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“Alcesti”: geometria, essenzialità, politica

Recensione ad Alcesti – regia di Massimiliano Civica

Simmetria e geometria

Semi-ottagono dell'ex Carcere delle Murate (foto di Duccio Burberi)

Semi-ottagono dell’ex Carcere delle Murate (foto di Duccio Burberi)

Due donne, due mobiletti, due candelabri enormi. Al centro, una pedana quadrata di poco rialzata che funge da palco. Si potrebbe dire, un ambiente in qualche senso domestico, monumentalmente domestico, in ogni caso privato. Racchiuso nello spazio del semi-ottagono del fiorentino ex Carcere delle Murate, una specie di piccolo scrigno dal soffitto altissimo contornato da una serie di balaustre che si perdono a vista d’occhio, per la prima volta utilizzato come luogo di spettacolo, l’Alcesti firmato da Massimiliano Civica e interpretato da Daria Deflorian e Monica Piseddu, insieme a Monica Demuru, è un lavoro di grande simmetria e di rigorosissima geometria. Tutto è incardinato su un disegno fondato sull’alternanza fra frontalità e profilo, fra verticale e orizzontale, che trova forza nell’ortogonalità espressa dalle azioni e dai movimenti. La simmetria che scandisce le entrate, gli incontri, le uscite delle attrici; che governa l’impostazione dello spazio scenico, con la coppia di mobili e di candelabri; che segna le azioni delle attrici, gli accessori che definiscono i diversi personaggi, le maschere. Queste scelte fondate sul doppio e sullo specchio – come a dire, forse, “cosa faresti al posto mio?” – sembrano riverberare non poco degli orientamenti strutturali definiti dalla affascinante architettura che racchiude lo spettacolo.

Nello spazio non c’è nulla di tutto quello cui si fa cenno nel testo: non la camera da letto in cui si dispera Alcesti, una volta venuto il momento della sua morte; non l’atrio del palazzo, il tempio della cerimonia, le cucine dove si confrontano i servi. Tutto si fonda su un copioso fluire verbale, magistralmente modulato attraverso piccole variazioni, e sulla presenza magnetica delle attrici, che creano una messinscena di potente fascino.

Minimalismo e astrazione
Il testo fluisce in un eloquio minimale, costruito di norma su lievissime e calibrate variazioni di tono e colore. Il tutto si svolge fra Deflorian e Piseddu, che in scena hanno il ruolo di evocare tutti i personaggi della tragedia: Alcesti e Admeto, il padre di lui, i servi, gli dei. Basta un piccolo dettaglio, il cambio di un accessorio, per concretizzare nello spettacolo il passaggio fra una figura e l’altra, una situazione e la successiva: Daniela Salernitano ha scelto per le due attrici gli stessi abiti (un paio di jeans, scarpe alte, una maglia nera e una tunica marrone), ma basta un batter d’occhio perché si mutino nel re e nella regina (il primo con una sottile collana di cerchi bianchi, l’altra con un filo di pietre rosse, stessi colori per le rispettive cinture), in Ercole e un cuoco (il dio tutto in rosso, il servo con un grembiule e un berretto), in Apollo e la Morte (il loro confronto, fatto solo di sottili bastoni tesi nel vuoto, sembra immobile, come estratto da una delle pitture vascolari classiche). Le maschere create da Andrea Cavarra, di una forte semplicità, con pochi tratti segnati e una matericità marcata, contribuiscono sia alla definizione delle figure in scena che alla loro scarnificazione rispetto alla dimensione umana, escludendo qualsiasi caratterizzazione mimica.

Daria Deflorian e Monica Piseddu (foto di Duccio Burberi)

Daria Deflorian e Monica Piseddu (foto di Duccio Burberi)

Lo spettacolo è scandito da dialoghi di preciso rigore, che di norma non coinvolgono più di due figure per volta, contrappuntati dalle entrate e uscite (dalla pedana, non di scena) delle attrici, anche queste disegnate con una precisa geometria: fra un’azione e l’altra raggiungono il proprio “armadietto” e, di spalle, trovano nei suoi cassetti e nei suoi scaffali le maschere, le cinture, le collane e i bracciali che definiscono i diversi personaggi. Questi momenti di pausa, spesso di silenzio, in cui il personaggio si “costruisce” sempre davanti agli occhi degli spettatori, costituiscono dei passaggi altrettanto portanti quanto quelli in cui si svolge l’azione scenica in senso stretto; come se questa regia fosse un’operazione anche plastica e scultorea, che lavora al trattamento dei vuoti e dei pieni dello spazio-tempo in cui si compie lo spettacolo.

