jan lauwers needcompany

Marketplace 76: i brandelli della società contemporanea

foto di Wonge Bergmann, Ruhrtriennale 2012

foto di Wonge Bergmann, Ruhrtriennale 2012

Un anno fa, nella piazza del mercato di un piccolo paese, esplose un bombola del gas che causò la morte di 24 persone, tra cui tanti bambini.
Inizia così, con la narrazione di una tragedia, Marketplace 76, il lavoro che Jan Lauwers ha presentato al 42. Festival Internazionale del Teatro di Venezia. Al centro della scena una fontana: il vuoto che si crea dal disegno perimetrale di tavoli disposti a quadrato, una «fontana che dovrebbe donare amore, ma è arida come l’anima di un piccione morto». Attorno: molteplici stazioni teatrali per restituire una visione multifocale, cifra stilistica propria della Needcompany, riproposta in questo nuovo progetto a riprova del fatto che «nel palco non c’è un centro unico – come racconta il regista all’incontro svoltosi a Ca’ Giustinian, il giorno seguente la rappresentazione – il pubblico può scegliere cosa guardare. Non si comunica con la platea, ma con lo spettatore singolo».
Dopo Isabella’s room – lavoro del 2004 ospitato dalla precedente edizione della Biennale Teatro (2011) – la poetica della compagnia belga torna a investire lo spettatore che, se da un lato si trova sovraccaricato dal susseguirsi di informazioni, dall’altro può lasciarsi catturare dall’immaginario che Lauwers costruisce. Partendo da un fatto ambientato in un non meglio specificato paese, il regista esplora dinamiche ed eventi propri della società contemporanea, esasperandone le declinazioni fino all’esplosione psicologica degli abitanti di questo mondo.
Dalla festa di commemorazione per le vittime dell’incidente, Marketplace 76 sviluppa una serie di microstorie – concatenate e allo stesso tempo drammaturgicamente autonome – provocatorie ed eccessive, ma così plausibilmente vere da apparire pungenti: storie di reclusioni e violenze, pedofilie e stupri, omicidi e suicidi, il tutto risolto in scena dagli attori con la continua – e ironica – ricerca dell’elemento drammatico.

«Tutto finirà in una patetica bevuta».
Dal dolore intimo e personale del lutto familiare, alla voce spezzata di una mamma che ha perso la propria figlia; dall’intromissione esasperata della figura femminile conosciuta in tutto il paese, alla presenza dello spazzino – quasi un angelo (in uniforme arancione) in cui trovare riposo, tutto concorre verso la costruzione di un ritratto della piccola comunità chiusa ed egoista. La lucidità degli abitanti, tanto incapaci di trovare conforto nella propria vita quanto complici e generatori di nuovo dolore, viene continuamente messa in gioco, nascosta dall’alcolismo, come a identificare una condizione accettabile solo in uno stato di ubriachezza. E «tutto finirà in una patetica bevuta».

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Un dramma, dunque, ma colorato e vitale grazie all’energia degli attori e del regista (in scena). La copresenza di danza, musica e performatività fanno di Marketplace 76 una possibilità teatrale per fare entrare lo spettatore nel lavoro, in un clima di festa. Un’irrequietezza di composizione – così come definita dal regista – che consente uno scambio di energie sulla scena e lascia interagire tutti questi elementi in un’unica opera provocando una situazione in cui l’attore può trovare la propria libertà. «Si ha un buon teatro – dichiara Jan Lauwers – quando c’è un bravo performer che distrugge l’autorità del regista. Nell’ensemble è importante instaurare un equilibrio tra produzione e riproduzione, tra performer – attento alla produzione – e attore – macchina per la riproduzione. Scrivo sulla pelle di attori e performer e la loro pelle è per me, la pelle del mondo».

 

Visto alla 42° Biennale Teatro di Venezia

Illustrazioni di Mariagiulia Colace

 Elena Conti

Fiamminghi in scena

Needcompany "Isabella's Room" (foto Eveline Vanassche)

Una serata tutta dedicata alla scena fiamminga quella dell’11 otttobre a Venezia al 41. Festival Internazionale del Teatro. Jan Fabre e Jan Lauwers hanno portato in scena la loro ‘spettacolarità’ – intesa volutamente nella sua accezione letteraria – rispettivamente con Prometheus Landscape II e Isabella’s room. In questa sede si prova a tirare un po’ le fila dei lavori di questi due registi entrambi provenienti da Anversa; una specie di taglio trasversale che unisce spettacoli diversi tra loro ma allo stesso tempo anche vicini, che puntano a una semplicità drammaturgica realizzata attraverso dispositivi e trovate sceniche articolate e ricche di elementi, a seconda del caso.

