spettacoli biennale teatro

Marketplace 76: i brandelli della società contemporanea

foto di Wonge Bergmann, Ruhrtriennale 2012

foto di Wonge Bergmann, Ruhrtriennale 2012

Un anno fa, nella piazza del mercato di un piccolo paese, esplose un bombola del gas che causò la morte di 24 persone, tra cui tanti bambini.
Inizia così, con la narrazione di una tragedia, Marketplace 76, il lavoro che Jan Lauwers ha presentato al 42. Festival Internazionale del Teatro di Venezia. Al centro della scena una fontana: il vuoto che si crea dal disegno perimetrale di tavoli disposti a quadrato, una «fontana che dovrebbe donare amore, ma è arida come l’anima di un piccione morto». Attorno: molteplici stazioni teatrali per restituire una visione multifocale, cifra stilistica propria della Needcompany, riproposta in questo nuovo progetto a riprova del fatto che «nel palco non c’è un centro unico – come racconta il regista all’incontro svoltosi a Ca’ Giustinian, il giorno seguente la rappresentazione – il pubblico può scegliere cosa guardare. Non si comunica con la platea, ma con lo spettatore singolo».
Dopo Isabella’s room – lavoro del 2004 ospitato dalla precedente edizione della Biennale Teatro (2011) – la poetica della compagnia belga torna a investire lo spettatore che, se da un lato si trova sovraccaricato dal susseguirsi di informazioni, dall’altro può lasciarsi catturare dall’immaginario che Lauwers costruisce. Partendo da un fatto ambientato in un non meglio specificato paese, il regista esplora dinamiche ed eventi propri della società contemporanea, esasperandone le declinazioni fino all’esplosione psicologica degli abitanti di questo mondo.
Dalla festa di commemorazione per le vittime dell’incidente, Marketplace 76 sviluppa una serie di microstorie – concatenate e allo stesso tempo drammaturgicamente autonome – provocatorie ed eccessive, ma così plausibilmente vere da apparire pungenti: storie di reclusioni e violenze, pedofilie e stupri, omicidi e suicidi, il tutto risolto in scena dagli attori con la continua – e ironica – ricerca dell’elemento drammatico.

«Tutto finirà in una patetica bevuta».
Dal dolore intimo e personale del lutto familiare, alla voce spezzata di una mamma che ha perso la propria figlia; dall’intromissione esasperata della figura femminile conosciuta in tutto il paese, alla presenza dello spazzino – quasi un angelo (in uniforme arancione) in cui trovare riposo, tutto concorre verso la costruzione di un ritratto della piccola comunità chiusa ed egoista. La lucidità degli abitanti, tanto incapaci di trovare conforto nella propria vita quanto complici e generatori di nuovo dolore, viene continuamente messa in gioco, nascosta dall’alcolismo, come a identificare una condizione accettabile solo in uno stato di ubriachezza. E «tutto finirà in una patetica bevuta».

Marketplace76_mariagiulia

Un dramma, dunque, ma colorato e vitale grazie all’energia degli attori e del regista (in scena). La copresenza di danza, musica e performatività fanno di Marketplace 76 una possibilità teatrale per fare entrare lo spettatore nel lavoro, in un clima di festa. Un’irrequietezza di composizione – così come definita dal regista – che consente uno scambio di energie sulla scena e lascia interagire tutti questi elementi in un’unica opera provocando una situazione in cui l’attore può trovare la propria libertà. «Si ha un buon teatro – dichiara Jan Lauwers – quando c’è un bravo performer che distrugge l’autorità del regista. Nell’ensemble è importante instaurare un equilibrio tra produzione e riproduzione, tra performer – attento alla produzione – e attore – macchina per la riproduzione. Scrivo sulla pelle di attori e performer e la loro pelle è per me, la pelle del mondo».

