L’hanno chiamato, per decenni, teatro immagine, visivo e visionario. Il punto è stato, da sempre, quello del disegno scenico, dell’ambiente scenografico, della cura delle luci, delle atmosfere, delle proporzioni. Della concretizzazione, in scena, di un universo iconografico inafferrabile. Più istallazione che spettacolo dal vivo? Forse. Piuttosto, i modi in cui la presenza (la realtà) può affiorare alla percezione – emblematica è la progressiva apparizione di A e B (Mikhail Baryshnikov e Willem Dafoe), in apertura dell’ultima creazione di Bob Wilson, The Old Woman, al debutto al Festival di Spoleto: due volti bianchi, in tutto e per tutto espressionisti, sospesi a mezz’aria, piano piano si scoprono appartenere ai due straordinari attori, e poi ancora, si riconosce che sono sospesi su un’altalena a centro scena. Critica della presenza, della realtà; quanto del soggetto che la osserva.
Non a caso, sono molti, infatti, i critici e gli sguardi che hanno ceduto alla seducente tentazione di lasciarsi andare alla descrizione: un approfondimento di Franco Quadri (che ha avuto il merito di diffondere in Italia l’opera dell’artista americano) su Einstein on the Beach comincia con “un treno, un tribunale, un campo e una macchina del tempo” – la successione delle scene dello spettacolo. Distanza, incomunicabilità, predominio del percettivo e del visivo, astrazione forse; questi sono alcuni degli elementi con cui si è presentata in Italia l’opera di Bob Wilson, spesso in (più o meno dichiarata) opposizione con altre forme sceniche coeve, cosiddette “politiche” – più legate all’allenamento dell’attore, al coinvolgimento dello spettatore, alla condivisione e alla partecipazione. Teatro come valore d’uso, come strumento per fare qualcos altro. Meno estetica, più etica, incontro, autenticità.
Ma gli ultimi esiti di quello che è stato appunto chiamato “teatro immagine”, sembrano rimescolare le carte, illuminando con un segno diverso il valore d’uso dell’arte, la sua dimensione politica, finanche il sistema di (auto-)referenzialità. Non fosse per i recenti allestimenti che hanno visto insieme al lavoro Bob Wilson con il Berliner Ensemble fondato da Bertolt Brecht.
Si potrebbe dire qualcosa di simile per il minimalismo di Richard Serra e Donald Judd, Flavin, Morris, cui l’opera di Wilson, in particolare in questi ultimi anni, sembra ancora più prossima. È stato preso come esperienza-limite del monumento, rapita dalla propria cosalità, intrappolata nel materialismo, nel sovradimensionamento, in una vertigine puramente estetica. Ultima spiaggia di un moderno che non accettava il proprio decadimento, più che le prime incrinature di una crisi che poco dopo avrebbe rimesso in discussione canoni, certezze e abitudini. Solo col tempo si è dovuto riconoscere che proprio qui, invece, si ritrovano le radici di quell’arte concettuale destinata a cambiare per sempre, di lì a poco, condizioni e poetiche di tutta l’estetica occidentale. Di Fluxus, di Kosuth, perfino di tutto il post-concettuale che ha invaso mostre e musei dalla fine del Novecento. Perché le opere erano troppo grandi, invendibili, intrasportabili. Per cui, quello che arrivava alle mostre, alle gallerie, come alle case dei collezionisti, era piuttosto il progetto, il disegno. L’idea.
Vedere il teatro di Bob Wilson, anche il primo, sotto questa luce di un “pre-concettuale” − una relazionalità ante-litteram volta a mettere in crisi l’univocità delle logiche, a valorizzare (invece che misconoscere) l’esperienza del singolo, a smontare (anziché celebrare) i dispositivi della società di massa e delle sue tecnologie − è forse una delle più consistenti opportunità di queste sue ultime regie.
Per decenni, in quegli anni di operosi estremismi e inconciliabili opposizioni che hanno segnato il secondo Novecento, si è voluto − più o meno esplicitamente − contrapporre un teatro impegnato, autenticamente rituale, sostanzialmente politico, ad un altro metropolitano, più cinico e presunto autoreferenziale, incastrato nelle nuove tecnologie e in una volontaria incomunicabilità. Insinuando, a volte, l’esistenza di un’arte di resistenza, per tutti, e un’altra elitaria, (presunta) a suo agio con la seduzione e il potere dell’estetica tardo-capitalista. Le due facce della società dello spettacolo, l’una che la contesta, l’altra che la celebra; la prima alternativa, la seconda al servizio dell’immagine e del simulacro.
Forse i confini non erano e non sono così netti e riconoscibili come potevano sembrare.
Vedere il materialismo di Wilson, così come quello dei minimalisti americani, spogliato di tutte le incrostazioni della contingenza ideologica che ne hanno segnato i primi passi − anche consacrandoli al successo internazionale, beninteso −, permette forse di riannodare un filo rosso, in parte nascosto, in parte rimosso, del teatro politico novecentesco; e, allo stesso tempo, di riassestare croci e delizie della cosiddetta società dello spettacolo, fra consenso e contestazione. Quindi, in questo caso, di immaginare di poter ricontestualizzare i panorami mozzafiato dell’artista americano − così come tutto il ferro di Serra, le luci di Dan Flavin, il chiaroscuro di Sol LeWitt − alla luce di un engagement di lunga data, solidamente incardinato in un tentativo di critica e smantellamento dell’egemonia coeva. Scavando sotto le immagini, interrogando i limiti dell’estetica, sollevando il velo posato dalla cura visiva di superfici così seducenti, colpi di scena sorprendenti o di un disegno luci indimenticabile.
Roberta Ferraresi
Questo contenuto fa parte del progetto E20UMBRIA per il Festival 2Mondi di Spoleto