A partire da Jan Fabre e dal suo richiamo del mito di Prometeo, dove l’eroe è saldamente legato e sospeso in aria, mentre sotto si agitano e si rincorrono gli energici attori di Troubleyn, uomini in preda a giochi lussuriosi e violenti, in una orgia di fiammelle, cenere, lapilli e fumosi getti inalati da enormi estintori. Violenza che il regista, durante il suo incontro con il pubblico, definisce «vitalità estrema», come fosse una fase postmoderna della vita; una vitalità contrapposta al fatto che «ogni secondo della nostra esistenza moriamo». Sul palco mentre gli dei, irati con colui che ha osato rubare il fuoco, esprimono il loro dissenso uno ad uno, contemporaneamente sembrano prendere vita i quadri dei pittori fiamminghi Bosch e Bruegel, dove strane figure antropomorfiche abitano un luogo incendiato e in perenne disfacimento, in un caos dove nessun particolare è lasciato al caso, ma è perfettamente curato. Asce, selle per cavalli, vestiti propri della comunità ortodossa fiamminga, che per l’occasione si trasformano quasi in costumi vicini a un immaginario bondage, vanno ad arricchire ancor più un mondo dove la domanda più frequente è “where are our heroes?”. La necessità di avere un eroe oggi, e di vederlo propriamente nell’artista che deve resistere, proprio come il Prometeo incatenato, scegliendo di non essere una vittima, è il centro dello spettacolo di Fabre: una tematica che va diretta sull’argomento, ma è ripetuta spesso in questo lavoro in maniera didascalica a livello sia testuale che scenico. Come sottolinea lo stesso Fabre, il suo studio è sul corpo del performer, concentrato ad incanalare una bellezza in senso estremo. Questi attori-ballerini alla continua ricerca di un’immagine e di un movimento estetizzante regalano moltissimi momenti di forte e impatto visivo ma lo spettacolo sembra imprigionarsi – come lo stesso Prometeo – in una retorica narcisistica dove non si percepiscono fuochi emotivi, ma solo sterili tentativi di incendi spettacolari.

Come in Prometheus Landscape II, in Isabella’s room di Jan Lauwers e la sua Needcompany c’è una linearità narrativa: i personaggi in scena raccontano la storia di una vita, quella di Isabella, ormai vecchia e cieca, rinchiusa in una stanza sovraffollata di oggetti africani da collezione e internamente abitata dalla memoria di affetti, proiezioni di persone care che continuano a vivere nella mente della donna. L’eccezionale Viviane De Muynck non è mai sola in realtà: affiancata da sette performer affiatati che instancabili prendono parola e danzano, animando e dando vita ai ricordi di Isabella, questa donna ricostruisce ciò che è stato della propria esistenza dominata dalla menzogna e dal pensiero che il dolore fosse una perdita di tempo. Ci sarebbero tutte le premesse per creare una tragedia, con un ulteriore approfondimento filosofico su ciò che è identità, memoria e menzogna (quest’ultima vista dal regista al centro del nostro sistema comunicativo, con una sua conseguente accettazione necessaria per sopravvivere). Ma Lauwers e la sua coinvolgente compagnia si dirigono verso un’altra direzione: accompagnando il testo scenico con coreografie estemporanee, canti e musica dal vivo, Isabella’s room aderisce in parte al genere del musical, ma non solo. Non vi è una azione centrale da seguire ma, proprio come nello spettacolo di Fabre, tanti piccoli ‘fuochi’: citando la lezione di John Cage, secondo cui servirebbero cinque centri di energia su palco, Lauwers crea avvenimenti contemporanei, facendo sì che lo spettatore sia l’autore di una sua storia, seguendo o sottraendo alla vista determinati passaggi piuttosto che altri. Un lavoro che si nutre di una vitalità positiva, dove nonostante le varie deprimenti o imbarazzanti vicissitudini di Isabella si sorride e si ironizza, quasi acquistando forza da questa donna che potrebbe reggere il mondo prendendo forza dai suoi cari ancora vivi nella sua mente e in scena a sostenerla: per riprendere Jan Fabre e contestualizzare il tutto, Isabella’s room non è la storia di un’eroina, ma neanche di una vittima; semplicemente di una donna che, proprio come Prometeo, resiste.

Carlotta Tringali
Questo contenuto è parte del quotidiano “L’Ottavo Peccato”, e della sua versione web, per il 41. Festival Internazionale del Teatro alla Biennale di Venezia.