 

Visto alla 42° Biennale Teatro di Venezia

Illustrazioni di Mariagiulia Colace

 Elena Conti

Le vie del potere alla Biennale Teatro 2013

Quella del 2013 è una Biennale che può lasciare un segno. Non solo per una programmazione di ampio respiro internazionale, che ha voluto portare in Italia artisti da diversi paesi europei, alcuni difficilmente incontrabili sui palcoscenici nostrani; nemmeno soltanto per l’opportunità di trovare, nelle suggestive sale veneziane, diverse pièce bien fait, nel senso stretto del termine: dove l’attore recita, il testo comunica, la scena li accoglie entrambi, diretta da una prospettiva che si inserisce a pieno nel canone di quella che nel Novecento si è andata definendo come “regia” e che, negli ultimi anni, sembra soffrire di una qualche crisi d’identità. Altissimo livello tecnico e orientamento alla comunicazione, linee poetiche ben distinte, qualità della scena e del pensiero; ma non è solo quella di incontrare un teatro – magari un po’ mainstream, se si volesse rintracciare una qualche rigidità – in tutto e per tutto fatto ad arte, l’occasione della Biennale Teatro 2013, la quarta che vede alla direzione il catalano Àlex Rigola.

In un cartellone così denso di nomi, opere e culture potrebbe essere difficile andare a rintracciare qualche risonanza, qualche messa in condivisione o qualcosa in comune fra l’uno e l’altro artista o spettacolo. Invece, di materiale di riflessione, per provare a intuire tracce di una linea di lavoro, ce n’è parecchio: a un primo sguardo, la crisi che continua a scuotere l’Occidente – con una pressante incombenza della fine (in qualche caso dai risvolti quasi horror), l’incertezza che ci porta a chiederci “che succederà adesso?” e, non ultima, l’incommensurabilità delle macerie che abbondano alla fine di ogni spettacolo.

mouawadXtamburine

In particolare, è visibile una sorta di contrappunto che ha animato i dieci giorni di programmazione di questa Biennale, dal 2 all’11 agosto: quello fra individuo e collettività. Tanti, tantissimi i monologhi, pure lunghi e scenicamente articolati, forti di testi ben stratificati: il Leone d’Argento Angélica Liddell con il suo Riccardo III, una impegnativa serata tutta dedicata all’one-man show con Wajdi Mouawad (Seuls) e Dirk Roofthooft diretto da Guy Cassier in Sunken red, i quattro pezzi dell’Accademia degli Artefatti dal progetto I, Shakespeare su drammaturgia di Tim Crouch. Sull’altro versante, grandi opere corali, il cui capofila è sicuramente Marketplace 76 di Jan Lauwers e della sua Needcompany: un ensemble di base fiamminga che riunisce artisti di differenti formazione e provenienza, mescola linguaggi e stili, componendo opere policentriche, stratificate, sincopate; ma poi anche Motus, con la sua ultima creazione che si rideclina site-specific rispetto ai luoghi che incontra, così come il Picasso di La Veronal.

Nel primo caso, quello dei monologhi, l’affondo tutto interiore, all’interno dello scarto che si divarica sempre più fra individuo e società, dimostra di concentrarsi sul sé, sui limiti del proprio corpo e pensiero, a volte addirittura sull’auto-analisi: al centro, l’espressività del performer, il pensiero del singolo, la sua solitudine e solitarietà; attorno, spesso, il nulla, se non in termini di evocazione e invocazione. In alcuni casi (Liddell e Mouawad in primis), si tratta di artisti a tutto tondo, autori-attori che danno voce a drammaturgie proprie, si scontrano con l’inconcepibile chiusura del mondo e si abbandonano a se stessi, come intrappolati nella propria mente e nel proprio palcoscenico, dando vita a pezzi magnetici, di grande suggestione e virtuosismo (oratorio, fisico, linguistico). Le opere d’assieme, invece, mirano a composizioni a più mani e a più voci; l’esito è spesso quello di una policentricità della scena e del discorso, all’interno di cui è lo spettatore a dover scegliere la prospettiva e collocare il proprio punto di vista, dunque a costruire, da sé, la storia e a definire l’ambiente in cui accade. A differenza della linea dell’autore-attore, in cui tanto il versante creativo che quello scenico sono concentrati in un’unica figura, qui la regia si fa “debole”, aperta, integrata e integrabile.

