Gombrowicz “con vista” per il nuovo lavoro di Luca Ronconi, Pornografia, romanzo dell’autore polacco del 1960. E non solo perché l’allestimento – in anteprima per il Festival dei 2Mondi di Spoleto – è incastonato nel cuore medievale della suggestiva Bevagna, uno dei più bei borghi del nostro Paese, in quel gioiellino che è il Teatro “Francesco Torti”. Panorami mozzafiato e scorci che sorprendono ad ogni passo in una quiete millenaria incorniciata dai boschi e dalla pietra; ma non è soltanto questa, naturalmente la prospettiva di cui parliamo nell’introdurre l’ultima creazione di Ronconi, oggetto di una sessione laboratoriale al vicino Centro di Santacristina. La “vista” che dà il titolo a questo articolo, piuttosto, vuole riferirsi all’attraversamento che il regista ha compiuto a più riprese all’interno della testualità teatrale, in particolare della forma-romanzo; sguardo che, come vedremo, può raccontare molto del presente e del passato, non solo teatrali, dell’Italia del secondo Novecento.
Una delle lezioni che ci ha regalato la lunga e vertiginosa opera di Luca Ronconi è forse l’inesauribilità delle risorse drammaturgiche, della parola teatralizzabile, delle potenzialità del testo per la scena, fin da quel memorabile Orlando Furioso, che l’ha consacrato all’avanguardia internazionale, in una riscrittura di Edoardo Sanguineti, proprio per l’edizione del Festival spoletino nel ’69. Non c’è, forse, forma testuale che Ronconi non abbia frequentato nei suoi lavori: i canoni del teatro occidentale (dalla tragedia classica all’assurdo, da Shakespeare a Ibsen) e i suoi esiti più contemporanei e insidiosi (Pasolini, Bond); saggi e testi poetici, l’epica, l’economia, la scienza e la fantascienza. E poi il romanzo, vero rovello di un artista che è tornato più volte a questa forma letteraria, spesso nelle sue forme più estreme. Celebre è l’incontro con Il Pasticciaccio di Gadda, ma poi anche Celine, Lolita di Nabokov e i Karamazov di Dostoevskij.
Se un regista del calibro di Ronconi è tornato così spesso a confrontarsi con la forma-romanzo – proprio in questi tempi ormai ben oltre la fine della storia, il crollo delle grandi narrazioni, la critica del soggetto –, inseguirne le ragioni potrebbe aprire a tracciare strade differenti nella storia della regia italiana, della sua parabola e della sua avanguardia.
Provando a scavare le strategie, gli approcci, le scelte che legano l’artista a questa tipologia di creazioni, il primo dato che salta all’occhio consiste nell’evitare il più possibile adattamenti o riscritture, versioni teatrali insomma, portando invece in scena la parola stessa del romanzo in questione, come accade del resto in questo ultimo incontro con Gombrowicz.
L’esito è quello di una presenza scenica e di una interpretazione che intrecciano l’irriducibilità dell’immedesimazione (dello spettatore nell’attore e nel personaggio, dell’attore nel proprio ruolo) e invece quei copiosi effetti di straniamento che hanno reso celebre la cifra del regista in tutto il mondo. Le figure in scena in Pornografia parlano di sè in terza persona; quasi mai dialogano fra loro, piuttosto descrivono i propri pensieri, le proprie azioni e le altrui. Il filo narrativo sembra avere la meglio su quello scenico-drammaturgico, se non fosse per la tessitura minuziosa, quasi maniacale del dettaglio, nella costruzione delle posizione e delle azioni che invece sembra insistere sull’affiatamento dell’ensemble di attori. Come se lo spettacolo si svolgesse su (almeno) due percorsi vicini ma non identici, quello della parola e quello dei fatti – coerentemente con un impianto narrativo che intreccia e oppone il mondo dell’immaginazione, della supposizione, della parola e della congettura a quello della realtà degli accadimenti (questa forse è l’ultima “pornografia” al fondo della pièce così come la disegna la regia di Ronconi).
Il segno rimanda con lucida chiarezza, quasi schiacciante, al proprio significato: la relazione è dichiarata, sempre insistita, univoca e lampante: se si va in chiesa c’è l’altare immacolato, la carrozza si muove per davvero e, a cena, troneggia una zuppiera in ceramica. Ma, allo stesso tempo, pur difendendo il filo che lega l’oggetto a ciò che rappresenta (un momento della giornata, ma anche un sentimento, un pensiero, una volontà), il lavoro di Ronconi ne denuncia la fragile instabilità, la precarietà essenziale – della cena resta solo quell’imponente zuppiera, della messa l’altare, la carrozza è senza cavalli – in una vertigine spiccatamente decostruttiva, capace di spogliare le sovrastrutture che incorniciano gli eventi e svelarne la sostanza. Sempre accennata e altrove, quasi negata, mai afferrata del tutto – come nelle zone più estreme e liminali della tradizione decostruzionista.
Un’anomalia tutta italiana, diceva Segre, è che strutturalismo e post-strutturalismo sono arrivati quasi all’unisono, andando a costituire un unicuum inestricabile, la cui eredità è ancora oggi saldamente presente (e con cui non si è ancora finito di fare i conti). Coerentemente con l’osservazione che molti hanno dedicato al repentino passaggio, quasi inafferrabile, che ha condotto il nostro Paese da una società all’antica, eminentemente contadina e per certi versi arretrata alla metropoli post-moderna, alla globalizzazione e alla rete. Il tutto nel giro di pochi, pochissimi anni; quasi un batter di ciglio. O poco più, fra il nostro lungo ’68 e, d’altra parte, le successive Repubbliche; fra ordine e anarchia, i blocchi della guerra fredda, la cultura di massa e l’irriducibile campanilismo nostrano.
Al cuore di questo gap, di questo vibrante grumo irrisolto della nostra cultura e società sta (anche) l’opera di un maestro come Luca Ronconi, che, capace di smontare i più imponenti canoni della drammaturgia occidentale ma anche di disegnarne ricostruzioni insuperate, torna più volte sulla forma-romanzo anche quando tutti ne denunciano l’estinzione, che frequenta tanto l’epica che la fantascienza, l’economia e la scienza. Per un teatro che si presenta ancora oggi come un’insaziabile strategia di conoscenza, riflessione, interrogazione del presente e del passato.
Roberta Ferraresi
Questo contenuto fa parte del progetto E20UMBRIA per il Festival 2Mondi di Spoleto