centrale fies dro

Supercontinenti a Live Works 2017

A cosa serve un’opera d‘arte? Molti critici, studiosi e intellettuali hanno cercato nelle varie epoche di rispondere a questa domanda attraverso dibattiti, teorie, saggi; ovviamente qui non vogliamo addentrarci in una macro-questione del genere, ma sottolineare come l’uomo abbia sempre cercato un appiglio, una luce che indicasse, nell’incertezza della sua condizione precaria, una strada; forse chiediamo una lettura, una possibilità altra da quelle del nostro quotidiano: a volte capita che le opere d’arte illuminino delle zone altrimenti al buio, chiedendoci uno sforzo, facendoci fermare a riflettere sulla società in cui viviamo che cambia pelle continuamente, rigenerandosi e contraddicendosi.

A luglio a Dro, tra le montagne, la magnifica Centrale Fies, che durante i mesi invernali alacremente lavora tra produzioni e residenze artistiche, ospita il festival di arti performative Drodesera che ogni anno presenta un nuovo concept andando a indagare pieghe incerte del nostro presente e interrogando lo spettatore. Il 2017 è stato Supercontinent ossia “un ecosistema da esplorare dove la complessità permette di trattare tematiche e necessità attuali senza dimenticare la potenza della ricerca che sta nel mezzo, nella pratica artistica che genera addizioni e sottrazioni, per farsi segno e presentarsi al pubblico senza rinunciare a immaginare nuove destinazioni a cui approdare”.

Il tema di questa edizione si è concentrato proprio sull’accoglienza di tutte quelle sfumature che esistono nell’essere umano, a partire dalla calda questione identitaria, culturale, propria di ciascuno di noi. Un concept esplicitato anche nei 5 manifesti realizzati per l’identità visiva del festival: A.V.E.R.P., ossia le iniziali di ogni persona fotografata da Dido Fontana e ri-narrata grazie alle illustrazioni di Zoe Lacchei che ne ha ibridato figure, contesti e volti. Ciascuna di queste immagini è accompagnata da una domanda che interroga lo spettatore su cosa farebbe se si trovasse in determinate situazioni che chiamano in causa i diritti di artisti o di rifugiati. Supercontinent invoca l’empatia guardando oltre il contingente, chiede quello sforzo necessario a proiettare l’uomo verso un’esistenza comunitaria migliore, fatta di accoglienza, di condivisione.

“Può l’arte cambiare la realtà? Può l’artista lanciare un segno profondo in una comunità innescando con un atto performativo un dubbio, un’idea rivoluzionaria?”. I performer presenti a Fies vanno proprio a turbare, a innescare dei cortocircuiti che chiedono allo spettatore uno scarto/scatto in più verso la comprensione, la compassione, lo stupore; facendoci pensare che ci sono questioni, modi, usanze, culture che se mescolate, intrecciate e ibridate tra loro possono dar vita ad altro, a qualcosa non necessariamente definibile, ma rappresentativo di un nuovo segno di interpunzione. Un modo per aiutarci a leggere un presente in continua evoluzione e movimento, dove non esistono solo sistemi binari entro cui siamo obbligati a riflettere concettualmente e schematicamente, ma ci sono altre possibilità e altre forme di paesaggi che mutano e ci accompagnano verso nuove stupefacenti visioni. Verso un supercontinent insomma.

Live Works – Studio Visit

Il primo weekend della 37esima edizione di Drodesera è stato dedicato alla V edizione di Live Works Performance Act Award, piattaforma di ricerca curata da Barbara Boninsegna, Daniel Blanga Gubbay e Simone Frangi. Fondato nel 2013, il progetto si focalizza sull’approfondimento e all’ampliamento della nozione di performance; sostiene e produce ricerche ibride con l’intento di sottolineare la natura di apertura e fluidità del performativo, la sua implicazione sociale e politica. Per 10 giorni i 10 artisti selezionati – attraverso un bando che ha registrato più di 300 richieste di partecipazione – sono stati in residenza a Centrale Fies per poi presentare il lavoro svolto durante il weekend del festival a loro dedicato; dal 2017 una delle novità di Live Works è nella concezione del premio che vede vincitori tutti i finalisti, immettendoli in un processo di sostegno alla ricerca.