potereFuori da quello che sembra un rigurgito dell’ormai classica (e perciò forse abusata) opposizione che Umberto Eco ha tracciato fra “apocalittici e integrati”, a scavarlo per bene, questo contrappunto, per i dieci giorni di arsura lungo cui si è snodata questa Biennale Teatro, si rischia di trovare un altro filo rosso, ben più sotterraneo e dunque forse ancora più determinante: quello del rapporto con il potere. Va da sé che, a livello di linguaggio scenico, la scelta fra la centralità di un’unica autorialità e il lavoro corale si possa leggere nei termini di un discorso e di una presa di posizione sui meccanismi di potere e di governo, tanto più che la prospettiva registica è figlia proprio di quel tempo neo-capitalista che ha voluto imporre ai sistemi di produzione figure di controllo e mediazione che al giorno d’oggi sembrano, per forza di cose, venir meno o almeno trovarsi con qualche problema di crisi d’identità. Ma i lavori in programma a questa Biennale Teatro non si legano al discorso sul potere soltanto per affinità o metafora: il tema, presente in modo più o meno esplicito, sembra percorrere a tutti i livelli le trame, i dialoghi, le riflessioni e gli assoli di questo 42° Festival. È così per il lavoro dei Motus («Where is the Master?», si chiedono, assieme a Shakespeare), per i personaggi “minori” degli Artefatti, sempre tratti dall’opera del Bardo; l’attenzione e l’interrogazione di un potere occulto, comunque non interamente percepibile, torna anche nei copiosi riferimenti alle tradizioni totalitarie (su tutti, indubbiamente, il franchismo), che ritornano con la Liddell e La Veronal, ma anche con Cassiers, nel sovrannaturale di Peeping Tom e Needcompany.

Che succederà adesso? Come affrontare la crisi? È possibile ricomporre lo scarto insanabile fra individuo e società? E c’è qualcosa di superiore, umano o meno, che ci sta guidando? Sembrano queste le domande che ritornano, come eco fra scena e realtà, lungo gli spettacoli di questa Biennale. Fra incomunicabilità e frantumazione, solitudine e collettività, paura e entusiasmo, la strada sembra quella della scelta di campo, dello schieramento: da soli o insieme, se stessi o gli altri, individuo o società.
Poi ci sono lavori, come Ein Volksfeind diretto da Thomas Ostermeier a chiusura del Festival, che si assumono la responsabilità di provare a rimettere insieme le cose e, dunque, senza scegliere l’uno o l’altro versante, lavorano proprio sullo scarto, sul confine, sulla scivolosità delle zone di frontiera (leggi l’articolo). Lo stesso avviene con El polìcia de las ratas (adattamento e regia del direttore Rigola dal racconto di Roberto Bolaño, leggi l’articolo), che si concentra proprio sulla difesa della differenza rispetto alle spinte omologanti della società e, per certi versi, in El viento en un violìn di Claudio Tolcachir. Certo nemmeno qui c’è via di scampo, né possibilità di salvezza alcuna; anzi, quello che va in scena nell’ibseniano Un nemico del popolo della Schaubühne, nella densità dei dialoghi di Bolaño-Rigola, nella trama agrodolce di Tolcachir è proprio l’irriducibile impossibilità di schierarsi definitivamente dall’una o dall’altra parte, di rifugiarsi soli con se stessi o gettare il proprio specifico nel magma della collettività. Una prospettiva che può diventare una indicazione di lettura attraverso cui ripercorrere dall’inizio alla fine tutta questa Biennale numero 42: fra tutti gli altri stimoli, pure preziosissimi, fra scena e realtà, il merito più interessante di una simile traiettoria è forse quello di provare a ricomporre in se stessa (osservando con precisione i limiti dello spettacolo, rispettando con cura i confini del teatro) la dimensione etica con quella estetica, la necessità politica con il lavoro sul linguaggio scenico.

