l’evoluzione della storia vede succedersi momenti ironici, dialoghi drammatici e brevi scatti di violenza, l’immagine finale, quella di un abbraccio intimo, intenso, tra moglie e marito, lascia una sensazione di tenerezza, di calore, di pacificazione, tra gambe che si intrecciano e guance che si sfiorano.

Rossella Porcheddu

Questo contenuto fa parte del progetto E20UMBRIA per il Festival 2Mondi di Spoleto