Se ci chiediamo quale sia il compito dell’arte, possiamo dire come non abbia solamente a che fare con la bellezza, ma anche con la capacità di interpretare dei temi caldi e allo stesso tempo sommersi del nostro quotidiano, ritrattandoli con la propria sensibilità per poi sottoporli all’occhio di chi guarda. Nel rimescolamento sta quell’impasto che aggiunge valore anche a un lavoro in progress, a cui si è arrivati dopo 10 giorni di residenza creativa a Centrale Fies. E allora andiamo a vedere più da vicino alcuni dei progetti presentati in questa edizione di Live Works a cui si è assistito.

C’è un’ibridazione culturale, sonora e generazionale nella performance di Mercedes Azpilicueta: con Yuko & Justine l’artista argentina ha coinvolto una signora e una musicista del territorio per dare vita a una nuova forma di memoria soggettiva. Partendo da due citazioni tratte dal libro The words of others di Leon Ferrari, Azpilicueta ha lavorato traducendo storie private e immagini intime, trasformandole in una sequenza di parole, poesie, musica e gesti in cui si sono affastellati dialetto locale, punti di vista insoliti, assonanze visive e storie private. Tradurre, come scriveva Cesare Garboli, significa tradire: e il tradimento qui sta proprio nel cercare ciò che fiorisce nella propria mente una volta stimolata da un’altra storia.

Madison Bycroft – foto di Alessandro Sala

Il tema dell’ibridazione si ritrova anche nello stupefacente, divertente, sottile e intelligentissimo lavoro di Madison Bycroft Mollusk Theory soft bodies. Partendo dal corpo molle di una seppia, l’artista australiana ha creato una lezione-performance divisa per capitoli in cui attraverso citazioni, canzoni rap, gesti, immagini video si sono affrontati metaforicamente o esplicitamente alcuni dei temi che interrogano la nostra società. E così i vari episodi in cui è diviso Mollusk Theory (origins, definition, lexicon, boundaries, drag, obscurity, love) non sono altro che il sunto di tutto quello che un corpo – qualsiasi, ma che in questo caso diventa politico – può contenere o dovrebbe contenere in sé. Durante la performance Madison Bycroft si trasforma da ragazzo a ragazza, da pesce a essere indefinito, per costruire e decostruire, interrogare e ironizzare usando la seppia come elemento per scardinare le categorie di riferimento e le varie classificazioni su cui si basa la nostra società: per via della sua forma e sostanza, questo essere marino non ha una precisa origine, non si può intrappolare in una definizione binaria di maschile e femminile, non ha un vocabolario di riferimento, non ha confini teorici e fisici in cui può essere delimitato, è ambivalente, è sfuggente; soprattutto scompare nell’inchiostro, segnando la sua assenza nella presenza.

Urok Shirhan – foto di Alessandro Sala

Identità nazionale, colonialismo e appartenenza culturale sono tematiche che attraversa Empty Orchestra di Urok Shirhan, un lavoro che ha diviso molto il pubblico soprattutto nelle reazioni emotive, tra chi rideva a crepapelle a chi era lacerato interiormente. L’artista olandese-irachena gioca molto sulla sua origine, sulla difficoltà di non percepire una vera e propria lingua madre divisa tra olandese, iracheno e libanese dando vita a una performance dove la fonetica, gli accenti, i dialetti indicano una provenienza non solo territoriale ma anche culturale, facendo sentire una persona parte di una comunità. Attraverso la riproduzione di alcuni video di cantanti propri della tradizione mediorientale, Urok Shirhan interpreta ciò che viene sottoposto all’occhio dello spettatore come donne e uomini intenti a performare una  canzone, per finire con l’inno iracheno restituito con il vibrato secondo la tradizione canora araba e quella americana, suggerendo implicitamente come l’Occidente possa annientare e colonizzare una cultura millenaria andando a sostituirla con la propria.

Claudia Pagès indaga invece i processi di comunicazione mentali che non implicano l’uso del linguaggio ma trasmettono pensieri all’altro attraverso l’espressione di una glossolalia. Con Emissions, fools & care ci parla di radio mentali e degli esperimenti di telepatia realizzati da Upton Sinclair e la moglie Mary Craig per poi finire nel sottile filo della disgregazione psichica citando l’Elogio della follia di Erasmo Da Rotterdam, ma perdendosi in un lavoro che risulta troppo parlato e poco performato.