Roberta Ferraresi

Illustrazioni di Mariagiulia Colace

I sette peccati alla Biennale Teatro

Si è concluso il 41. Festival Internazionale del Teatro della Biennale di Venezia e il clima teso che accompagnava la settimana di manifestazione non sembra essersi placato. Da un lato, le polemiche connesse alle condizioni di partecipazione imposte ai laboratoristi all’interno del progetto della Biennale Teatro che, in quest’edizione si è presentata parallelamente come rassegna di spettacoli riconosciuti a livello internazionale e come spazio laboratoriale. Dall’altro, gli scontri politici sul cambio di direzione della Biennale data la scadenza del mandato dell’attuale presidente Paolo Baratta alla fine di quest’anno. Buone notizie giungono intanto dalla parità di voto ottenuta − il 26 ottobre − in commissione Cultura della Camera per la nomina di Giulio Malgara, designato dal ministro Giancarlo Galan, risultato equiparato da alcuni a una bocciatura. Ma ciò che preoccupa maggiormente, al di là di incomprensibili maneggi politici, è l’instabilità che un simile sistema può alimentare all’interno di un ente culturale come la Biennale in cui il confine tra incarico e poltrona rischia di divenire particolarmente labile. Tornando alla presidenza Baratta, nello specifico per la sezione Teatro, con la direzione artistica di Àlex Rigola, il progetto per la 41ª edizione si è sviluppato nell’arco di un anno solare: è iniziato nell’ottobre 2010, quando sette Maestri sono stati chiamati a Venezia per tenere workshop intensivi con attori e si è concluso domenica 16 ottobre (2011) quando è stato reso pubblico, in un percorso itinerante tra splendidi − e non sempre accessibili − edifici veneziani, il lavoro laboratoriale ripreso dai registi durante la Biennale Teatro 2011. Tema: i 7 peccati capitali, sette riflessioni su cosa sia il peccato oggi.

"Attore, il tuo nome non è esatto" di Romeo Castellucci

Il primo incontro di quest’esperienza è stato con la poetica di Romeo Castellucci; una delle Sale Apollinee del Teatro La Fenice si è fatta spazio saturo di luce rossa per accogliere il peccato contemporaneo sul quale ha lavorato il regista: “il guardare”. Attore, il tuo nome non è esatto si presenta come esercizio e messa in discussione del ruolo attoriale per lasciare piombare la contraddizione direttamente sullo spettatore, voyeur per antonomasia. Il performer entra in scena con fare naturale, si avvicina al vecchio registratore dal quale parte la traccia audio di una possessione demoniaca mentre su uno schermo vengono proiettate didascalie che, riportando data e luogo dell’avvenimento, divengono asserzione del rappresentato. Questa è la struttura basica con la quale ogni ragazzo fa il proprio ingresso. Protagonista dell’evolversi del lavoro è il corpo che il performer presta a queste voci; si sottopone a contrazioni, convulsioni e scuotimenti in un atto privato di fronte al quale, tuttavia, è schierata una platea. A contrastare una messinscena didascalica e ripetitiva, come l’abuso dei performer di panna montata e del labbiale per seguire il registrato, sono succedute azioni che si sono aperte allo spazio, hanno sfruttato la sala in tutta la sua profondità e hanno mostrato una maggior libertà d’intervento dell’interprete. A segnare i limiti di ogni singolo pezzo (8 in totale), la reiterazione di un ghigno che, in chiusura, l’attore ha rivolto allo spettatore, come a dichiarare la complicità tra i due, prima di assumere nuovamente un’espressione neutra e abbandonare la stanza.