Il minimalismo che distingue i lavori di Massimiliano Civica si esprime anche nella codificazione di una gestualità minima di grande efficacia: bastano due colpi di polso per suggerire un’uscita di scena, una testa appoggiata sulla spalla per richiamare il pianto e la disperazione; una promessa è una stretta di mano e la morte di Alcesti si concretizza nella cessione della maschera della regina al suo re.
L’astrazione dei gesti, di immediata comprensione, e in generale delle azioni ridotte al limite, rende entrambi allo stesso tempo leggeri, di rara delicatezza e precisione; diventano quasi coreografia, liberati in parte tanto dal dovere significante quanto dalla norma della comunicazione quotidiana (anche teatrale) del chiacchiericcio, della sovrabbondanza, dello spreco di parole, gesti, azioni.

Quello che resta di Alcesti
Nervi tesi, parole di un peso specifico inconcepibile che però tagliano lo spessore dell’aria con acutezza, così come le pause e i silenzi, una scena scarna e una gestualità ridotta all’osso; con il contrappunto di qualche nota volutamente stonata, che vira la purezza del materiale (testuale, sonoro, scenico, attoriale) verso imprevisti orizzonti espressionistici, come ad esempio nelle inflessioni delle lingue parlate dai servi e nel canto osceno di Ercole (incoronato di fiori visibilmente finti, prova a sedurre una serva cantando sempre più sincopato L’oselin de la comare); in alcune quasi impercettibili mosse guerresche che all’inizio vedono fronteggiarsi Apollo e la Morte (fra il cartone animato e Matrix, per intenderci) o nel finale affidato a Henna di Dalla; o infine, emblematicamente, nel ruolo del coro (interpretato da Monica Demuru), che guarda come noi lo spettacolo, si sposta a volte sedendosi a terra altre appoggiandosi alla parete, lo commenta, in altri casi lo accompagna con una partitura vocale fatta di fiati.

foto di Duccio Burberi

foto di Duccio Burberi

Su questi elementi si fonda questa versione della tragedia euripidea, spogliata delle incrostazioni che sono proprie dell’abitudine teatrale (di questo testo e in generale). Così scarnificata, torna in scena in tutta la complessità che, con la storia di Alcesti, ha attraversato i secoli: un’ambiguità che si irradia dal cuore stesso della tragedia e che è diventata esempio emblematico dell’impossibilità di comprendere e giudicare l’altro. Admeto ha una grande opportunità: scampare alla morte grazie all’intercessione del dio Apollo; ma – questo è il patto – qualcuno dovrà morire al suo posto. Il sacrificio non è compiuto da un suddito qualunque o dagli anziani genitori del re (cui pure è stato chiesto), ma dalla giovane Alcesti, moglie del re e madre dei suoi figli.

È straziante il dolore di Alcesti, costretta alla morte prematura; quello di Admeto, che dovrà privarsi della cara moglie; quello dei loro figli e dei servi. Eppure le cose non sono così semplici, basti pensare alla coinvolta auto-difesa espressa dal padre del re, che lo accusa di essere un vigliacco e spiega la propria voglia di vita; al fatto che ognuno pensa per sé, valutando il proprio dolore più grande di quello altrui; alla effettiva miseria di Admeto, sopravvissuto alla moglie ma destinato alla solitudine, o alle possibili ragioni del sacrificio di Alcesti.
Si potrebbe pensare, guardando a come vanno le cose, che Alcesti sia una tragedia a lieto fine (perché Ercole scende nell’Ade a recuperare la regina e la restituisce ad Admeto). Ma, ancora, la questione non è così lineare. L’univocità della prospettiva individuale ha la meglio su tutto ed è impossibile stabilire con certezza chi abbia ragione o torto, il giusto e lo sbagliato: ognuno ha le sue motivazioni, le esprime; non si dà mai mediazione, incontro, compromesso, ma una serie di punti di vista che possono soltanto giustapporsi.

