festival biennale venezia 2011

La regia di Bieito si perde nella nebbia

Recensione a Desaparecer – di Calixto Bieito

Forte curiosità e alte aspettative per lo spagnolo Calixto Bieito, raramente presente su territorio nazionale: finalmente in Italia era possibile vedere uno tra i più intriganti Maestri dell’arte performativa, descritto come ‘il regista dello scandalo’ o il ‘Quentin Tarantino del teatro’ dalla duplice natura, acclamato sui palcoscenici internazionali per le sue regie liriche e noto per l’anima ribelle volta alla prosa. Come perdersi quello che si credeva potesse essere il rivoluzionario Desaparecer?

Presentato al Teatro Goldoni di Venezia durante la 41. edizione del Festival Internazionale del Teatro, il “poema per due voci perse nella nebbia”, come da sottotitolo, di scalpore non ne solleva; la sensazione più profusa è quella di essere al posto sbagliato, di fronte a un recital di stampo classicheggiante, ben interpretato, cantato, musicato e semplicemente costruito, secondo una struttura lineare di prosa, poesia, canzone e racconto. Le due presenze in scena, una donna e un uomo mai in dialogo tra loro – a cominciare dalla scelta di due lingue non comunicanti quali l’inglese per lei e lo spagnolo per lui – richiamano in modalità differenti i pensieri del solitario passeggiatore, vicino all’orlo del precipizio, Robert Walser, con il racconto horror de Il gatto nero e la poesia Il corvo di Edgar Allan Poe.

Maika Makovski, che ricorda a tratti Tori Amos e in altri PJ Harvey, dà prova di essere una bravissima compositrice seduta al pianoforte e davanti al microfono, ma ha una debole presenza scenica quando lascia lo strumento per vagare sul palco; il celebre attore Juan Echanove sembra invece vestire i panni troppo stretti di un rigido cantante lirico: piuttosto che muoversi, se ne sta per la maggior parte del tempo immobile, troppo concentrato a impostare i suoi monologhi, come fossero partiture musicali. L’impressione è che a mancare sia proprio la regia: i due protagonisti si annullano nel vuoto rarefatto dell’ambientazione, non giustificando le loro posizioni all’interno di questo spazio sospeso, che ricorda l’interno di un piano-bar di una nave.
Lo spettacolo si perde – non solo letteralmente – in un mare di nebbia. Forse il suo aspetto più fascinoso e interessante è proprio quello di far sentire lo stesso pubblico naufragato in un luogo non tangibile, sospeso nel magma bianco che lo assorbe completamente sin dall’inizio, suscitando dei risolini curiosi. Una pseudo-allegria che viene meno quando, dal nulla, proviene una voce, quella di Echanove, che necessita di sovratitoli per essere compresa (per quanti non capiscono lo spagnolo ovviamente); si alza la testa alla ricerca disperata di una traduzione, ma si rimane a bocca asciutta per buona parte di Desaparecer: anche le scritte proiettate sono impossibili da vedere per il troppo fumo che appanna la vista. A questo punto non rimane altro che far galoppare la fantasia dello spettatore, facile per le anime romantiche presenti in sala; ma a metà spettacolo, quando l’attore racconta il processo che l’ha portato a uccidere la moglie con un’accetta, l’immaginazione inizia a incespicare e la nebbia che invade il teatro sembra piuttosto diventare un gas soporifero.

Bieito consegna a questa Biennale uno spettacolo ingessato e ingabbiato in un teatro che ricorda più una lirica di retroguardia. Un recital ben confezionato, con una musica che strizza l’occhio allo spettatore, e che ottiene, nonostante tutto, diversi consensi da chi ha un’alta capacità di sognare e lasciarsi sommergere dall’astrazione.

Visto al 41. Festival Internazionale del Teatro, Venezia

Carlotta Tringali

Questo contenuto è parte del quotidiano “L’Ottavo Peccato”, e della sua versione web, per il 41. Festival Internazionale del Teatro alla Biennale di Venezia.

Fiamminghi in scena

Needcompany "Isabella's Room" (foto Eveline Vanassche)

Una serata tutta dedicata alla scena fiamminga quella dell’11 otttobre a Venezia al 41. Festival Internazionale del Teatro. Jan Fabre e Jan Lauwers hanno portato in scena la loro ‘spettacolarità’ – intesa volutamente nella sua accezione letteraria – rispettivamente con Prometheus Landscape II e Isabella’s room. In questa sede si prova a tirare un po’ le fila dei lavori di questi due registi entrambi provenienti da Anversa; una specie di taglio trasversale che unisce spettacoli diversi tra loro ma allo stesso tempo anche vicini, che puntano a una semplicità drammaturgica realizzata attraverso dispositivi e trovate sceniche articolate e ricche di elementi, a seconda del caso.