Schierati, immobili sui gradoni lignei della Sala Rossi, sempre alla Fenice, i ragazzi del laboratorio di Calixto Bieito attendono il gruppo di spettatori. Un cartello bianco attaccato sulla fronte di ognuno di loro dichiara il peccato: Envidia è il vizio capitale che Bieito sente contemporaneo. Una panoramica sul tema che soffre a volte di pressapochismo − come nell’analogia del peccato affrontato con l’invidia provata da un’attrice nei confronti di coloro che in cambio di una parte concedono prestazioni sessuali, che lascia tuttavia risaltare l’essenza stessa del progetto di Rigola per la Biennale Teatro 2011: il lavoro laboratoriale inteso come incontro tra diverse persone che, forse per la carenza di tempo, non è stato qui sviluppato drammaturgicamente. All’opposto è Death in Venice: un’estratto dell’opera di Mann in cui la regia di Thomas Ostermeier è precisa e preponderante, come costruita senza tenere presente il contesto di rappresentazione. La scenografia che accoglie lo spettatore nella sala dell’Istituto Veneto, con lo spazio scenico aggettante sul Canal Grande, lo porta a sbirciare tra i vuoti creati dalla barriera di piante che lo separano dall’azione. Il regista estrapola dall’opera la scena in cui l’anziano Aschenbach, solo, seduto al tavolo di un ristorante, si imbatte nella bellezza disarmante di Tadzio (interpretato da una giovane attrice) per trattare il peccato della “pedofilia”. Ostermeier riduce il lavoro laboratoriale ad una messinscena perfetta della sua regia. Sovrasta sui laboratoristi la presenza dell’attore tedesco Josef Bierbichler, convocato per l’occasione in laguna. Rilevato questo, Morte a Venezia non può che ridursi, nel percorso dei sette peccati ad una, per quanto splendida, fotografia.
Di tutt’altra poetica è The holy gangster di Jan Fabre (all’Ateneo Veneto), un ironico e disorientante affondo sulla figura del gangster. Cinque coppie, i cui ruoli sono stati invertiti − le donne sono travestite da uomini e viceversa − estremizzano sulla violenza esistente nel rapporto tra due persone, pongono accenti sulla sottomissione femminile fino a mandare in tilt il meccanismo relazionale, non tanto per rovesciarne le sorti o dichiarare passato il maschilismo, quanto per rilevare l’impossibilità di sottostare e definire nettamente tali dinamiche. La parola si intromette nel grande lavoro fisico dei performer solo nel finale in cui, dopo una carellata di citazioni (da San Francesco d’Assisi a Sant’Agostino) è l’aforisma di Gandhi a tirare le somme di questa breve, ma conturbante esperienza: «Occhio per occhio… e il mondo diventa cieco». Agli applausi rivolti alla performance di Fabre si lega immediatamente il vociare di alcune persone che accompagnano il pubblico alla Biblioteca dell’Ateneo Veneto: «la biblioteca interamente dedicata ad Amleto!» come viene esclamato da un attore sulle scale del palazzo. Burocracia. Brazo armado de la política o Maquinaria Idiota di Ricardo Bartís è un’intelligente rilettura del testo shakespeariano, con sviluppo drammaturgico metateatrale. In un continuo slittare tra vita e recitazione, un gruppo di attori si confronta − e scontra − sulle battute dell’Amleto per mostrare le incongruenze esistenti tra il sentire e la pubblica amministrazione. Nel succedersi di sketch colpisce la scena in cui Ofelia ricorda l’uccisione di suo padre «morto lì come un cane, dietro una tenda. E poi tutte quelle carte… », quelle infinite e logoranti pratiche funerarie; o l’anziana che continua a suonare alla porta della biblioteca pur dovendo recarsi in banca, ma lei «è un’attrice e questa burocrazia la uccide».