Questa è una storia di amore, sacrificio, morte: tutti tabù che la società odierna tende a rimuovere o quanto meno ad allontanare, a disinnescare, addomesticandoli, rendendoli liquidi. In questo spettacolo, invece – forse proprio per via del minimalismo con cui si concretizza –, risaltano con forza. E sono accompagnati da un lavorìo di ambiguità e complessità che è difficile districare una volta per tutte; a cui, forse, ci si deve semplicemente abbandonare, riconoscendo la limitatezza della comprensione umana, della possibilità individuale di giudizio, della relatività delle motivazioni e delle scelte di ciascuno (ma, allo stesso tempo, senza abdicare a queste responsabilità, ma cogliendo il proprio piccolo e mobile punto di vista nel mondo in cui si vive, nelle azioni che si vedono e nei fatti di cui si è partecipi).

foto di Duccio Burberi

foto di Duccio Burberi

Essenzialità, necessità, teatro
Essenzialità, necessità sembrano le coordinate capaci di diventare chiavi per entrare almeno in parte in questo nuovo lavoro firmato da Massimiliano Civica e, di conseguenza, nel mistero di una delle più strazianti storie d’amore di sempre, della disumanità dell’uomo e allo stesso tempo della dedizione integrale all’altro che rappresenta.

Ma Alcesti è un progetto particolare e questo dato di necessaria essenzialità si rivela utile anche su altri livelli: non è solo una creazione sulfurea nel suo lancinante minimalismo, che, disincarnando la tragedia troppo umana per eccellenza, può farla tornare a parlare con immediatezza.
È uno spettacolo per pochi spettatori, una ventina, che fra settembre e ottobre si è svolto ogni sera per circa un mese in un luogo poco conosciuto di una capitale dell’arte e della cultura come Firenze. Lontano dal chiasso del turismo e anche del mondo del teatro, ad ogni replica ha chiamato a raccolta una piccola comunità di persone, invitate ad accomodarsi su poltroncine disposte in riga davanti alla scena, in uno spazio raccolto, quasi intimo, di grande suggestione architettonica. Nessuno che copre la visione, difficilmente qualcuno che distrae, la compressione della piccola sala rende l’atmosfera quasi materica; nessuno spettacolo prima e dopo (per quanto riguarda gli addetti ai lavori, abituati a tour de force di più messinscene in una serata). Soltanto Alcesti, le sue attrici, le misurate e perciò sempre magnifiche luci di Gianni Staropoli, il fondo neutro, le parole che tagliano l’aria.
Massimiliano Civica ha voluto dare vita a un progetto scenico senza l’intenzione di farlo girare, così il suo Alcesti diventa anche un intervento politico rispetto a un sistema teatrale che impone condizioni distributive (e di fruizione) da brivido (spazi inadeguati, condizioni al limite della legalità, programmazioni forzatamente intensive, e altre amenità del genere). Ma il progetto è dichiaratamente politico anche perché intende contestare, più in generale, le abitudini di una società ormai, secondo il regista, usa a consumare cultura e teatro passivamente, con scarsa motivazione e senza volontà di scegliere.

Si tratta di un discorso a dir poco legittimo, di spessore, fuori dal coro e per certi versi coraggioso (soprattutto nelle scelte che concretizza); lucido proprio perché così assolutamente estremo, importante nel suo integralismo che consente alle ragioni sottese di risaltare. Alcesti nasce e muore nello spazio per cui e con cui è stato creato. Però è un peccato, perché il discorso politico sviluppato da Civica intorno al suo nuovo lavoro, forse, avrebbe acquisito forza anche maggiore quanti più spettatori avrebbero avuto l’opportunità di confrontarcisi. E di andare, anche loro, per un po’, lontano dal chiasso del turismo e dello spettacolo, astraendosi dalla foga della routine, dall’ansia del consumo, dal bombardamento esasperante di offerte culturali sempre più nuove e affondando nel dramma mai completamente afferrabile di Alcesti; stando insieme ad altra poca gente, insomma, per un piccolo intervallo dal mondo e scoprire quanto può essere bello, nella sua assurda semplicità, essere vicino agli altri per vedere uno spettacolo.

Visto all’ex Carcere delle Murate, Firenze

Roberta Ferraresi