Alok Vaid-Menon – foto di Alessandro Sala

Il tema dell’identità viene trattato anche da Alok Vaid-Menon con Watching you / Watch me che, utilizzando i social media più diffusi (facebook, instagram, tinder), dispositivi quali video, computer, cellulare e le loro app, dà vita a una performance che intreccia un’interessante forma che attraversa i confini dello storytelling, del visual mediale, sonoro e attoriale. Alok gioca – dilungandosi forse un po’ troppo – sul tema del gender, essendo un performer trans; sul colore della sua pelle, avendo tratti indiani ma vivendo a New York City; e su come si affidino troppo ai social network i propri pensieri, paure, intimità, interrogativi, inquietudini, all’eterna ricerca di riconoscimento, visibilità, attenzione e amore. In un meccanismo distorto e virtuale in cui mentre si guarda all’altro – alla sua eccentricità, al suo mondo privato e patinato, costruito ad hoc per attirare attenzione – si guarda a se stessi, indagando cosa ci unisce, ci respinge e attira, in un vorticoso scroll di immagini, stupore e finta emotività. 

L’edizione 2017 di Live Works ci mette di fronte a tematiche che interrogano la nostra sensibilità per accettare, accogliere, custodire il nostro presente. E lo continua a fare durante questi mesi invernali con le residenze offerte proprio agli stessi artisti che abitano temporaneamente Centrale Fies per cercare nuove forme d’arte, ma soprattutto nuove possibilità di vivere e sperimentare lavori che superino la performance. 

Un viaggio nei mondi di Drodesera

ph Alessandro Sala

ph Alessandro Sala

Non è cosa semplice oggi guardare al futuro. La società che si dipinge ogni giorno ai nostri occhi è spesso problematica, in crisi, lamentosa, arrabbiata, insicura, in difficoltà. Si cercano strade sicure da battere e perseguire: complicato trovarle e impossibile esser certi che siano quelle giuste. Bisogna tentare, aprirsi, mettersi in gioco, senza cercare la perfezione ma dando spazio a una necessità, ascoltarla, approfondirla e, se si riesce, soddisfarla; restare in ascolto, essere pronti a ciò che si modifica intorno a noi, intuire che da una piccolissima azione può accadere l’incredibile, può mutare il contesto e nascere un nuovo mondo, che prima non esisteva; nascosti, proprio in un angolo remoto mai considerato possono apparire dei germi che prima o poi si trasformeranno in vita.

World Breakers ha accolto delle necessità, dei cambiamenti, li ha incubati e ha lasciato loro spazio: la trentaseiesima edizione di Drodesera, a Centrale Fies, portava questo titolo e invocava proprio “i mondi ideali o semplicemente affini a chi li ha creati e l’inevitabile mutazione dello stadio originario che può avvenire anche per il più delicato battito d’ali”. Per mostrare queste possibilità, World Breakers presentava diversi “mondi” al suo interno, ossia quattro progetti differenti fatti da pensieri che si compenetravano e che contemporaneamente convivevano, nutrendosi l’un l’altro, distinti e allo stesso tempo affini: World 1 con la direzione artistica di Barbara Boninsegna e la co-curatela di Filippo Andreatta dedicato agli spettacoli più teatrali-performativi; World 2 focalizzato su Live Works_Performance Act Award con la curatela di Boninsegna, Daniel Blanga Gubbay, Denis Isaia, Simone Frangi, sezione ormai arrivata al suo quarto anno di vita in cui l’arte visiva si intreccia con le performing arts (per approfondire si può leggere la rassegna stampa che gli abbiamo dedicato l’anno scorso); World 3 con Urban Heat International lab Art, data and activism curato da Mali Weil, Annika Uprus e Sodja Lotker dove 15 tra artisti, studiosi e operatori si sono confrontati per tre giorni sulla ricerca partecipata e collaborativa di pratiche collocate tra arte, geografia culturale e attivismo; World 4 con Helicotrema recorded audio festival curato dal collettivo Blauer Hase e Giulia Morucchio: all’interno della splendida sala Forgia della Centrale il tempo si sospendeva con le tante persone sedute o distese a terra intente ad ascoltare brevi lavori artistici registrati esclusivamente su supporti audio che aprivano ad altri universi, storie, vite possibili.

Quattro Mondi per un’unica sede: Centrale Fies. Il coraggio da apprezzare di questo luogo risiede proprio qui, nell’intuizione e tentativo di creare ponti verso altre arti e nuove possibilità; di rischiare affidando parti di programmazione a curatori specializzati in campi che sconfinano dal performativo o l’installativo. Si allarga lo sguardo, si amplificano le realtà, si tenta di racchiudere germi vitali in queste bolle di possibilità, in dieci giorni di festa in cui si vive e si sperimentano sensazioni di rottura, fascinazione, ricerca; e si può provare la stessa percezione che regala un salto nel vuoto: l’atterraggio non è mai certo, ma restituisce la vertigine data da sorprese inattese. (E la sua bellezza nel guardare con la curvatura dello sguardo al salto appena compiuto, al coraggio nascosto, al suo attraversamento).