"The Slow Lie" di Jan Lauwers

Nell’incoerenza di successione del percorso tra questo racconto e l’effettiva presentazione delle performance, piace il pensiero di lasciare i lettori in un altro edificio veneziano che ha ospitato l’esito dei laboratori di Jan Lauwers e Rodrigo García: il Conservatorio Benedetto Marcello. Sul palcoscenico della Sala Concerti un performer è seduto al pianoforte a suonare Mozart. Come specchiato, davanti a lui, è disposto un altro pianoforte. Un’attrice con fare ammaliante descrive la scena di The Slow Lie, parla delle splendide pareti circostanti dai colori pastello e presenta i performer che, con movimenti fluidi e armoniosi, si muovono tra le poltrone di velluto rosso per attraversare la platea. Poi c’è Meredith, la cui presenza è nuovamente doppiata: fisicamente seduta in prima fila con le spalle rivolte al pubblico e frontale a questo, grazie alla ripresa di una telecamera che proietta le immagini su uno schermo. Il lavoro di Jan Lauwers è una “lenta menzogna”, non solo per la traduzione letterale del titolo. L’armonia dell’inizio, dichiaratamente artefatta, viene progressivamente disintegrata dall’accrescere di un ritmo interno ai performer che, come in una graduale esplosione di energia, mira allo smascheramento di stereotipi. «Contro l’indifferenza − come si legge nel catalogo − si erge Needcompany»; The Slow Lie è un tentativo, riuscito, di scuotere dall’apatia e dall’indifferenza sempre più dilagante e incondizionata, è una denuncia sull’incapacità di ascolto della contemporaneità.
Attraversando il chiostro interno prima di lasciare il Conservatorio, si incontra il settimo e ultimo peccato: “la solitudine”. Di fughe e isolamenti, di vita e di morte parlano le parole che giungono amplificate nello spazio, testi scritti dagli attori che hanno preso parte al laboratorio di Rodrigo García. Desconocer nuestra propia naturaleza si è sviluppato nel corso della settimana, quando il regista ha lavorato con i performer lungo le strade della città. Riportando il lavoro al Conservatorio, García accetta la possibilità che lo spettatore possa cogliere questo solo come installazione da attraversare ma, data la presenza umana − e scossi dall’indifferenza di cui solo poco prima ha parlato Lauwers, è difficile non occupare lo sgabello vuoto posto di fronte a colui che è intento a giocare al solitario con un mazzo di carte. Identici l’uno all’altro, come dei cloni, i performer siedono singolarmente a dei piccoli tavoli rotondi, sparpagliati per la corte. Trapela una richiesta di aiuto da queste figure nascoste sotto bellissimi costumi-scultura che rimandano alle tuniche del Ku Klux Klan; ma è una richiesta solo apparente, ogni piccolo gesto o ipotesi di incontro viene immediatamente respinto e la figura disturbata dall’incursore torna a chiudersi nuovamente nella propria solitudine.

Visto al 41. Festival Internazionale del Teatro, Venezia

Elena Conti

In diretta dall’Argentina: “El Box” di Ricardo Bartís

Recensione a El Box – Ricardo Bartís / Sportivo Teatral

A Biennale ormai finita si fa i conti con i numeri di questa edizione, decisamente straordinari se rapportati agli anni passati: un tutto esaurito che colpisce soprattutto chi tra i più scettici pensava che il costo del biglietto (tra i 25-20 euro) avrebbe disarmato anche i più volenterosi. E invece no, le sale erano piene zeppe di pubblico e di operatori; a richiamarli sono grandi nomi, dal suono esotico, grandi maestri non ancora passati da Venezia o di difficile intercettazione… Ci voleva insomma un direttore artistico internazionale e un ben più giovane delle media italiana (il quarantenne regista catalano Àlex Rigola), per stuzzicare Venezia con grandi aspettative. Le stesse motivazioni spingono il pubblico a riempire la doppia replica di El Box (La Boxe) della compagnia argentina Sportivo Teatral diretta da Ricardo Bartís.