A partire da Jan Fabre e dal suo richiamo del mito di Prometeo, dove l’eroe è saldamente legato e sospeso in aria, mentre sotto si agitano e si rincorrono gli energici attori di Troubleyn, uomini in preda a giochi lussuriosi e violenti, in una orgia di fiammelle, cenere, lapilli e fumosi getti inalati da enormi estintori. Violenza che il regista, durante il suo incontro con il pubblico, definisce «vitalità estrema», come fosse una fase postmoderna della vita; una vitalità contrapposta al fatto che «ogni secondo della nostra esistenza moriamo». Sul palco mentre gli dei, irati con colui che ha osato rubare il fuoco, esprimono il loro dissenso uno ad uno, contemporaneamente sembrano prendere vita i quadri dei pittori fiamminghi Bosch e Bruegel, dove strane figure antropomorfiche abitano un luogo incendiato e in perenne disfacimento, in un caos dove nessun particolare è lasciato al caso, ma è perfettamente curato. Asce, selle per cavalli, vestiti propri della comunità ortodossa fiamminga, che per l’occasione si trasformano quasi in costumi vicini a un immaginario bondage, vanno ad arricchire ancor più un mondo dove la domanda più frequente è “where are our heroes?”. La necessità di avere un eroe oggi, e di vederlo propriamente nell’artista che deve resistere, proprio come il Prometeo incatenato, scegliendo di non essere una vittima, è il centro dello spettacolo di Fabre: una tematica che va diretta sull’argomento, ma è ripetuta spesso in questo lavoro in maniera didascalica a livello sia testuale che scenico. Come sottolinea lo stesso Fabre, il suo studio è sul corpo del performer, concentrato ad incanalare una bellezza in senso estremo. Questi attori-ballerini alla continua ricerca di un’immagine e di un movimento estetizzante regalano moltissimi momenti di forte e impatto visivo ma lo spettacolo sembra imprigionarsi – come lo stesso Prometeo – in una retorica narcisistica dove non si percepiscono fuochi emotivi, ma solo sterili tentativi di incendi spettacolari.

Come in Prometheus Landscape II, in Isabella’s room di Jan Lauwers e la sua Needcompany c’è una linearità narrativa: i personaggi in scena raccontano la storia di una vita, quella di Isabella, ormai vecchia e cieca, rinchiusa in una stanza sovraffollata di oggetti africani da collezione e internamente abitata dalla memoria di affetti, proiezioni di persone care che continuano a vivere nella mente della donna. L’eccezionale Viviane De Muynck non è mai sola in realtà: affiancata da sette performer affiatati che instancabili prendono parola e danzano, animando e dando vita ai ricordi di Isabella, questa donna ricostruisce ciò che è stato della propria esistenza dominata dalla menzogna e dal pensiero che il dolore fosse una perdita di tempo. Ci sarebbero tutte le premesse per creare una tragedia, con un ulteriore approfondimento filosofico su ciò che è identità, memoria e menzogna (quest’ultima vista dal regista al centro del nostro sistema comunicativo, con una sua conseguente accettazione necessaria per sopravvivere). Ma Lauwers e la sua coinvolgente compagnia si dirigono verso un’altra direzione: accompagnando il testo scenico con coreografie estemporanee, canti e musica dal vivo, Isabella’s room aderisce in parte al genere del musical, ma non solo. Non vi è una azione centrale da seguire ma, proprio come nello spettacolo di Fabre, tanti piccoli ‘fuochi’: citando la lezione di John Cage, secondo cui servirebbero cinque centri di energia su palco, Lauwers crea avvenimenti contemporanei, facendo sì che lo spettatore sia l’autore di una sua storia, seguendo o sottraendo alla vista determinati passaggi piuttosto che altri. Un lavoro che si nutre di una vitalità positiva, dove nonostante le varie deprimenti o imbarazzanti vicissitudini di Isabella si sorride e si ironizza, quasi acquistando forza da questa donna che potrebbe reggere il mondo prendendo forza dai suoi cari ancora vivi nella sua mente e in scena a sostenerla: per riprendere Jan Fabre e contestualizzare il tutto, Isabella’s room non è la storia di un’eroina, ma neanche di una vittima; semplicemente di una donna che, proprio come Prometeo, resiste.

Carlotta Tringali
Questo contenuto è parte del quotidiano “L’Ottavo Peccato”, e della sua versione web, per il 41. Festival Internazionale del Teatro alla Biennale di Venezia.