E cosa c’è di più inatteso del futuro: beffardo, stralunato, incerto, preoccupante; anche solo pensarlo può essere però pieno di stimoli e vitale. Alcuni dei lavori a cui chi scrive ha assistito durante il festival sembravano avere proprio questo fil rouge, un invisibile filo di ragnatela proiettato verso il futuro: cartoline dal futuro per Sotterraneo, previsioni del futuro per CollettivO CineticO, attenzione all’educazione come preoccupazione verso il futuro con Anagoor.

Postcards from future_ph Alessandro Sala

Postcards from the future_ph Alessandro Sala

In Postcards from the future di Sotterraneo, come suggerisce lo stesso titolo, il pubblico, diviso tramite dei braccialetti colorati fra chi è chiamato ad agire o ad assistere, inscena/osserva situazioni utopiche/screanzate/violente/postumane: nello stile dissacratorio, divertente ma mai innocente della compagnia toscana, vengono consegnati al pubblico tre tableaux vivants in cui germi abbastanza paradossali del nostro oggi sono portati alle estreme conseguenze, andando a costruire situazioni/soluzioni di vita in cui la parola normalità perde ogni tipo di significato e si è circondati da eccezioni e ibridi che respirano. Il 2036, il 2066 e il 3066 ci restituiscono tre scatti: anni lontani, paradossali in cui il pubblico è chiamato a prendere parte per riconsegnare un fermo-immagine-riassunto di uno stile di vita estremo, in cui appaiono degli oggetti che si fanno carichi di significato (un’ascia, delle maschere animalesche, transenne). Pensare al folle futuro senza valorizzare il fatto che noi siamo qui oggi e ora, perdendo di vista il mondo intorno a noi, il nostro presente. Allo spettatore all’uscita viene consegnato un foglietto che spiega come si possano richiedere queste cartoline/scatti in un momento imprecisato del futuro prossimo per tenere il ricordo di quello che è stato e vedere se almeno una piccola parte degli scenari utopici di Sotterraneo si sono realizzati.

Francesca Pennini_ph Alessandro Sala

La casa di pietra del fratello maggiore_ph Alessandro Sala

In Socrate il sopravvissuto / come le foglie la compagnia Anagoor, attraverso il romanzo Il sopravvissuto di Antonio Scurati e il Fedone di Platone riflette magistralmente sul significato di educazione oggi, sulla figura dei maestri, su quello che lasciano nei cuori e nelle menti dei loro discepoli/allievi. C’è in questo spettacolo, che raggiunge livelli altissimi di tensione e realizzazione scenica, un’attenzione rivolta al domani mai scontata, con delle domande faticose ma necessarie e forse anche per questo coraggiose: quale è il mondo che consegniamo ai nostri posteri, quale la memoria che tramandiamo e quindi quale futuro ci meritiamo? (per un approfondimento su questo spettacolo rimandiamo all’articolo di Roberta Ferraresi).

Continuando a srotolare il fil rouge rivolto al futuro, ci si imbatte nella performance di CollettivO CineticO La Casa di Pietra del Fratello Maggiore. Pensato per 6 spettatori alla volta, il lavoro della compagnia guidata da Francesca Pennini e Angelo Pedroni è un mini-viaggio che attraversa le stanze sotterranee della foresteria di Centrale Fies; un viaggio che si determina sin dall’inizio per ogni partecipante grazie a delle previsioni di futuro. Dalla pancia di un orsacchiotto viene infatti chiesto allo spettatore di estrarre l’oggetto che indicherà il percorso successivo. Solo così si potrà accedere a ulteriori stanze segrete che aprono a spettacoli privati: ognuno si costruisce il proprio viaggio/tragitto come nella vita stessa. E allora si può incontrare la splendida Pennini che a occhi chiusi e al buio danza illuminata da una piccola torcia, e viverlo come un regalo; mentre da un’altra parte viene chiesto di disegnare un pene per poi compiere il rito dell’evirazione: si invoca la rinascita o un gesto propiziatorio per ingraziarsi il proprio domani.

Il futuro si affaccia giorno dopo giorno ed è visibile nel nostro presente: sta a noi scegliere come accoglierlo o anticiparlo e tentare di intercettarlo come succede a Centrale Fies ogni anno, giorno dopo giorno, cura dopo cura.

Carlotta Tringali