“Sgarrupato”, è il primo termine che viene in mente, una volta seduti in platea nella suggestiva cornice del Teatro alle Tese all’Arsenale di Venezia. La scena ritrae una vecchia palestra, che è anche casa e studio, una struttura importante che riproduce un ambiente logoro, dalle pareti sporche, saturo di cianfrusaglie sparse qua e là, di mobili usati e ormai retrò. Una scena insolita per il pubblico italiano, ma simile a molte altre dei teatri argentini: ovvero strutturata esattamente sull’architettura della sala – trasformata in teatrale – in cui la compagnia svolge la propria attività. È in un ex-deposito di ambulanze che ha sede lo Sportivo Teatral, nel quartiere Palermo, uno dei più antichi della città di Buenos Aires. È in questa città che si svolge gran parte dell’attività teatrale dell’intero Paese: dai grandi musical di Avenida Corrientes, ai teatrini indipendenti di Avenida Humahuaca; un panorama certamente altro, con una storia e una società lontane ma a cui in un certo modo ci si sente affini.
Già da questi piccoli indizi si riesce a intuire come l’impronta sia diversa da quella di gran parte del teatro europeo contemporaneo. Se infatti in Italia, ma anche all’estero, tecnologia e immagine sono all’ordine del giorno, in Argentina è la drammaturgia a caratterizzare la contemporaneità. Ricardo Bartìs insieme al suo collettivo, con cui lavora dal 1986, ha costruito la trilogia sullo sport che, iniziata con La Pesca, terminerà con El Fùtbol (“il calcio”). L’opera presentata a Venezia, seconda parte della trilogia, vede protagonista della vicenda María Amelia (Mirta Bogdasarian), una donna in un mondo di uomini, una “boxeur” che il giorno del suo cinquantesimo compleanno rivive nel ricordo tutta una vita di fatiche, umiliazioni, conquiste, vittorie e sconfitte. Nessun invitato si è presentato alla sua festa, tranne il Dottor Otamendi (Matías Scarvaci), una vecchia conoscenza che ha macchiato in modo irreversibile la vita della protagonista, svelando al mondo il di lei segreto: Amelia gareggiava travestita da uomo quando era solo una ragazzina. Questa scoperta fece di lei una pioniera, ma fu anche portatrice di grandi dolori. Sull’onda dei ricordi tra i partecipanti alla festa si scatena una rissa, l’intento sportivo svanisce, i ricordi amari non sembrano più legati a quelli della protagonista ma piuttosto a quelli dell’Argentina stessa: violenze, soprusi, falsità che hanno rovinato un Paese e il cui dolore ancora permea le vene del suo popolo.
La metafora nel testo non sembra arrivare così diretta al pubblico italiano: vuoi per i sottotitoli, vuoi per uno stile recitativo al quale non si è abituati, l’opera non colpisce e non coinvolge il pubblico. Il foglio di sala con riferimenti storici sull’Argentina non basta a colmare un vuoto dato dall’ignoranza – in senso letterale – di avvenimenti e fatti storici che sono marchiati a fuoco nella memoria di un qualunque spettatore sudamericano. Forse sono proprio queste distanze socioculturali, ma anche estetiche, a lasciare perplessi. Lo stile retrò della scena e della recitazione fa sembrare tutto uscito da un’Italia degli anni Sessanta/Settanta e questo pregiudizio puramente estetico e formale, crea un muro attraverso il quale è difficile passare.
Al di là del muro, però, va l’operazione del direttore artistico Àlex Rigola, il cui intento è esattamente quello di passare i confini geografici, mostrare altro, anche con il rischio che qui possa sembrare esotico o di un’altra epoca.

Visto al 41. Festival Internazionale del Teatro, Venezia

Camilla Toso

 

 

L’Ottavo Peccato della Biennale Teatro

Un numero dell'Ottavo Peccato

Venezia, 41. Festival Internazionale del Teatro. Un programma, quello proposto dal catalano Àlex Rigola, che vede alternarsi in scena alcuni fra i registi più affermati del teatro – da Fabre a Castellucci, da Ostermeier a Rodrigo García. Ma l’idea di questa Biennale va oltre, distinguendosi per una precisa impostazione (concettuale e strutturale): da un lato, il tema dei Peccati capitali e, dall’altro, l’idea del teatro come laboratorio. La vera anima di questo festival, infatti, sono le centinaia di giovani artisti, attori, studiosi giunti da ogni parte d’Europa per partecipare ai numerosi workshop della Biennale – fra cui quelli che, in relazione al lavoro svolto lo scorso anno, porteranno alla realizzazione dell’evento conclusivo della rassegna, uno spettacolo itinerante su nuovi e vecchi peccati diretto da 7 maestri della scena contemporanea.

E la critica? Che spazio occupa in questo Festival? È L’Ottavo Peccato, daily magazine della Biennale Teatro che ha riunito a Venezia 12 giovani critici di diverse testate nazionali.
L’Ottavo Peccato, a cura di Andrea Porcheddu, è: Rita Borga (KLP), Fabiana Campanella (Drammaturgia), Maja Cecuk, Tommaso Chimenti (Scanner), Roberta Ferraresi (Il Tamburo di Kattrin), Renzo Francabandera (PaneAcqua), Maddalena Giovannelli (Stratagemmi), Graziano Graziani (Paese sera), Sergio Lo Gatto (Teatro e Critica), Silvia Mei (Culture Teatrali), Simone Nebbia (Teatro e Critica), Andrea Pocosgnich (Teatro e Critica), Carlotta Tringali (Il Tamburo di Kattrin).

Gli articoli sono online sul Blog di Biennale Channel e pubblicati ogni giorno in versione cartacea sul giornale distribuito nei teatri e negli spazi della Biennale, oppure visionabili, nello stesso formato, scaricando i .pdf che alleghiamo qui di seguito.

 

L’OTTAVO PECCATO 10.10>16.10
Quotidiano del laboratorio di scrittura critica a cura di Andrea Porcheddu

L’Ottavo Peccato n°1 (10 ottobre): il primo numero è dedicato ai Premi della Biennale (Leone d’oro al tedesco Ostermeier, d’argento a Kaegi di Rimini Protokoll), approfondimenti su idea e realtà dei teatri-laboratorio, aperture sulla vetrina Young Italian Brunch e un assaggio del tema fondante di questa edizione, i 7 peccati capitali.

L’Ottavo Peccato n°2 (11 ottobre): si parla di scenografia sul secondo numero de L’Ottavo Peccato, in coincidenza con l’avvio delle conferenze mattutine dedicate ad alcuni artisti della scena internazionale. Ci sono poi la recensione ad Hamlet di Ostermeier, le presentazioni degli spettacoli serali (Fabre e Lauwers) e si inaugura l’inchiesta di Fabiana Campanella, che chiede ad artisti, operatori, spettatori di scegliere il proprio peccato capitale.

L’Ottavo Peccato n°3 (12 ottobre) Terza puntata per il forum sul ruolo della critica a teatro, sul giornale di oggi. Con riflessioni sugli esiti attuali della regia, la prima recensione di Maja Cecuk sugli spettacoli di Young Italian Brunch (il nostro teatro visto da fuori), approfondimenti sugli spettacoli di Fabre e Lauwers e un report dal Teatro Marinoni dappertutto.

L’Ottavo Peccato n°4 (13 ottobre) Doppio approfondimento per il lavoro di Bartís in apertura e una presentazione che riflette contestualmente sui lavori di García e Castellucci; continua la riflessione sulla critica così come l’inchiesta sui peccati capitali, mentre si apre il report dai laboratori, questa volta su quello di Àlex Serrano.

L’Ottavo Peccato n°5 (14 ottobre) In apertura un’articolata riflessione sul sistema distributivo della performatività emergente in Italia e un editoriale sulle nuove tecnologie; poi un approfondimento sull’uso-abuso del microfono, i commenti del pubblico sugli spettacoli della sera precedente e molto altro ancora.

L’Ottavo Peccato n°6 (15 ottobre) Recensioni per Bieito e Muta Imago, una riflessione sul piccolo ‘scandalo’ di García (con tanto di arrivo di forze dell’ordine), la prospettiva di Maja Cecuk sugli spettacoli dell’Italian Brunch e un attraversamento degli spettacoli della Biennale, secondo i 7 peccati capitali.

L’Ottavo Peccato n°7 (16 ottobre) Nell’ultimo numero un’ampia intervista al direttore della Biennale Teatro, Àlex Rigola, un approfondimento sul lavoro svolto dagli scenografi nel ciclo di incontri che ha segnato tutte le mattinate del Festival, recensioni per Nadj e Rimini Protokoll.